venerdì 23 settembre 2016

La cattedrale di Sant'Antioco di Bisarcio


Nel nord della Sardegna, lungo la strada Olbia - Sassari, notiamo un maestoso edificio di colore rossiccio a poca distanza, mai notato prima. Torno indietro e mi infilo nella strada che mi conduce alla base di un colle roccioso sul quale si staglia una vecchia chiesa.
Siamo in territorio del comune di Ozieri. Il cartello alla base dice che si tratta della cattedrale di Sant'Antioco di Bisarcio. Ci avviciniamo con curiosità, attirati dai colori e dal roteare di uno stormo di uccelli rapaci annidati sulla torre. Purtroppo è lunedì e l'antica cattedrale è chiusa.
Non ci perdiamo d'animo e il giorno dopo decidiamo di tornare sul posto per visitarla. Non siamo soli. 
Un gruppo di studenti dell'Università di Sassari sta lavorando agli scavi del cimitero che si trova sul retro della cattedrale.
La guida e la responsabile degli scavi sono molto gentili e ci spiegano il loro lavoro.
Visitiamo la cattedrale, sitratta di una costruzione del XII secolo, in stile romanico, costruita su una precedente chiesa andata distrutta da un incendio intorno al 1090 d.C. 
Comprendeva un tempo il palazzo vescovile e la canonica. Oggi resta solo la cattedrale e alcune rovine degli altri edifici.
La facciata esterna della basilica è molto ricca di decorazioni in pietra lavorata. Al piano terra vi sono tre arcate. L'arcata di destra è molto bella, trattandosi di una bifora la cui colonnina centrale è poggiata su un leone ancora riconoscibile anche se rovinato dal tempo inclemente.   
Nel XV secolo la parte sinistra della facciata della cattedrale crollò e fu ricostruita senza badare troppo a restituirle la forma iniziale. 
Nella facciata vi sono molte altre decorazioni in pietra, sugli archi principalmente, che rappresentano santi o animali e che danno un aspetto curioso alla cattedrale.
Eppure, ci spiegano, la facciata è stata aggiunta dopo la costruzione della cattedrale, la cui facciata originale è ora nascosta.
Quando saliamo al primo piano è infatti possibile vedere una piccola bifora che dagli appartamenti privati del vescovo consente di vedere l'interno della chiesa.

Al piano superiore si trova un camino in pietra molto interessante a forma di mitra vescovile. Non avevo mai visto un'opera simile. 
Incisa nella pietra vi è la formula di consacrazione dell'altare (o della chiesa, non sono certo della cosa). La guida attira la nostra attenzione su una leggera incisione a forma di sandalo. Testimonianza del passaggio dei pellegrini.
L'interno della chiesa è molto semplice. Il tetto è in legno e in fondo, nei pressi dell'altare, si trova una statua del santo.
Si tratta di Sant'Antioco, il cui culto è molto diffuso nell'isola. 
Antioco arrivò in Sardegna dall'Africa, dove venne esiliato dall'imperatore Adriano. Antioco in Sardegna vi morì, nell'anno 125, a Sulci, l'odierna isola di Sant'Antioco. La statua rappresenta il santo con in mano la palma del martirio. 



La visita è terminata e andiamo via soddisfatti, ripromettendoci di tornare l'anno prossimo per una nuova visita agli scavi e per vedere le domus de janas e i graffiti rupestri che si trovano nell'altopiano alle spalle della chiesa.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 19 settembre 2016

Appunti storici sulla Cattedrale di Sorres, tradotti in italiano dal Logudorese

Il titolo originale dell'opera era: "Appuntos istoricos de sa Cattedrale de Sorres traduidos in ottavas dialettales Logudorese, libretto scritto da Salvatore Antonio


Sai di Borutta o, in Logudorese, Farantoni Sai de Urutta.
Dopo aver visitato la Cattedrale e l'annesso monastero benedettino (per quanto possibile), dove ho preso il libretto, ho deciso di provare a tradurlo in italiano.
Farantoni Sai lo pubblicò nel 1949 ed era in vendita al prezzo di 100 lire a beneficio della ricostruzione del chiostro.
La Cattedrale infatti era in restauro. Dopo alcuni secoli di abbandono i frati benedettini avevano deciso di ripopolare il convento e restaurare la Cattedrale.
La lettura del libretto non è stata semplice anche perchè il mio dialetto non è il Logudorese, e mi ha permesso di scoprire alcune parole mai sentite prima. Alcune frasi non mi sono molto chiare ma spero che scrivendo ed eventualmente grazie all'aiuto dei lettori, il testo possa essere chiarito per intero.
Ho avuto comunque l'aiuto di mia moglie Giusy e di alcuni amici e amiche che ringrazio: Paola, Gianna e Giommaria. Come è giusto che sia, se meriti vi sono, sono di tutti, se mancanze vi sono, quelle sono solo mie.
Buona lettura.

