La mancanza d'idee è una brutta bestia,
terribile quasi quanto la peste e la morte.
L'unica differenza,
e non è poco,
è pur sempre la speranza
che il tempo passi e un'idea ritorni.
L'attesa talvolta è lunga
ma più è l'attesa maggiore è
la gioia al suo arrivare...
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
lunedì 27 gennaio 2014
sabato 25 gennaio 2014
La leggenda di Iside che diventa dea, dal Ramo d'oro di Frazer
Cari amici, questa sera torno ancora una volta a parlarvi del libro di Frazer, il ramo d'oro, per raccontarvi come secondo una leggenda di cui non avevo mai sentito parlare, Iside sia diventata Dea. Nella mia versione non vi è alcuna indicazione della provenienza di questo racconto ma poco importa, ecco come Frazer lo riporta quando parla dei tabù dei nomi delle divinità.
Iside era una donna abile nel parlare che era stanca di vivere nel mondo e voleva raggiungere gli dei e meditava in cuor suo di farlo in virtù del gran nome di Ra e regnare così in cielo e in terra.
"Molti nomi infatti aveva Ra ma il gran nome, quello che gli dava potere su uomini e dei, solo lui lo conosceva. Ora, in quel tempo il dio era diventato vecchio; sbavava, e la sua saliva gocciolò sulla terra. Iside a raccolse e, col fango impregnato di saliva, modellò un serpente e lo pose sul cammino che il grande dio percorreva ogni giorno diretto, secondo il desiderio del suo cuore, al suo duplice reame. E quando giunse, secondo l'uso, accompagnato da tutti gli dei, il sacro serpente lo morse"
Il dio sentitosi mordere cominciò a gridare rivolto al cielo, e con lui gridavano tutti gli dei che lo accompagnavano.
"Cosa ti tormenta? Gridavano gli dei. Ho, meraviglia!
Ma lui non poteva rispondere: batteva i denti, gli tremavano le membra. il veleno scorreva nelle sue membra come il Nilo scorre sulla terra. Quando il gran dio ebbe placato il battito del suo cuore gridò al suo seguito: venite figli miei, frutto del mio corpo. Io sono principe, figlio di principe, divino seme di un dio. Mio padre ideò il mio nome, mio padre e mia madre mi diedero il mio nome, ed esso restò celato in me fin dalla nascita, così che nessun mago potesse avere su di me poteri magici. Sono uscito per ammirare ciò che ho creato, ho camminato nelle due terre che ho creato, ed ecco! Qualcosa mi ha punto. Cosa fosse non so. Era fuoco? Era acqua? Il mio cuore è in fiamme, la mia carne trema, un fremito scuote tutte le mie membra. Portatemi i figli degli dei, dalla parola che risana, dalle labbra sapienti, il cui potere raggiunge il cielo. E allora vennero a lui i figli degli dei e molto si dolevano."
Il grande Ra era veramente mal ridotto. chissà se la storia aveva un fondamento reale. Ra rappresentava il disco solare alto nel cielo... Il racconto continua con l'arrivo di Iside.
"E venne Iside, con la sua scaltrezza, la cui bocca è colma del respiro della vita, i cui sortilegi scacciano il dolore, La cui parola fa risuscitare i morti. E disse: cos'hai padre divino? Che accade?
E il santo dio apri la bocca e disse: Andavo per la mia strada, percorrevo, secondo il desiderio del mio cuore, le due regioni che ho creato, ed ecco! Un serpente che non vidi mi morse. E' fuoco? E' acqua? Sono più gelato dell'acqua, più del fuoco ardo, sudano le mie membra, io tremo, il mio occhio si appanna, non vedo il cielo, umido è il mio volto, come d'estate.
Disse allora Iside: dimmi il tuo nome, padre divino, poiché l'uomo chiamato col tuo nome vivrà.
Rispose allora Ra: Io creai cielo e terra, io disposi le montagne, feci il grande, vasto mare, come una tenda stesi i due orizzonti. Colui io sono che apre gli occhi, ed è la luce, che li chiude, ed è tenebra. Al suo comando si innalza il Nilo, ma gli dei non conoscono il suo nome. Sono Khepri al mattino, Ra al meriggio, Atum al tramonto.
Ma il veleno non fu allontanato da lui, più a fondo, sempre più a fondo lo trafiggeva, e il grande dio non poteva più camminare.
Gli disse allora Iside: non era il tuo nome, quello che mi dicesti. Dimmelo, dunque, affinché il veleno possa allontanarsi, poiché colui il cui nome è pronunciato, vivrà.
Il veleno bruciava adesso come fuoco, era più ardente della fiamma del fuoco.
Disse il dio: consento a Iside di cercare dentro di me, e che il mio nome passi dal mio petto al suo.
E allora il dio si nascose dagli altri dei, e il suo posto nella barca dell'eternità restò vuoto.
In tal modo il nome del grande dio gli fu tolto, e Iside, la maga, parlò: Scorri via, veleno, allontanati da Ra. Io sono, proprio io, che ho vinto il veleno e l'ho gettato a terra; perché il nome del grande dio è stato strappato da lui. Che Ra viva, e che il veleno muoia.
Così disse, la grande Iside, regina degli dei, colei che conosce Ra e il suo vero nome."
E così vi lascio per oggi, in attesa di trovare qualche altro interessante spunto di riflessione.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
venerdì 24 gennaio 2014
Licaone... empio sovrano d'Arcadia!
"... si narra che i Giganti aspirarono ad impadronirsi del regno celeste e che ammucchiarono i monti innalzandoli fino alle stelle..."1.
I
Giganti. Esseri mitologici o realtà?
Questo
era il titolo della conferenza che avrei dovuto tenere il prossimo
sabato all'Accademia delle Scienze.
Ovidio
diceva che la stirpe umana nacque dalla terra bagnata dal sangue dei
giganti, schiacciati sotto le montagne che loro stessi avevano
sollevato. Per questo motivo la stirpe umana era così cattiva,
crudele e assetata di sangue che: “divenne sprezzante degli dei e
avidissima di strage spietata e violenta".
Così
Giove, proseguiva Ovidio, "quando vide tali scelleratezze
dall'alto dei cieli se ne dolse e, ripensando ai ributtanti banchetti
della reggia di Licaone, imbanditi di recente e per questo non ancora
divulgati concepisce nell'animo un'ira tremenda e degna di lui e
convoca un concilio..."
Stupidaggini
per creduloni, tutte queste storie, però ottime per introdurre
l'argomento della conferenza ovvero l'esposizione degli ultimi
ritrovamenti avvenuti durante gli scavi di una antica città
ritrovata ai piedi del monte Olimpo. Città ancora senza nome, almeno
per ora.
"Pensate
forse, o dei superni, che essi non corrano pericoli?
Dal
momento che Licaone, noto per la sua ferocia, ha teso insidie a me,
che pure sono armato del fulmine e tengo voi sotto il mio potere?"
Così
Giove apostrofava gli dei prima della punizione.
Per
gli uomini fu l'inizio della fine, fu il Diluvio. E questa città
sembrava proprio distrutta dal Diluvio, quello di Noè del Vecchio
Testamento, che il Censorino chiama Diluvio di Ogigia, avvenuto
probabilmente intorno al 2376 a.C.
Mi
tornavano in mente brani del discorso che avevo scritto per
l'apertura della conferenza.
Poi,
in diretta dal luogo degli scavi, si sarebbe proceduto all'apertura
di uno splendido sarcofago in marmo e oro, ultimo ritrovato. Il
sarcofago risaliva almeno al 2000 a.C. e dalle incisioni rinvenute
sembrava proprio contenere i resti di Licaone, l'empio sovrano
d'Arcadia.
La
procedura di apertura avrebbe richiesto circa due ore durante le
quali io avrei intrattenuto il pubblico con la storia di Licaone.
E'
arrivato il momento di capire di cosa è accusato Licaone per aver
provocato l'ira degli Dei: in un immaginario tribunale chiamiamo così
a testimoniare Giove:
"L'ignominia
del tempo era giunta alle nostre orecchie, augurandomi che essa non
fosse vera, scendo dal sommo Olimpo e, pur dio, esploro le terre
sotto sembianza umana. Sarebbe lungo descrivere quanta malvagità
abbia trovato in ogni luogo: la cattiva fama era inferiore al vero".
Giove
attraversò la terra di Arcadia.
Mandò
un segno per annunciare il suo arrivo e il popolo cominciò a pregare
ma non Licaone che al contrario deride chi prega!
Empio
com'era, non contento di deridere gli uomini, decide di mettere alla
prova il re degli dei.
"Proverò
di sapere, con un esperimento palese, se sia un dio o un uomo".
Questo
pensa Licaone, e si prepara ad uccidere il Padre degli dei nel sonno.
Ma la sua crudeltà non ha limiti e così decide di servire al suo
ospite cibo umano quindi, sgozzato con la spada un ostaggio mandato
dai Molossi, getta nell'acqua bollente parte delle membra e parte le
abbrustolisce al fuoco.
Giove,
quando gli venne servito il banchetto, riconobbe Licaone colpevole e
fece crollare la sua casa. Licaone scappò e raggiunta la campagna
"comincia
ad ululare e invano tenta di parlare; la bocca raccoglie da lui
stesso la rabbia e sfoga la brama della strage, per lui abituale,
sugli armenti, e ancora oggi gode del sangue. La veste si muta in un
vello, le braccia in zampe; diventa lupo e mantiene le tracce
dell'antico aspetto; identico il colore grigiastro, identica la
ferocia del volto; guizzano minacciosi gli stessi occhi, immutata
l'aria di crudeltà".
Questa
è la punizione di Giove per Licaone, ma è solo l'inizio. Giove e il
consiglio degli dei si apprestano infatti a distruggere la stirpe
umana con i fulmini ma poi cambia idea e opta per "distruggere
la stirpe dei mortali con un'inondazione e mandare un diluvio da ogni
parte del cielo".