Unu cantante de mente ottusa
dilettante de sarda poesia,
poverittu e vena e melodia
chi no possedit regula ne musa.
A sos poetas domandat iscusa
e a sos ignorantes cumpagnia.
Riccu de una sola passione
de sa cale nde tratta sa rejone:

Intendide s'isfogu e su coro
in ottavas chi devene sighire,
e solamente pro fagherischire
cennos chi nos presentat su tesoro.
So eo chi defendo e chi adoro
che in puntu e morte pro finire.
Mi presento, no canto pro disputa,
so Farantoni Sai de Urutta.

Trad.
        Un cantante dalla mente ottusa
dilettante nella sarda poesia,
povero di ispirazione e di melodia
senza regola ne musa.
Ai poeti chiede scusa
e agli ignoranti compagnia.
Ricco di una sola passione
da cui trae la ragione:

Ascoltatene lo sfogo del cuore
in ottave, che seguirà,
e solo per farci conoscere alcuni
cenni che ci presenta il suo tesoro.
Sono io che la difendo e che l'adoro
anche in punto di morte, fino alla fine.
Mi presento, non canto per gara,
sono Salvatore Antonio Sai di Borutta.

Istoria e biografia

Faedda maestosa cattedrale!
c'has bidu noe seculos finire,
sa vida tua faghennos'ischire
Ervina de tempus immortale.

Storia e biografia

Parlaci maestosa cattedrale!
che hai visto nove secoli passare,
la vita tua facci conoscere
Rovina (?) dei tempi, immortale.

1. Parizzas boltas in tempus passadu      
pubblichein de te calchi memoria:           
invochende chi torret a s'istoria
dogni bene chi t'hana defrodadu,
e... intantu, nisciunu b'hat pensadu
a ti torrare a s'antiga gloria,
lassende chi domandes caridade
a chie non nde tenet piedade.

Parecchie volte nei tempi passati
pubblicarono su di tealcune memorie:
chiedendo che si restituisca alla storia
ogni bene che ti è stato sottratto,
e... intanto, nessuno ha pensato
di riportarti all'antica gloria,
lasciandoti a chiedere la carità
a chi di te non ha alcuna pietà.

2. Pro sos meritos tuos de valore
pro su Santu chi t'hana cussagrada,
no tias esser gai abbandonada
in dun'istadu chi faghet orrore;
mentre chi rappresenta su fiore
de tantas in Sardigna edificado.
Tue ses bella de ponner a parte
ricca de iscolturas e de arte.

Per merito del tuo valore
per il Santo cui fosti consascrata,
non saresti dovuta esser mai abbandonata
in questo stato che fa orrore;
mentre tu rappresenti il fiore
delle tante (chiese) in Sardegna edificate.
Tu sei bella da conservarti
ricca di sculture e d'arte.

3. Indunu logu su pius adattu
a vista immensa de vastos pianos
ti costruesin sos dottos Pisanos
in su milli vintotto no infattu;
imitende in te unu retrattu
dignu de operosas bonas manos.
Simile a s'insoro Santuariu
de pagu variante s'iscenariu.

In una  località tra le più adatte
con vista immensa sui vasti piani
ti costruirono i dotti Pisani
nel mille e ventotto e non oltre;
copiandoti da un ritratto
degno di mani buone e operose.
Simile al loro Santuario
poco diverso lo scenario.


4. Indun'altura bella e sontuosa
estremidade de monte Sovranu,
dominante de tottu su pianu
chi pares un'istella luminosa;
e visuale de Limbari a Bosa
pares i sa pianta e sa manu.
E dae Alaerru a Macumere
tue ses sa padrona e se sa mere.

Sopra un'altura bella e sontuosa
all'estremità del monte Sovrano,
che domini su tutto il piano
che sembri una stella luminosa;
con vista da Limbara a Bosa
sembri nella pianta della mano.
E da Laerru a Macomer
tu sei la padrona e la dominatrice.

5. Tue se sa Reina e sa bellesa
opera de su geniu infinitu,
e tenes de corona ogni dirittu
ca pro dirittu tene sa difesa;
sas campanas chi sonan a distesa
in sas biddas vicinas a su situ,
indican'a su bonu viandante
a ti mirare ca ses trionfante.

Tu sei la regina della bellezza
opera del genio infinito,
e hai il diritto di corona (?)
che per diritto tieni la difesa; (?)
le campane che suonano a distesa
nei paesi vicini al tuo sito,
invitano il buon viandante
a guardarti, perchè sei trionfante.

6. A ti mirare dae logu tesu
a ti pensare da logu lontanu,
pares unu fiore a su manzanu
collocad'in giardinu mesu i mesu;
ea nisciuna tempesta ti hada offesu
suavemente che è su eranu.
Tale sa bella faccia ti assimizza
ca traschias ne bentos no ti allizza.

A guardarti da lontano
a pensarti da lontano,
sembri un fiore al mattino
collocato nel mezzo del giardino;
dove nessuna tempesta ti ha mai colpito
soavemente come in primavera.
Così un bel viso ti assomiglia
perchè ne gelata ne vento ti fa sfiorire.

7. Cale tet esser s'ora e cale die
c'hat tentu sorte su tou nadale?
A sa mezus ted esser eguale
cale sa manu ted esser'e chie?
Paret chi ballet e gioghet e rie
comente donu sou naturale.
T'hat fattu forte, antiga e moderna
a su matessi tempu ses'eterna.

Qual è stata l'ora e quale il giorno
che hanno avuto la fortuna dei tuoi natali?
Al meglio è a te uguale (?)
qual è la mano e di chi è (?)
Sembra che balli e giochi e rida
come fosse un dono suo di natura.
Ti hanno fatto forte, antica e moderna
allo stesso tempo, sei eterna.

8. Cale ted esser sa bella istajone
e de cal'annu ted esser s'abrile?
Caru fiore a chie se simile
e a chie ti ponzo in paragone?
Dogni coro ti tenet passione
dogni coro ch'est nobil'e gentile.
Ma... tantu no si movet ne s'ischida
a ti torrare a novella vida.

Qual è stata per te la bella stagione
e quale anno è stato il tuo aprile?
Caro fiore, a chi somigli
a chi posso io paragonarti?
Ogni cuore di te si appassiona
ogni cuore nobile e gentile.
Ma... tanto non si muove ne si sveglia (nessuno)
per riportarti a nuova vita.

9. A ti torrare sos derettos tuos
comente l'hamus nois supplicadu;
pro s'ignotos chi t'hana ispozzadu
bi pensen sos guvernus ambos duos.
Torren'a tie sos meritos tuos
dae possessu chi l'hana ocultadu.
E ti torren s'istoria remunida
ca daigussu has perdidu sa vida!

Che ti restituiscano i tuoi diritti
come noi abbiamo supplicato;
e agli sconosciuti che ti hanno spogliato
ci pensino entrambi i due governi.
Ti siano restituiti i tuoi meriti
di possesso chi li ha nascosti.
E ti sia restituita la storia nascosta
che da questo hai perso la vita! (?)
 
10. Vida e noe seculos passados
no si podet no custu trascurare;
tiad esser a cherre calpestare
sos benes dae Deu ereditados.
Si los had'a su mundu signalados
proite los cherides debellare?
Pro unu logu de su Sacru cultu
su trattamentu sou no est cultu.

Vita di nove secoli passati
non si può questo trascurare;
e come volerti calpestare
i beni da Dio ereditati.
Se sono stati destinati al mondo
perchè li volete distruggere?
Per un luogo del culto Sacro
questo non è il trattamento giusto.

11. Deus che sezis tantu poderosu
e Santu Pedru ch'est su Titolare,
su tempus chi li restat a passare
faghide chi no siat dolorosu;
s'un'e i s'ateru sezis'isposu
de custa mama nostra singulare.
Faghide chi entrambos sos guvernos
torren a Issa sos benes internos.

Dio che siedi così potente
e San Pietro che è il Titolare (della Chiesa),
il tempo che le resta da esistere
ffate si che non sia doloroso;
l'uno e l'altro siete sposi
di questa nostra madre eccellente.
Fate si che entrambi i governi
le restituiscano i suoi beni.

12. Faghide chi sos bonos cristianos
generosos si mustren dae coro,
impignende sa volontade insoro
e i sas forzas de ment'e de manos;
particolare sos diocesanos
e abitantes de su Logudoro.
Incutide sa ostra piedade
pro custa mama nostra supplicada.

Fate si che i buoni cristiani
generosi si mostrino di cuore,
impegnando la loro volontà
e le forze di mente e di braccia;
in particolare i diocesani
e gli abitanti del Logudoro. 
Incutete in loro la vostra pietà
per questa nostra madre supplicate.

13. Si bos movides a cumpassione
e chi enides a la visitare,
devides fortemente lagrimare
osservende sa trista cundescione.
Si bos ponides in devossione
bos