Il
Diluvio distrusse la stirpe umana e il ricordo viene conservato sotto
forma di racconto morale nella cultura greca antica.
Naturalmente
a questo punto avrei dovuto passare la linea al responsabile degli
scavi per procedere all'apertura del sarcofago, sperando che oltre
alle ossa, probabilmente ridotte in polvere, ci fosse qualche tesoro
la qual cosa avrebbe sicuramente fruttato maggior notorietà e chissà
quante conferenze in giro per il mondo!
Ancora due giorni al grande momento. Ma per ora solo seccature burocratiche da adempiere per l'apertura del sarcofago e stupide email cui rispondere. Meglio rientrare a casa visto come s'era messo il cielo. Non vorrei che venisse giù un altro diluvio mentre sono per strada, pensai.
-
Certo che la gente non ragiona proprio. Siamo nel 2014 dopo Cristo è
c'è ancora chi crede nelle favole!
Senza
volerlo, mentre leggevo l'ultima email, avevo parlato a voce alta. Ma
che dire di fronte a simili assurdità?
-
Un rispettabile professore Universitario!
Ecco
cosa mi mandava ancora di più in bestia. Un Professore
Universitario, membro dell'Accademia delle Scienze, mi invitava a
fare attenzione all'apertura del sarcofago perché vi era una antico
sortilegio collegato che sicuramente era ancora efficace nonostante
il tempo passato, e mi invitava a mettere in campo un contro
incantesimo trovato in non si sa bene quale libro, per evitare al
mondo una nuova e più terribile punizione.
Avrei
potuto capire se una cosa del genere fosse arrivata da un sacerdote
di una setta esoterica, ma da un Professore Universitario era una
cosa inconcepibile!
Non
meritava neppure risposta.
Con
un gesto nervoso etichettai l'email come spam e inserii il mittente
tra gli indesiderati. Almeno non avrei più dovuto leggere le sue
stupidaggini.
Andai
a dormire tardi, come ormai era abitudine negli ultimi mesi. Afferrai
un libro dalla libreria con l'intenzione di leggere qualche pagina
per conciliare il sonno, senza fare troppa attenzione al titolo e mi
infilai tra le coperte.
Aprii
il libro in una pagina a caso, senza neanche guardare la copertina e
cominciai a leggere:
“Si narra che gli antichi Arcadi venerassero Pan, dio delle greggi; egli era sopratutto presente sui monti d'Arcadia”
-
Ecco, lo sapevo, tra tanti libri che possiedo, proprio Ovidio dovevo
prendere stasera!
“Ne sarà testimone il Foloe, lo attestano le onde dello Stinfalo e il Ladone che con le sue veloci acque corre al mare e le alture del bosco di Nonacris cinte di pini, e l'albero Cillene e le cime nevose della Parrasia. Là Pan era nume tutelare di armenti e cavalle e riceveva offerte votive per non distruggere le greggi. Un solo giorno al mese avrebbe mangiato a sazietà nutrendosi del loro sangue...”
Ma no, Ovidio non diceva questo! E poi Pan era un protettore, non un demone sanguinario. Vediamo chi ha scritto simili stupidaggini...
Solo
in quell'istante, rigirando il libro tra le mani, mi resi conto che
si trattava di un libro antico che non avevo mai notato prima. Non
era la prima volta che mi capitava. Spesso compravo pacchi di libri
ai mercatini, li lasciavo sul tavolo del salotto ancora incartati e
impolverati. Poi la mia domestica li puliva e li riponeva in ordine
sulla libreria. Così doveva essere accaduto anche per questo volume.
Dalla
prima pagina si capiva che era stato stampato a Torino nel 1647, il
titolo recitava “Ovidio ritrovato, opera completa, tradotta dal
Signor Marchese de Mourillac, esperto di lingue antiche”. Mai
sentito prima...
Aprii
nuovamente il libro qualche pagina più avanti e continuai a leggere
incuriosito.
“Chi aveva allora supposto l'esistenza delle Iadi o delle Pleiadi, le figlie di Atlante dalle forti spalle?
O
dei due poli, sotto la volta celeste? E che vi fossero le due Orse:
la prima, Cinosura è usata dai fenici per orientarsi; la seconda,
Elice, dai greci. Chi l'avrebbe mai immaginato?
E
che i cavalli di Febe in un solo mese percorressero le stesse
costellazioni che il fratello, Febo, impiegava un anno intero?
Liberi
e inosservati correvano gli astri durante l'anno, ritenuti quasi da
tutti potenti divinità. Non tutti gli antichi conoscevano i percorsi
delle stelle nel cielo, non tutti adoravano come dei ciò che non era
altro che Terra, Luna o Sole. Per i Maghi Caldei queste cose erano
chiare, il percorso delle stelle parlava loro, mostrando pericoli
imminenti e lontani. Spiegando le leggi della Natura. Ponendo l'Astro
al centro del mondo e dispiegando le ali di Morte...”
Chiunque
fosse questo Marchese de Mourillac, doveva avere una fervida
fantasia, oppure doveva aver trovato una versione dei Fasti di Ovidio
sconosciuta al mondo intiero. La teoria eliocentrica non era certo
nuova. Ai tempi di Ovidio diversi autori ne avevano già parlato in
precedenza ma non avevo mai letto che i Caldei la conoscessero.
“gli dei superni, sterilizzavano la Terra dalla peste dell'Uomo, per mezzo del fuoco o dell'acqua. Oppure, in casi speciali, per il tramite dello spirito Pan, capace di incarnarsi nel corpo di un uomo terribile. L'ultimo della sua specie fu Licaone, re possente d'Arcadia. Non resuscitate la sua anima, non disturbate il suo riposo...”
Questa
è proprio forte! Meglio lasciar perdere questo libro. Domani sarà
una giornata lunga e devo essere ben sveglio.
La
notte passò con tranquillità nonostante il temporale non accennasse
a placarsi. Era già da due giorni che la pioggia veniva giù senza
interruzione e in tv non facevano altro che parlare di incidenti,
frane e fiumi che avevano raggiunto gli argini. Mi alzai per
accostare le tende, i lampi continuavano a illuminare a giorno la
città, inconsapevoli del fatto che il servizio meteo avesse previsto
miglioramenti su tutta la regione per l'indomani.
Mi
alzai, feci una doccia calda e andai a lavorare presto.
A
pranzo avevo un appuntamento di lavoro con il responsabile delle
riprese video dell'Accademia delle Scienze. Volevo essere sicuro che
tutto fosse pronto per la sera. Alle 18.00 si cominciava e non potevo
permettermi errori. Dopo il panino e il caffè infilai la mano nella
borsa per cercare l'agenda in cui avevo preso alcuni appunti nei
giorni precedenti. Con mio stupore estrassi il libro di Ovidio che
avevo letto la sera prima. Sicuramente l'avrò infilato in borsa
questa mattina senza accorgermene, pensai.
Dopo
pranzo avevo una riunione con il responsabile dell'accoglienza degli
ospiti e poi feci una visita veloce nella sala. Tutto sembrava in
ordine, non restava che aspettare le 18.00.
Il
temporale sembrava non dar tregua.
Il
cielo era nero e solo i lampi, di tanto in tanto, illuminavano le
nuvole. Un brutto temporale, pensai. Sarebbe passato prima o poi.
Potevo
riposare una mezz'ora. Ne sentivo proprio la necessità.
Mi
sedetti nella poltrona del mio ufficio e presi il libro che avevo
nella borsa, volevo dare un altro sguardo all'introduzione. Chissà
che non ci fosse qualche notizia interessante sull'autore.
-
Come si chiamava? de Mourillac, se non ricordo male!
Nell'introduzione
non si diceva altro sull'autore. I soliti ringraziamenti al re di
Spagna e alla sua gentile consorte, tipico dei libri di quel periodo,
una pagina in cui vi era l'autorizzazione ecclesiastica alla
pubblicazione e niente di più. Doveva trattarsi di una edizione
economica, o magari pirata, a bassa tiratura.
La
copertina era anonima, in cartone rivestito di tessuto verde. Molto
consumato. Rilegato a mano senza troppa attenzione. Le pagine erano
di carta molto grossa e alcune erano incollate dall'umidità e dal
tempo.
Dal
mio terminale potevo accedere ai testi delle principali biblioteche
del mondo, una ricerca su questo de Mourillac mi avrebbe forse dato
qualche informazione in più sulla strana edizione di Ovidio che mi
trovavo tra le mani.
O
almeno così pensavo. Il motore di ricerca non restituì nessuna
informazione. Il Marchese de Mourillac semplicemente non esisteva,
almeno non come autore di testi del 1600.
Aprii
nuovamente a caso e lessi:
“Per
molti anni durò tale stato del cielo, finché il dio più antico fu
deposto dal suo regno. La Terra allora partorì con dolore i Giganti
dalle forti membra, terribili mostri, che avrebbero osato assalire il
regno di Giove, in cielo.
Lì
fece col il ferro ed il fuoco, enormi alla vista. Serpenti di fuoco
uscivano dai mostri, mentre questi si sollevavano minacciosi verso il
cielo, regno di Giove. Movete guerra agli dei, urlava Licaone. Essi
si preparavano a percorrere le immense distanze tra la Terra e il
regno di Giove ma il padre degli dei, che tutto sapeva, li
precedette, scaraventando sulla Terra ordigni di fuoco, portando
morte e distruzione e seppellendo quella razza che aveva osato
sfidarlo, sotto montagne di roccia.
Licaone
fu condannato alla dannazione eterna, il suo nome sarebbe stato
associato a quello del lupo nemico delle greggi, oppure dell'uomo che
mangia i suoi simili, temuto da tutti e mai dimenticato, sarebbe
stato il responsabile del diluvio che aveva distrutto il mondo.
Licaone non doveva essere mai più dissepolto perché con lui sarebbe
riemerso il male e il mondo sarebbe stato distrutto...”
Si. Come nella peggiore sceneggiatura di un film di seconda categoria. Gli archeologi aprono il sarcofago e ne spunta fuori, vivo e vegeto un mostro sanguinario!
Per
fortuna che non ero mai stato impressionabile.
Però
questo libro meritava più attenzione.
Vi
erano veramente tante differenze con la versione nota a tutti. Non
fosse altro che per decretarne la falsità sarebbe stato interessante
approfondirne le origini.
Me
ne sarei occupato più avanti. Ora avevo cose più importanti a cui
pensare.
La
conferenza cominciò alle diciotto in punto. I primi ospiti
cominciarono ad arrivare verso le diciassette, qualcuno si avvicinò
per salutarmi, tra questi un mio vecchio professore dei tempi
dell'Università che non vedevo da almeno vent'anni.
Alle
diciotto e trenta ebbe luogo il primo collegamento video. Il luogo
degli scavi era coperto dalla pioggia incessante. Fortunatamente il
sarcofago era stato portato in un grosso hangar allestito per
l'occasione. Poteva piovere quanto voleva ma lo spettacolo sarebbe
andato avanti comunque.
Alle
diciannove e trenta mi avviavo alla conclusione. Ancora qualche
minuto e sarebbe arrivato il segnale che tutto era pronto per aprire
il sarcofago in diretta. Mi apprestavo a fare le mie considerazioni
finali sul significato della morte di Licaone e su cosa ci si poteva
aspettare di trovare all'interno del sarcofago dopo circa quattromila
anni. Se le condizioni di umidità fossero state ottimali il teschio
si sarebbe potuto conservare intatto, probabilmente anche parte del
tessuto che ricopriva il corpo. Era sperabile che con il re fossero
state seppellite anche le sue armi e qualche gioiello, ma niente più.
Erano
le otto e in teoria il segnale della diretta doveva essere già
arrivato ma così non era. Sarei potuto andare avanti ancora per
qualche minuto ma non di più, a meno di inventare o dare la parola
agli ospiti per eventuali domande.
Poi,
di colpo, eccolo finalmente.
-
Signori, ora assisteremo all'apertura in diretta del sarcofago che ha
custodito Licaone, l'empio sovrano d'Arcadia, negli ultimi
quattromila anni.
La voce stentorea con cui diedi l'annuncio quasi mi fece trasalire. Mentre pronunciavo queste parole un lampo più potente degli altri aveva illuminato a giorno le finestre dell'auditorium. Un sordo brontolio lo seguì, a distanza di qualche secondo.
Il
sarcofago si aprì. Il massiccio coperchio venne poggiato a terra e
l'operatore tv si accinse finalmente a riprendere le immagine di un
re vissuto quattromila anni prima.
Le
ossa erano integre, la forma perfettamente distinguibile sotto un
velo sottile di polvere dorata, era quella di un enorme lupo...
Da
quel giorno passarono mesi senza che la pioggia cessasse per un solo
attimo.
Ancora
un fulmine nel cielo, forse a testimoniare la collera di Giove per
aver riesumato il suo antico nemico, cadde sulla terra.
Ma
nessuno più avrebbe potuto testimoniarlo...
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
1
Ovidio, Metamorfosi.
martedì 21 gennaio 2014
Dodici racconti per un anno
Scrivere un racconto è una fantastica esperienza.
Buona lettura!
Dodici racconti per un anno
Alessandro Giovanni Paolo Rugolo
Non è facile ma lascia in
bocca il dolce sapore del miele.
La fantasia e lo studio devono supportare ogni
storia. L'inizio e la fine ne decretano il successo ma solo se ogni parola, ogni immagine che si vuole trasmettere è curata con attenzione.
Questo è il mio secondo libro di racconti, spero sia meglio del primo.
Buona lettura!
Dodici racconti per un anno
Alessandro Giovanni Paolo Rugolo
domenica 19 gennaio 2014
Ancora sulla storia di Gesico
Ho riletto qualche giorno fa un vecchio articolo scritto da mio fratello Antonello su Gesico: Gesico nei libri, così ho pensato di aggiungere qualche informazione curiosa che mi è capitato di trovare in questi anni.
Cominciamo con il parlare di Gesico nel periodo della conquista spagnola della Sardegna.
Le notizie sono tratte dalla Historia general de la Isla, y Reyno de Sardeña Di Francisco de Vico (1639).
Siamo nel 1324 quando avviene l'infeudazione della Villa di Gesico.
L'autore ci racconta che l'Infante don Alonso in quell'anno concesse la Villa di Gesico in feudo con un censo di cinquanta fiorini d'oro a Pedro Marco consigliere di Barcellona.
Qualche anno dopo, nel 1331, Gesico fu venduta a Ramon Desvall al prezzo di 35.000 monete Alfonsine con decreto reale del Re don Alonso. In quell'anno Gesico passa sotto la giurisdizione di Valencia.
Nel 1335 Dona Catalina Desvall rivende al Re don Pedro Gesico, unitamente ai paesi di Sabolla, Pirri, Salvatrano, Corongio, Mandras (Mandas) e Nurri.
Qualche anno dopo, nel 1368 il Re fa dono di Gesico a Antonio Puig (o Poualt). Antonio Puig fece dono di Gesico a sua figlia Iuana nel 1376 che si sposò con Marco Momboy.
A Marco Momboy succedette il figlio Juan. La moglie di Marco Momboy invece lasciò la sua parte ai figli IoàAntonio, Matheo e Marco.
Qualche anno dopo ritroviamo Gesico tra le proprietà di Juan, figlio di Juan Momboy. Nel 1450 il paese di Gesico, assieme a Samazay, Gonniperas, Barrali e Samassi passa di proprietà di Francisco de Eril, Governatore Generale del Regno di Sardegna, al prezzo di 1500 fiorini d'oro d'Aragona.
La famiglia Eril tenne il possesso di Gesico fino al 1541 quando la vendette assieme ad altri paesi a don Salvador Aymerich che due anni dopo dichiarò di averle acquistate su commissioni del Dottor Pedro Sanna di Bruno Letrado di Cagliari, che ne assunse la proprietà.
Alla sua morte, nel 1545, la Villa di Gesico passò, assieme ad altre proprietà, al figlio Tiberio Sanna.
Tiberio Sanna lasciò i suoi possedimenti al figlio Iuan Bautista nel 1580. Gli succedette don Ioseph Sanna e a questo il figlio Iuan Bautista che al momento della pubblicazione del libro, 1639, possedeva la proprietà di Gesico.
Occorre saltare un secolo per trovare nuovamente traccia del paese di Gesico nei testi. Nella "Genealogia de la nobilissima familia de Cervellòn di Manuel Maria Ribera, pubblicato nel 1733 grazie al sostegno di Donna Antonia Sanna, moglie di don Francisco de Cervellòn.
L'autore racconta infatti che un avo di Donna Antonia, don Tiberio Sanna Barone di Gesico, sposò Donna Benita de Cervellòn, si tratta probabilmente dello stesso Tiberio visto poco fa.
Nel libro Ribera racconta le origini nobili della famiglia Sanna facendole risalire al 1353, grazie ai meriti di due fratelli, Lorenzo e Giovanni Sanna, che servirono con onore sotto la Corona reale durante le guerre di Sardegna.
Fu Don Pedro III che nel 1354 li investì di un grande territorio, per ringraziarli delle loro opere e della loro fedeltà anche di fronte al pericolo corso in tempo di guerra.
Da allora i Sanna divennero una delle famiglie più ricche e importanti del paese di Gesico.
Ora devo nuovamente fare un salto di quasi un secolo per trovare altre notizie di gesico, nel libro "Storia di Sardegna dall'anno 1799 al 1816" di Pietro Martini.
Si parla di un periodo in cui la Sardegna dipendeva dal Piemonte. Dal 1815 esisteva una "segreteria di stato per le cose della Sardegna" il cui capo era Silvestro Borgese, che era stato in servizio a Cagliari dal 1772 al 1792 come "professore di sagri canoni" e "aggiunto alla reale udienza" e "avvocato fiscale regio".
Doveva essere un periodo abbastanza burrascoso per la Sardegna (e non solo!) e Gesico non era un paese tranquillo.
Dice Pietro Martini che sono da ricordare i tumulti di Gesico, dove fu arrestato il nobile Giovanni Diana, nonostante la protezione di cui godeva da parte del Marchese di S. Tomaso.
Alla cattura del Diana partecipò un tal Giovanni Corrias. Il Marchese (o Barone?) cercò di vendicarsi arrestando il Corrias ma il Re lo rimproverò. Il nobiluomo si ritirò a Gesico e probabilmente ebbe la sua parte nel sollevamento della popolazione contro il prete, amico del Corrias.
Il governo spedì a Gesico le sue truppe e la popolazione fu così ridotta all'obbedienza.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
sabato 18 gennaio 2014
Gesico nei libri
Il paese per quanto piccolo, mi è piaciuto molto per il suo territorio, ricco di sorprese "datate"...
Gesico fa parte dei miei vissuti, spezzettati e divisi tra i paesi in cui ho dimorato.
Gesico fa parte dei miei vissuti, spezzettati e divisi tra i paesi in cui ho dimorato.
Ciascuno di questi luoghi ha riempito un pezzettino del mio cuore, emozioni ed esperienze diverse che mi hanno portato ad oggi, pregi e "difetti" compresi.
Ho fatto una piccola ricerca di libri che citano questo piccolo paesello nascosto in una vallata della Trexenta in Sardegna. Lungi dall'averli trovati tutti, ma può darsi che qualcuno possa trarne beneficio, se non altro per pura curiosità o conoscenza.
Brevi cenni storici:
Gesico ebbe una storia in epoca medievale, e fu capoluogo della sua baronia nel XVII secolo. Il feudo di Gesico si formò con l'investitura del marchesato di S. Tommaso nel 1769 e durò fino al 1839. Era costituito da grosse proprietà, ufficialmente di circa 1680 ettari, ma a cui si aggiungevano le proprietà della chiesa (dal 1700) e altre. Le proprietà private si costituirono dopo lo scioglimento del feudo e la concessione in gestione ai comuni. I comuni vendettero le terre demaniali ai privati in seguito ai regolamenti del 1839. La Sardegna era allora divisa in diversi giudicati, a sua volta suddivisi in molte curatorie.
Ho fatto una piccola ricerca di libri che citano questo piccolo paesello nascosto in una vallata della Trexenta in Sardegna. Lungi dall'averli trovati tutti, ma può darsi che qualcuno possa trarne beneficio, se non altro per pura curiosità o conoscenza.
Brevi cenni storici:
Gesico ebbe una storia in epoca medievale, e fu capoluogo della sua baronia nel XVII secolo. Il feudo di Gesico si formò con l'investitura del marchesato di S. Tommaso nel 1769 e durò fino al 1839. Era costituito da grosse proprietà, ufficialmente di circa 1680 ettari, ma a cui si aggiungevano le proprietà della chiesa (dal 1700) e altre. Le proprietà private si costituirono dopo lo scioglimento del feudo e la concessione in gestione ai comuni. I comuni vendettero le terre demaniali ai privati in seguito ai regolamenti del 1839. La Sardegna era allora divisa in diversi giudicati, a sua volta suddivisi in molte curatorie.
Fonti parziali: Dizionario ufficiale dei comuni e dei centri abitatidati del 4/11/1951 - popolazione residente 1189altitudine 328 m - altitudine del suo territorio da 195 m a 501 m
REPUBBLICA ITALIANA - Istituto Centrale di Statistica POPOLAZIONE E MOVIMENTO ANAGRAFICO DEI COMUNI VOL. XV - 1970 Roma
Nell'Anagrafico dei singoli comuni la popolazione residente al 31 dic. 1969 è di 1.322.
di Manlio Brigaglia enciclopedia LA SARDEGNA 1982 - EDIZIONI DELLA TORRE
Dal VOL. I - Nel referendum istituzionale del 1946 vediamo che dei 137 comuni della provincia di Cagliari solo 28 diedero una maggioranza repubblicana, tra cui anche Gesico.
Dal VOL. II - ... Nel 1971 aveva 1235 abitanti.
Angius/Casalis
Dizionario Geografico Storico Statistico Commerciale degli Stati di S.M. IL RE DI SARDEGNAProv. di Cagliari Vol. I (libro del 1840 ca.)Amministrazione provinciale Cagliari - EDITRICE SARDEGNA
Dizionario Geografico Storico Statistico Commerciale degli Stati di S.M. IL RE DI SARDEGNAProv. di Cagliari Vol. I (libro del 1840 ca.)Amministrazione provinciale Cagliari - EDITRICE SARDEGNA
Villaggio della Sardegna nella provincia e prefettura di Isili, Gesico è nel mandamento di Mandas, compresa nella Curatoria di Seurgus, dipartimento del Regno cagliaritano.
Gesico è composto da Gesico-mannu e Gesicheddu, separati da un fiumicello. Gesico-mannu è bagnato dall'altra parte dal rio di Mandas. Attraversano il paese due strade principali, una da Mandas a Selegas, l'altra da Siurgus a Villanovafranca. Ci sono a Gesico circa 220 famiglie, con una popolazione di circa 950 abitanti. I gesichesi sono sotto la giurisdizione dell'arcivescovo di Cagliari. La chiesa parrocchiale è nel rione di Gesico-mannu. E' intitolata a Santa Giusta, di bella struttura, con 8 altari ed abbellita con marmi e argenti. Le chiese minori sono 5: S. Maria, la vergine d'Itria che credono essere stata l'antica parrocchiale, che si trova alla fine del paese; S. Amatore, distante pochi minuti dall'abitato; S. Lucia e S. Sebastiano, molto vicine, e S. Mauro, a mezz'ora dalpaese, sul monte Corona. Nel 1817 nacque il campo santo, alle spalle della chiesa di S. Amatore. Le feste principali sono: il 14 maggio per S. Mauro nella cima del monte Corona; per S. Amatore nella terza domenica di ottobre, nella quale si tiene una delle migliori fiere.Infine nel territorio di Gèsico non ci sono meno di 15 nuraghi, in gran parte distrutti.
di Alberto della Marmora
ITINERARIO dell'isola di SARDEGNA - tradotto e compendiato dal Can. Spano 1868 Cagliari - VOL. I - edizione anastatica sui tipi di A. AlagnaEdizione TROIS
"... mentre che verso ponente si vedono spuntare le cime marnose di Punta accuzza, ed il Monte Corona, a basso del quale si nasconde il fangoso villaggio di Gesico (1), indi si arriva sempre in pianura a quello di Mandas."
Aggiunge quindi un commento nella nota:"(1) In questo villaggio si trovano con frequenza monete antiche. Vicino avvi una chiesa campestre Sant' Amatore, in cui si fa una bella fiera. Lungi si vede il Monte Corona nella di cui cima vi è la chiesa di S. Mauro (N.S.)."
di Marcello Serra
ENCICLOPEDIA della SARDEGNA - con un saggio introdutt. intitolato Alla scoperta dell'IsolaGIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA
ENCICLOPEDIA della SARDEGNA - con un saggio introdutt. intitolato Alla scoperta dell'IsolaGIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA
di Gesico cita così:"Piccolo centro della Trexenta (ab. 1.300 circa), situato sulle pendici del M. S. Mauro (m. 501). Nel territorio si trovano i nuraghi Sitziddiri, Su Linu, Columbas, Accas, Su Mulloni, Battudis, Mattas Nieddas. Nella Parrocchiale di S. Giusta si notano alcune strutture del Quattrocento e in quella di santa Maria qualche elemento del sec. XIV. Nella terza domenica di ottobre si svolge qui la Fiera di S. Amatore, destinata ai fidanzati che stanno per mettere su casa."
di Marcello Serra
MAL DI SARDEGNA - EDITRICE SARDA FOSSATARO CAGLIARI
"[...] Ritornati sulla strada principale, dopo il nuraghe Piscu, dove fu ritrovato un cumulo di grano carbonizzato da secoli, un bivio discende a GESICO, piccolo paese incassato in una valle, dove ad ottobre si celebra la grande fiera di S. Amatore. In questa occasione i fidanzati dei paesi vicini vengono a riornirsi del corredo e di quanto occorre per la loro casa. Infatti nelle botteghe sistemate intorno alla chiesa rustica, che si chiamano cumbessias , si può acquistare di tutto. E' dunque questa la festa degli innamorati della Sardegna, e il nome del Santo d'altra parte si adatta perfettamente alla simpatica sagra."
di Salvatore Colomo - Francesco Ticca
SARDEGNA - Immagini di un'isola1984 - VOL. I - EDITRICE ARCHIVIO FOTOGRAFICO SARDO - NUORO
Il paragrafo che riassumo non parla di Gèsico, ma della dominazione Aragonese e Spagnola. Dal 1300 al 1700 la Sardegna fu sotto la dominazione Aragonese, e poi spagnola. Dal 1500 in poi lo stile Gotico-Aragonese ha uno sviluppo notevole, determinato dalla costruzione di moltissime nuove chiese parrocchiali. Nel cagliaritano si trovano importanti esempi di tale stile. Tali chiese hanno in genere la facciata quadrata, coronata da merli e rinforzata ai lati da contrafforti. All'interno, l'uso della volta stellare, costituita da costoni che si incrociano nelle chiavi di volta. [Molto simile alla parrocchia di Gesico, avente le caratteristiche descritte è la chiesa di S. Pietro ad Assemini].
di Luigi Spanu
SAGRE E FESTE POPOLARI NEI COMUNI DELLA PROV. DI CAGLIARI 1987 - Prov. di CA Assessorato allaCultura
SAGRE E FESTE POPOLARI NEI COMUNI DELLA PROV. DI CAGLIARI 1987 - Prov. di CA Assessorato allaCultura
"Gesico si trova nel centro dell'estremo settentrione dellaTrexenta, in zona collinare a circa 50 km da Cagliari []. A metà ottobre si tiene la Sagra di S. Amatore. In tale occasione si fa la processione dalla parrocchia alla chiesetta campestre di S. Amatore. Tale chiesa restaurata qualche anno fa, sorge su un'altura alla fine dell'abitato. Risalente al 1500, fu costruita su una cappella a pianta quadrata greco ortodossa. Le reliquie del santo si trovano nell'altare maggiore della parrocchia. La festa di origine antichissima, attira migliaia di persone, essendo uno dei più tradizionali e sentiti culti popolari della trexenta. Un'altra festa altrettanto suggestiva, è quella di S. Mauro, in cui il simulacro del santo viene portato in processione fino alla chiesetta omonima situata su un colle, il monte Corona, circondato da una vasta vallata, la festa dura tre giorni, sul colle e poi in paese, con canti e balli."
di Rinaldo Botticini
GEO Sardegna - Ambiente Uomo Insediamenti 1991 - SOLE Edizioni
Traduce il nome dal sardo gessa=gelso, e quindi gessicu= sito di gelsi." Un susseguirsi di colline che raggiungono i 500-600 mt di altezza e sono intersecate da amene vallate, fanno da sfondo al centro urbano. Esso sorge nel punto di confluenza del torrente Sipiu con gli affluenti e si è sviluppato secondo direttrici parallele al corso d'acqua. La tipologia abitativa è tipica delle zone ad economia pastorale con edifici accorpati lungo le vie. Nuraghi e reperti punico-romani sono presenti in numero notevole sul territorio circostante. Il paese ebbe una storia in epoca medioevale e, nel XVII secolo, fu capoluogo della omonima baronia. [..] Nella parrocchiale di Santa Giusta si alternano vari stili: romano, pisano e gotico-aragonese."C'è anche una foto della chiesa campestre di S.Amatore.
DIZIONARIO DI TOPONOMASTICA
Storia e significato dei nomi geografici italianiUTET
"Località del Campidano a 51 km da Cagliari, è situata in una conca pianeggiante a 300 m. s. m. (TCI Sard. 257). Attestato in RDSard. aa. 1346-1350 Item a presbitero Bernardo Oliverii vicario de Gesico n. 1545 e passim, il toponimo è di origine incerta, verosimilmente prelatina (cfr. Paulis 1987, 432). Fantasiosa è l'interpretazione etimologica di Spano 1872, 54 da una voce fenicia ges "valle, fosso", "luogo basso". La pronuncia locale del nome è gèsico, in dialetto gèsigu (DETI 240). C.M."
conoscere L'ITALIA
Enciclopedia dell'Italia antica e modernaSARDEGNA - ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI NOVARA
Enciclopedia dell'Italia antica e modernaSARDEGNA - ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI NOVARA
Brevissima citazione come esempio di struttura semplice dei nuraghi: "Più numerosi che in qualunque altra zona dell'Isola sono i nuraghi nella Trexenta (0,9 per chilometro quadrato). Nella esemplificazione dei nuraghi presenti dal Campidano alla Trexenta, cita i vari tipi dai più semplici, composti da un'unica torre circolare, ai più complessi, fatti di molte torri."[...] Talora è aggiunto alla torre circolare... una torre minore e un cortile (Su Covunu, a Gèsico)."
da "Il Giornale della Trexenta"
ANNO I n°2 - Agosto 1992Articolo di Carlo Carta
In un ampio discorso di morale sullo sviluppo economico e socio-culturale della trexenta, viene citato il restauro di Chiese insieme a qualche scavo archeologico, i quali una volta iniziati, sono rimasti fermi in attesa di fondi e di finanziamenti. Tali interventi riguardano anche la parrocchia di S. Giusta.
ANNO I n°6 - Dicembre 1992Articolo di Carlo Carta
Viene citato il Casalis, nel quale viene esaltata la Parrocchia di S. Giusta, per la sua bella struttura, per le sue opere d'arte ma sopratutto per la magnificenza dei suoi marmi. "Oggi le nobili ma vecchie strutture murarie non hanno retto alla pesante copertura, provocando all'interno delle pericolosissime lesioni che immediatamente hanno richiamato un intervento di restauro". "L'inizio dei lavori nell'anno 1989, sono stati finanziati dagli organi regionali preposti con circa £ 200 milioni. Il finanziamento si è però subito dissolto a causa di diverse scoperte. [..] E' stato trovato sotto l'altare maggiore un bellissimo abside, attualmente ancora in studio dalla soprintendenza alle belle arti. [..] Attualmente le funzioni religiose si celebrano in un locale di fortuna ricavato dal Parroco in un vecchio cinema."
Antonello RUGOLO
giovedì 16 gennaio 2014
La partenza
Alla
fine è arrivato il diciassette di agosto, l'ultimo giorno di
vacanza.
Domani partiremo per lasciare il paese d'origine, Gesico, per tornare a casa a Roma.
Chiedo a mio figlio di accompagnarmi da Zia Nina, lui viene sempre volentieri a salutare i parenti.
Quando arriviamo sono appena le sei. La zia è in cortile, seduta su una seggiola bassa, circondata da parenti venuti a trovarla, salutiamo tutti e veniamo invitati a sedere. Zia Nina ci offre un'aranciata e un dolce, come è sua abitudine.
Santa Brabara e santu Jaccu,
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.
Mi sembrò che il tempo non passasse più. Poi di colpo mi resi conto che il vento cambiava direzione. Il temporale si allontanava verso ovest, accompagnato dai tuoni e fulmini.
Domani partiremo per lasciare il paese d'origine, Gesico, per tornare a casa a Roma.
Torneremo
l'anno prossimo in estate a trovare i genitori.
Anche
questa volta non sono riuscito a fare che un decimo delle cose che mi
ero ripromesso, ma anche questa è una costante. Vediamo: ho ancora
in tasca la lista delle cose da fare compilata prima di cominciare le
vacanze.
Visita
al nuraghe Cobumbus – fatto.
Visita
all'amico Celeste – fatto.
Cena
con i vecchi compagni di scuola – saltata.
Visita
al museo di Cagliari – fatto.
Visita
a zia Nina... accidenti. Anche quest'anno!
Ogni
volta la stessa storia. Faccio l'elenco delle cose importanti e poi
lo controllo sempre l'ultimo giorno.
Mancano
solo poche ore all'ora di cena, se sono fortunato faccio ancora in
tempo a salutare zia Nina e zio Lucio.
Ma
si, proviamo!
Chiedo a mio figlio di accompagnarmi da Zia Nina, lui viene sempre volentieri a salutare i parenti.
Zia
Nina è la più vecchia rappresentante della famiglia Schirru a
Gesico, sorella di mia nonna Cenza, e quando posso vado sempre a
salutarla.
Passo
a prendere mia madre e tutti e tre raggiungiamo la casa di zia,
all'ingresso del paese.
La
casa è fatta per una famiglia numerosa, come un tempo. Il portone
grande e massiccio nasconde il cortile interno, con al centro un
bellissimo pozzo. Il cortile è pavimentato con pietre irregolari e
tra queste cresce l'erba. Sul lato sinistro si vedono ancora le
loggette per il bestiame, un tempo si sarebbero sentiti i belati
delle pecore e il rumore della gente che vi lavorava. Oggi è tutto
cambiato, tutto abbandonato, triste e spento. A destra la casa
padronale, con sul davanti un filare di alberi d'arancio ornamentali.
Una volta da bambino avevo assaggiato uno di quei frutti amarissimi,
non potrò mai scordarlo!
Quando arriviamo sono appena le sei. La zia è in cortile, seduta su una seggiola bassa, circondata da parenti venuti a trovarla, salutiamo tutti e veniamo invitati a sedere. Zia Nina ci offre un'aranciata e un dolce, come è sua abitudine.
Poi
ai saluti seguono le interminabili chiacchierate sui parenti, sulle
nascite e morti e sull'albero genealogico di famiglia.
Solo
più tardi zia inizia a raccontare quelle cose che più mi piacciono,
piccole filastrocche, muttettus e preghiere in lingua sarda
campidanese.
Che
memoria!
La
serata è bella, ma la zia guarda con insistenza verso sud e ad un
certo punto comincia a parlare a voce alta, per attirare l'attenzione
di tutti.
“Domani
sarà una brutta giornata. Mi raccomando, state a casa. Evitate i
viaggi e portate il bestiame nella stalla.”
“Ma
zia, che dici, nelle previsioni del tempo non hanno detto niente.”
Mi
lamento io, ma lei mi guarda con un sorriso beffardo di chi la sa
lunga e continua come se io non esistessi.
“Non
c'è alcun dubbio, si avvicina un grosso temporale. Pregherò santa
Barbara perché lo tenga lontano da casa e santu Jaccu perchè vi
protegga lungo il viaggio.”
Era
inutile discutere. Se zia si era messa in testa una cosa, doveva
essere quella.
Le
credenze popolari della Sardegna attribuivano ai santi il compito di
proteggere le persone da eventi naturali che potevano essere
pericolosi o dal malocchio.
Qualche
anno prima mi aveva raccontato come si curava il malocchio e mi aveva
insegnato "is brebus", le parole da pronunciare per
proteggere o per curare chi veniva colpito dal malocchio.
All'interno
della filastrocca vi erano spesso i nomi di alcuni santi che
avrebbero dovuto fungere da protettori o intermediari.
Ebbene,
anche per proteggersi dai temporali i santi avevano la loro
importanza, Santa Barbara e San Giacomo in particolare.
La
visita era finita, erano le sette e ci aspettavano a casa per la
cena.
Ero
felice di esser riuscito a salutare la zia e potevamo rientrare con
la certezza che, se un temporale ci fosse stato, qualcuno ci avrebbe
protetto.
Cenammo
tutti assieme in cortile a casa dei miei genitori. La serata era
bella, l'aria tiepida e il vino buono aiutava nella conversazione.
Poi,
ad un certo punto, mia madre chiese di aiutarla a ritirare tutto
prima di andar via. Sparecchiammo velocemente e mi accingevo a
salutare quando chiese di aiutarla a portare dentro anche i tavoli,
le sedie e i vasi che aveva in veranda.
“Che
bisogno c'è di portare dentro tutto, è una bellissima serata...”
La
sua risposta mi lasciò di stucco. “Alessandro, non hai ancora
capito che se un vecchio ti dice una cosa lo devi ascoltare? Se zia
ha detto che domani ci sarà un brutto temporale, occorre prestar
fede e prepararsi.”
Non
avevo voglia di discutere, aiutai a portare dentro i vasi e poi ci
salutammo. Ci saremmo rivisti l'estate prossima.
Quella
notte mi tornò in mente una vecchia filastrocca che avevo sentito
tante volte da piccolo. Mia nonna la recitava sempre quando si
avvicinava un temporale. Diceva che serviva a proteggere i suoi cari
dai pericolosi temporali e dai fulmini. La filastrocca era solo parte
di un rito complesso che mi aveva spiegato.
“Questi
riti fanno parte della nostra famiglia da secoli. Non tutti li
conoscono e anche se li conoscono non possono recitarli perché solo
gli appartenenti alle famiglie di stregoni hanno il potere di farlo.”
Io
ascoltavo sempre mia nonna, anche quando diceva delle cose insolite.
Chiusi
gli occhi e cercai di dormire.
Era
passata da qualche minuto la mezzanotte quando un rumore sordo
cominciò a farsi sempre più forte. Un tuono lontano si
avvicinava... il vento si era alzato di colpo e gli scurini in legno
cominciarono a cigolare, come per avvisare del pericolo che si
avvicinava. Mi alzai incredulo e mi affacciai alla finestra.
Il
cielo, a sud, era illuminato a giorno dai lampi. Le nuvole nere si
stagliavano sul cielo illuminato dalla luna. Un temporale, come aveva
detto la zia, si avvicinava...
Santa
Brabara e santu Jaccu,
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.1
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.1
Le
parole mi tornarono in mente di colpo, con chiarezza, le sentivo
rimbombare nella mia testa. Senza rendermene conto mi diressi verso
il camino in cucina. Allungai la mano destra e afferrai una manciata
di cenere.
Tornai
alla finestra, mi portai la mano all'altezza della bocca e cominciai
a soffiare verso il temporale senza smettere di ripetere mentalmente
il ritornello.
Santa
Brabara e santu Jaccu,
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.
Poi
le labbra cominciarono a muoversi, involontariamente. Avevo terminato
la cenere e come in un sogno vidi le mie braccia alzarsi verso il
cielo.
Recitai
le formule magiche, prima lentamente, poi più velocemente e a voce
sempre più alta...
Santa Brabara e santu Jaccu,
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.
Mi sembrò che il tempo non passasse più. Poi di colpo mi resi conto che il vento cambiava direzione. Il temporale si allontanava verso ovest, accompagnato dai tuoni e fulmini.
Tornai
a letto in silenzio, sembrava che nessuno si fosse reso conto di
niente.
Mia
moglie dormiva girata sul fianco e il silenzio era tornato a regnare
nella stanza.
La
mattina dopo mi alzai tardi, mi sentivo stanco. Ricordavo a malapena
di aver sognato.
Un
sogno strano. Avevo sentito il rombo del temporale avvicinarsi, ma il
sole alla finestra diceva che la giornata sarebbe stata bella. Zia
Nina aveva sbagliato previsioni, meglio così. Avevamo un lungo
viaggio da fare e guidare con la pioggia non mi era mai piaciuto!
Scesi
in cucina. Mia moglie aveva appena messo il caffè sul fuoco e
l'odore aveva appena cominciato a diffondersi nell'aria.
“Hai
dormito bene?” Chiese con indifferenza.
Risposi
di si, anche se ero veramente stanco, come se non fossi andato a
letto per niente.
“Sai,
questa notte mi è sembrato di averti visto in piedi di fronte alla
finestra. Sarà stato un sogno...”
Solo
in quel momento mi resi conto di essere tutto sudato, come se avessi
compiuto chissà quale sforzo. Di
colpo ricordai tutto con lucidità. Impossibile, pensai! Raggiunsi di
corsa la finestra della camera da letto, poggiai le mani sul
davanzale e osservai a lungo il cielo, cercando risposte.
Non
può essere, ho sognato... pensai, e tornai in cucina.
Mi
sedetti al mio solito posto e cominciai a sorseggiare il caffè.
“Amore,
ti sei sporcato le mani di cenere? Vai a lavarti...”
Aggiunse
mia moglie, con tono deciso...
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
1
La traduzione è circa questa: Santa Barbara e san Giacomo/
voi avete le chiavi del fulmine/voi avete le chiavi del cielo/
non colpite i figli degli altri/ne a casa ne in campagna/santa Barbara e san Giacomo.
voi avete le chiavi del fulmine/voi avete le chiavi del cielo/
non colpite i figli degli altri/ne a casa ne in campagna/santa Barbara e san Giacomo.
lunedì 13 gennaio 2014
Sulla magia della pioggia in Sicilia, da "Il ramo d'oro" di Frazer
Cari amici, qualche giorno fa ho pubblicato un articolo su Frazer e la sua opera, Il ramo d'oro. Nel mentre, proseguendo la lettura ho trovato alcune cose interessanti e tra queste una in particolare mi ha fatto ricordare mio bisnonno che non ho mai conosciuto ma di cui so che lo si sarebbe potuto definire un mago della pioggia.
Mio bisnonno abitava a Nicosia, in Sicilia, e il pezzo di Frazer parla proprio di un fatto avvenuto in Sicilia alla fine dell'ottocento... alla fine di aprile del 1893 per essere precisi. In quel tempo la Sicilia soffriva di una terribile siccità
"La siccità durava ormai da sei mesi. Ogni giorno, il sole sorgeva in un cielo azzurro senza una nuvola. Gli aranceti della conca d'oro che circonda Palermo con una stupenda cintura verde, avvizzivano. Cominciava a scarseggiare il cibo. La popolazione era in allarme. Tutti i sistemi più accreditati per provocare la pioggia non avevano avuto alcun esito."
In quel tempo mio bisnonno doveva essere appena nato, forse il padre o il nonno invece soffrirono anch'essi la siccità. Forse qualcuno di famiglia era impegnato nel cercare di ottenere la pioggia...
"Lunghe processioni si erano snodate per strade e campi. Uomini, donne e bambini, avevano trascorso notti intere in ginocchio, a recitare il rosario davanti alle immagini sacre; giorno e notte le candele consacrate avevano brillato nelle chiese. Agli alberi erano stati appesi rami di palma benedetti nella domenica delle Palme. A Salaparuta, secondo un antichissimo costume, la polvere spazzata dalle chiese nella domenica delle Palme era stata sparsa sui campi. In anni normali, quella santa spazzatura protegge i raccolti ma quell'anno, ci credereste?, non fece il minimo effetto."
La gente moriva di fame, erano tempi bui e non mi risulta difficile credere che solo la fede, in Dio, nei santi, nella magia, poteva dare speranza alla povera gente... spesso è ancora così, anche dopo cento trenta anni.
"A Nicosia, gli abitanti, scalzi e a capo scoperto, portarono crocefissi per tutti i rioni della città, flagellandosi con fruste di ferro. Niente da fare. Perfino lo stesso grande S. Francesco di Paola, che compie ogni anno il miracolo della pioggia e, in primavera, viene portato in processione negli orti, non poté, o non volle, dare il suo aiuto. Messe, Vespri, concerti, luminarie, fuochi d'artificio - niente riusciva a commuoverlo."
Immagino i contadini, gli artigiani, i commercianti, in fila dietro il prete lungo le strade di Nicosia e delle altre città della Sicilia, intonare canti e inni sacri chiedendo il perdono di peccati reali e immaginari, allo scopo di riavere l'acqua. Immagino bimbi smagriti dalla fame e dalla sete.
Tutte cose ormai lontane dal nostro mondo...
"Alla fine i contadini persero la pazienza. Quasi tutti i santi furono messi al bando. A Palermo scaraventarono S. Giuseppe in un orto perché vedesse con i suoi occhi come stavano le cose, e giurarono di lasciarlo li, sotto il sole, fino a quando non fosse caduta la pioggia. Altri santi furono girati faccia al muro, come bambini cattivi. Altri ancora, spogliati dei loro ricchi paramenti, furono esiliati lontano dalla loro parrocchia, minacciati, insultati pesantemente, tuffati negli abbeveratoi. A Caltanissetta, all'Arcangelo S. Michele vennero strappate dalle spalle le ali d'oro e sostituite con ali di cartone; gli fu tolto il mantello rosso, e venne avvolto invece con un cencio. A Licata, S.Angelo, il santo patrono, se la passò anche peggio perché fu lasciato senza vesti del tutto; ingiuriato, incatenato, e minacciato di finire affogato o appeso a una forca. <<O la pioggia o la corda!>>, gli urlava contro la gente furibonda, agitandogli i pugni in faccia."
Ecco cosa accadde secondo Frazer.
Io però preferisco immaginare il mio bis-bisnonno che, affacciato alla finestra, alza le mani al cielo e chiede la pioggia, come un mago avrebbe fatto.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
domenica 12 gennaio 2014
L'editoriale di agosto di Graffiti on-line: Immigrazione Falso Problema...
Frugando in rete tra i siti amici, ho letto con interesse l'editoriale del mese di agosto 2013 dell'Avvocato Sarcià, sul suo giornale on-line Graffiti.
Argomenti trattati? Tanti, immigrazione, invasione islamica, il lavoro che manca in Italia ed Europa... sempre con graffiante ironia, l'unica arma che ci permette di sopravvivere di fronte alle mancanze della politica!
L'articolo è scritto molto bene e rappresenta, purtroppo, fin troppo fedelmente la nostra realtà italiana. Noi italiani siamo capaci di chiudere gli occhi fino alla fine... e l'Europa non ci aiuta di sicuro. L'emigrazione è un problema europeo ma prima di tutto italiano.
Sono infatti convinto che l'Italia, in qualità di "prima spiaggia" dovrebbe fare qualcosa di più serio ed incisivo che non "accogliere" questi poveracci in centri di accoglienza che di accogliente non hanno niente.
Non ha senso che si tengano per mesi delle persone rinchiuse, in attesa che un giudice si degni di ascoltarli, non ha senso illudere persone che non hanno niente, visto che l'Italia non è più in grado di dare niente!
Se occorrono più giudici per affrontare questa emergenza (che tale nonè in quanto è ormai la norma!) che si assumano!
Se occorrono più poliziotti, che si assumano... oppure che i Carabinieri in servizio di fronte alle case dei politici o a fare le belle statuine nei luoghi di potere facciano invece servizio pubblico (e sia chiaro, lo fanno bene, il loro lavoro, quando qualcuno glielo consente)!
Eppure, nonostante le urla di dolore di tanti, credo proprio che gli italiani non cambieranno mai, la politica non cambierà mai, sempre attenta a rifocillare ignoranti e nullafacenti in cambio di un maledettissimo voto.
Così l'Italia continuerà ad essere la barzelletta dell'Europa...
Ma lasciamo perdere le mie opinioni, vi invito a leggere voi stessi l'editoriale di agosto: Immigrazione FALSO PROBLEMA e fate pure le vostre considerazioni.
Alessandro Giovanni Paolo Rugolo
sabato 11 gennaio 2014
Il ramo d'oro, di James George Frazer
Studio sulla magia e la religione...
James George Frazer (1854-1941), è stato un antropologo e studioso scozzese.
La sua opera principale, in 13 volumi, dal titolo originale "The Golden Bough" ovvero "Il ramo d'oro" è una grande raccolta di credenze e tradizioni popolari sulla magia e la religione dei popoli del mondo, pubblicata tra il 1911 e il 1936.
Io ho letto la versione ridotta ad un unico volume, pubblicata da Newton Compton nel 2009 (terza edizione), ma la prima edizione ridotta è del 1925.
Il libro è veramente interessante e merita di essere letto con attenzione e approfondito per diversi motivi che cercherò di esporre nelle poche righe che seguono.
In primo luogo, ogni studioso di tradizioni popolari non può fare a meno di conoscere questo antropologo e la sua opera, questa infatti è scritta con chiarezza e evidenzia similitudini e differenze tra credenze di popoli spesso lontanissimi tra loro.
Gli argomenti principali sono la religione e la magia come fattori alla base delle credenze dei popoli.
In secondo luogo, il libro parla anche dell'Italia, in particolare di Nemi, nel Lazio, Frazer infatti cerca di capire l'origine dei riti legati al bosco di Diana e al "re del bosco".
Il re del bosco non era altro che il sacerdote di Diana, la cui carica veniva tramandata in modo particolarmente cruento. Il pretendente doveva tagliare un ramo di un particolare albero sacro presente nel bosco e poi uccidere il sacerdote in carica. In questo modo ne avrebbe potuto prendere il posto sino a che qualcun altro non avrebbe avuto la forza di tentare la sorte.
Frazer avanza l'ipotesi che l'usanza di mettere a morte i sovrani sia cosa abbastanza comune in antichità e che abbia dato vita a questa terribile usanza della successione del sacerdote di Diana. Dice infatti: "riguardo al problema cruciale della consuetudine di mettere a morte i sovrani allo scadere di un determinato lasso di tempo oppure ogniqualvolta la loro forza o la loro salute dessero segni di declino, sono nel frattempo aumentate le prove che confermano come questa usanza fosse largamente diffusa."
Ma vediamo in cosa consiste questo sacerdozio e cerchiamo di conoscere meglio Diana e il suo mito.
"Si narra che il culto di Diana a Nemi fosse stato istituito da Oreste il quale, dopo aver ucciso Toante, re del Chersoneso Taurico (la Crimea), si rifugiò in Italia con sua sorella, portando con sé il simulacro della Diana Taurica nascosta in una fascina di legna."
Oreste non portò però con sé il rituale attribuito alla Diana Taurica, noto a chiunque legga i classici.
"si dice che ogni straniero che approdasse a quelle sponde venisse immolato sull'altare della dea. Ma trasportato in Italia quel rito assunse una forma meno sanguinaria. All'interno del santuario di Nemi cresceva un albero di cui era proibito spezzare i rami. Solo a uno schiavo fuggitivo era concesso di cogliere una delle sue fronde. Se riusciva nell'impresa acquistava il diritto di battersi con il sacerdote e, se lo uccideva, di regnare in sua vece col titolo di re del bosco (Rex Nemorensis)."
Ecco dunque che un rito cruento di massa, tutti gli stranieri che approdavano venivano sacrificati, si trasforma in un simbolo, uno scontro tra due per onorare la dea sanguinaria.
"Stando a quanto dicevano gli antichi, la fronda era quel ramo d'oro che, per ordine della sibilla, Enea colse prima di affrontare il periglioso viaggio nel mondo dei morti."
Lo schiavo fuggitivo rappresentava la fuga di Oreste dal Chersoneso, il combattimento con il sacerdote rappresentava i sacrifici alla dea.
Sembra che questo cruento modo di succedere nel sacerdozio fosse ancora il vigore in età imperiale.
Diana era venerata essenzialmente come cacciatrice e come divinità che concedeva la prole e un facile parto. Il fuoco era uno degli elementi preponderanti del rito. Ma vediamo in cosa consisteva il rito:
"durante la festa annuale che si celebrava il 13 agosto, nel periodo più caldo dell'anno il boschetto era illuminato da una miriade di torce il cui bagliore si rifletteva nelle acque del lago; e in tutto il territorio italico ogni famiglia celebrava quel sacro rito. Statuette bronzee ritrovate nel recinto, raffigurano la dea che regge una torcia nella mano destra alzata; e le donne le cui preghiere erano state esaudite, si recavano inghirlandate e con una torcia accesa al santuario per sciogliere il voto [..] durante la festa annuale della dea i cani da caccia venivano inghirlandati e non si molestavano gli animali selvatici [..] i giovani celebravano una cerimonia purificatrice, si recava il vino e il banchetto consisteva in carne di capretto, dolciumi bollenti serviti su foglie di vite e mele ancora attaccate in grappoli al loro ramo."
Il santuario di Diana dava spazio anche ad altre due divinità minori, la prima, Egeria, "la ninfa della limpida acqua", le cui acque si gettavano nel lago di Nemi in località Le mole. Anch'essa aiutava le donne nel parto.
"Narra la tradizione che la ninfa era stata la sposa, o l'amante, del saggio re Numa e che egli si congiungesse a lei nel segreto del bosco sacro [..] I ruderi di terme scoperti all'interno del recinto sacro e le numerose terracotte riproducenti varie parti del corpo umano suggeriscono che l'acqua Egeria servisse a guarire gli infermi",
che ringraziavano la divinità lasciando nel tempio un oggetto in terracotta della forma delle membra un tempo malate e poi guarite.
La seconda divinità minore si chiamava Virbio. Vediamo chi era:
"Narra la leggenda che Virbio era Ippolito, il giovane eroe greco, casto e bello, il quale aveva appreso l'arte venatoria dal centauro Chirone e trascorreva la vita nei boschi a caccia di belve, avendo come unica compagna la vergine cacciatrice Artemide (la Diana greca)."
Il mito racconta che Ippolito disdegnava tutte le donne, adorava solo Artemide, la sua compagna. Per questo motivo incorse nelle ire di Afrodite che indispettita fece in modo che Fedra, la matrigna di Ippolito, si innamorasse di lui e quando fu respinta, lo accusasse ingiustamente di fronte al padre Teseo. Teseo chiese a suo padre Poseidone di punire Ippolito. Poseidone gli mandò contro un toro feroce nato dalle acque mentre Ippolito si trovava sul suo carro. I cavalli imbizzarriti lo trascinarono nella loro corsa e Ippolito morì. Artemide non si arrese e chiese ad Esculapio di riportarlo in vita grazie alle sue doti di guaritore. Giove, infuriato per l'atto compiuto da Esculapio, confina il medico nell'Ade. Artemide/Diana riesce a nascondere Ippolito dall'ira degli dei facendo scendere la nebbia e mascherandolo da vecchio e poi lo porta nella valle di Nemi, nel lontano Lazio, affinché vi vivesse nascosto con il nome di Virbio.
"Non vi è dubbio che il S. Ippolito del calendario romano, trascinato a morte dai cavalli il 13 agosto, giorno dedicato a Diana, altri non sia che l'eroe greco suo omonimo che, morto due volte come pagano, fu felicemente resuscitato come santo cristiano"
E con quest'ultima considerazione di Frazer, vi lascio per oggi...
Il re del bosco non era altro che il sacerdote di Diana, la cui carica veniva tramandata in modo particolarmente cruento. Il pretendente doveva tagliare un ramo di un particolare albero sacro presente nel bosco e poi uccidere il sacerdote in carica. In questo modo ne avrebbe potuto prendere il posto sino a che qualcun altro non avrebbe avuto la forza di tentare la sorte.
Frazer avanza l'ipotesi che l'usanza di mettere a morte i sovrani sia cosa abbastanza comune in antichità e che abbia dato vita a questa terribile usanza della successione del sacerdote di Diana. Dice infatti: "riguardo al problema cruciale della consuetudine di mettere a morte i sovrani allo scadere di un determinato lasso di tempo oppure ogniqualvolta la loro forza o la loro salute dessero segni di declino, sono nel frattempo aumentate le prove che confermano come questa usanza fosse largamente diffusa."
Ma vediamo in cosa consiste questo sacerdozio e cerchiamo di conoscere meglio Diana e il suo mito.
"Si narra che il culto di Diana a Nemi fosse stato istituito da Oreste il quale, dopo aver ucciso Toante, re del Chersoneso Taurico (la Crimea), si rifugiò in Italia con sua sorella, portando con sé il simulacro della Diana Taurica nascosta in una fascina di legna."
Oreste non portò però con sé il rituale attribuito alla Diana Taurica, noto a chiunque legga i classici.
"si dice che ogni straniero che approdasse a quelle sponde venisse immolato sull'altare della dea. Ma trasportato in Italia quel rito assunse una forma meno sanguinaria. All'interno del santuario di Nemi cresceva un albero di cui era proibito spezzare i rami. Solo a uno schiavo fuggitivo era concesso di cogliere una delle sue fronde. Se riusciva nell'impresa acquistava il diritto di battersi con il sacerdote e, se lo uccideva, di regnare in sua vece col titolo di re del bosco (Rex Nemorensis)."
Ecco dunque che un rito cruento di massa, tutti gli stranieri che approdavano venivano sacrificati, si trasforma in un simbolo, uno scontro tra due per onorare la dea sanguinaria.
"Stando a quanto dicevano gli antichi, la fronda era quel ramo d'oro che, per ordine della sibilla, Enea colse prima di affrontare il periglioso viaggio nel mondo dei morti."
Lo schiavo fuggitivo rappresentava la fuga di Oreste dal Chersoneso, il combattimento con il sacerdote rappresentava i sacrifici alla dea.
Sembra che questo cruento modo di succedere nel sacerdozio fosse ancora il vigore in età imperiale.
Diana era venerata essenzialmente come cacciatrice e come divinità che concedeva la prole e un facile parto. Il fuoco era uno degli elementi preponderanti del rito. Ma vediamo in cosa consisteva il rito:
"durante la festa annuale che si celebrava il 13 agosto, nel periodo più caldo dell'anno il boschetto era illuminato da una miriade di torce il cui bagliore si rifletteva nelle acque del lago; e in tutto il territorio italico ogni famiglia celebrava quel sacro rito. Statuette bronzee ritrovate nel recinto, raffigurano la dea che regge una torcia nella mano destra alzata; e le donne le cui preghiere erano state esaudite, si recavano inghirlandate e con una torcia accesa al santuario per sciogliere il voto [..] durante la festa annuale della dea i cani da caccia venivano inghirlandati e non si molestavano gli animali selvatici [..] i giovani celebravano una cerimonia purificatrice, si recava il vino e il banchetto consisteva in carne di capretto, dolciumi bollenti serviti su foglie di vite e mele ancora attaccate in grappoli al loro ramo."
Il santuario di Diana dava spazio anche ad altre due divinità minori, la prima, Egeria, "la ninfa della limpida acqua", le cui acque si gettavano nel lago di Nemi in località Le mole. Anch'essa aiutava le donne nel parto.
"Narra la tradizione che la ninfa era stata la sposa, o l'amante, del saggio re Numa e che egli si congiungesse a lei nel segreto del bosco sacro [..] I ruderi di terme scoperti all'interno del recinto sacro e le numerose terracotte riproducenti varie parti del corpo umano suggeriscono che l'acqua Egeria servisse a guarire gli infermi",
che ringraziavano la divinità lasciando nel tempio un oggetto in terracotta della forma delle membra un tempo malate e poi guarite.
La seconda divinità minore si chiamava Virbio. Vediamo chi era:
"Narra la leggenda che Virbio era Ippolito, il giovane eroe greco, casto e bello, il quale aveva appreso l'arte venatoria dal centauro Chirone e trascorreva la vita nei boschi a caccia di belve, avendo come unica compagna la vergine cacciatrice Artemide (la Diana greca)."
Il mito racconta che Ippolito disdegnava tutte le donne, adorava solo Artemide, la sua compagna. Per questo motivo incorse nelle ire di Afrodite che indispettita fece in modo che Fedra, la matrigna di Ippolito, si innamorasse di lui e quando fu respinta, lo accusasse ingiustamente di fronte al padre Teseo. Teseo chiese a suo padre Poseidone di punire Ippolito. Poseidone gli mandò contro un toro feroce nato dalle acque mentre Ippolito si trovava sul suo carro. I cavalli imbizzarriti lo trascinarono nella loro corsa e Ippolito morì. Artemide non si arrese e chiese ad Esculapio di riportarlo in vita grazie alle sue doti di guaritore. Giove, infuriato per l'atto compiuto da Esculapio, confina il medico nell'Ade. Artemide/Diana riesce a nascondere Ippolito dall'ira degli dei facendo scendere la nebbia e mascherandolo da vecchio e poi lo porta nella valle di Nemi, nel lontano Lazio, affinché vi vivesse nascosto con il nome di Virbio.
"Non vi è dubbio che il S. Ippolito del calendario romano, trascinato a morte dai cavalli il 13 agosto, giorno dedicato a Diana, altri non sia che l'eroe greco suo omonimo che, morto due volte come pagano, fu felicemente resuscitato come santo cristiano"
E con quest'ultima considerazione di Frazer, vi lascio per oggi...
Alessandro Giovanni Paolo Rugolo
lunedì 6 gennaio 2014
Curiosità sui Caldei, dalla Collana degli antichi storici greci volgarizzati
Cari amici e amanti delle antichità, oggi ho ripreso alla mano il libro di Diodoro Siculo, Biblioteca Storica. La versione che possiedo comprende solo i primi tre libri per cui mi sono messo su internet e mi sono fatto aiutare da Google books per cercare i libri successivi.
Ho trovato una versione del 1820, tradotta dal Cavalier Compagnoni, e ho subito dato uno sguardo all'indice alla ricerca del libro IV.
Ho così scoperto molto presto che il volume comprendeva solo i primi due libri e stavo per abbandonare il libro per proseguire la ricerca quando mi sono reso conto che verso la fine si trovavano alcune aggiunte, dei chiarimenti e approfondimenti dell'autore della traduzione. Si trattava di un testo sulla cultura indiana in cui si parla dell'antichità dell'India, dei Bracmani e dei Bramini loro successori e di un altro testo col quale ho avuto già a cha fare qualche tempo fa, quella volta in lingua inglese, questa in italiano, sulle antichità caldaiche secondo Beroso, il titolo preciso è: "Memorie storiche e cronologiche intorno alle cose Caldaiche, Assirie, e Babilonesi secondo Beroso e gli scrittori più antichi che d'esse parlarono conforme trovansi compilate da Eusebio".
Questo argomento mi è sempre interessato e nonostante avessi già letto e scritto qualcosa (vedi Berosso: frammenti di storia caldea...) per curiosità ho dato uno sguardo e così mi sono reso conto che in questa versione vi si possono trovare delle informazioni che non conoscevo sul Diluvio Universale. Sperando che l'argomento interessi voi come me, eccovi alcuni pezzi, estratti sulla base dei miei interessi.
Dopo aver parlato di un essere mostruoso chiamato Oanne, in parte pesce e in parte uomo, portatore di insegnamenti divini, di cui ho già parlato nel precedente articolo, l'autore prosegue parlando di un tal Aloro, che pare sia stato il primo re dei Caldei...
"Sta dunque che dieci sole età si computassero da Aloro (vedi anche: sui re Caldei) che dicesi il primo loro re, fino a Sisutro (scritto anche Xisuthrus) sotto il quale dicono essere accaduto il gran diluvio. Anche ne' libri ebraici da Mosè pongonsi prima del diluvio dieci età: cioè anche dagli ebrei si notano in particolare altrettante successioni d'uomini, dal primo, che essi pongono, fino al diluvio. Ma la storia degli ebrei comprende gli anni delle dieci età entro il numero di quasi duemila anni; e gli Assirj, mentre descrivono minutamente, e successivamente le età, d'esse tengono il numero simile a quello, che ha tenuto Mosè; ma variano nei tempi, perché dicono che dieci età comprendono centoventi sari; e che da questi vengonsi a formare quarantatrè miriadi, e duemila anni"
In questo passo, come si può vedere, si paragona la durata delle età caldaiche alla durata delle età degli ebrei, indicate nei testi sacri. Un sari era un periodo di tempo di tremila seicento anni, anche se la cosa non è sicura, c'è infatti che pensa che si tratti di una cattiva interpretazione dei traduttori e che invece un sari corrisponda ad un anno.
"Finalmente dalle predette cose ci verrà fatto di vedere, che Sisutro è quel medesimo che gli Ebrei chiamano Noè, al cui tempo venne il gran diluvio, del quale anche la storia del Polistore parla. E così egli si esprime (Cap. III). Morto Otiarte, Sisutro regnò per diciotto sari, e sotto di lui venne il gran diluvio. - In tal modo poi continua. Dice che a lui apparve Saturno in sogno, e gli predisse che il giorno quindicesimo del mese desio gli uomini perirebbero per inondazione. che perciò ordinò che i libri tutti, cioè gli antichi, quelli de' tempi di mezzo, e quelli degli ultimi, sotterrasse in Sipari, città del Sole" (vedi anche: Berosso da Abideno...).
Interessante il riferimento al seppellire i libri antichi a Sipari, città del sole, chissà se di questa città è rimasta traccia...
La storia continua come quella di Noè, Sisutro costruì l'arca, vi fece salire sopra i parenti e gli animali, attese che cessasse il diluvio e mandò fuori gli uccelli...
L'arca si arenò in cima ad una montagna presso gli Armeni, uomini e animali ripresero a vivere rispettando gli dei. Una spedizione partì alla ricerca dei libri seppelliti a Sipari, città nei pressi di Babilonia, per restituirli agli uomini. I libri furono ritrovati...
Più avanti, si parla anche della costruzione della torre di babele, ma vediamo cosa scrive l'autore:
"Della fabbrica inoltre della torre parla il Polistore quasi alla lettera, come se ne parla nei libri di Mosè, ed ecco le parole sue. - Dice la Sibilla che tutti gli uomini parlanti una medesima lingua costrussero quell'altissima torre, onde salire in cielo: che Dio fortissimo soffiando un vento la rovesciò, e che li fece parlare differentemente l'un l'altro; e perciò la città essersi chiamata Babilonia. Poi dopo il diluvio essere vivuti Titano e Prometeo; e che Titano fece guerra a Saturno."
Sul significato di Babilonia l'autore aveva parlato in precedenza in una nota in cui dice che Babilonia non vuo dire altro che città di Dio o del padre di Dio, in quanto Belo significava Dio. Aggiunge alcune considerazioni sul fatto che i popoli antichi usavano consacrare le capitali dei loro regni. Nella nota parla anche di una città detta Genezareth in cui pare che si trovasse una splendida biblioteca.
Della guerra tra Titano e Saturno e della costruzione della torre di babele, l'autore riporta alcuni versi dei libri sibillini, che mi sono piaciuti e quindi anche io riporto:
"Contro l'ira del Nume, ove sia mai
che a danno de' mortali ancor s'accenda,
Ne' campi assirj immensa torre al cielo,
onde alle stelle ardenti adito farsi,
fabbricar essi; e non parlavan anco
lingue diverse. Ma l'Eterno, a' spirti
suoi ministri...
come da' venti il turbin vorticoso
a terra rovesciò l'ampio edifizio,
e ruppe de' concordi animi il voto,
a te per tanto fatto, o Babilonia,
venne nome famoso. Fu Saturno
allora, e fu Titano, e fu Japeto;
poichè messa discordia entro que' petti
le diverse si udian strane favelle"E con queste parole per oggi concludo! A presto.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO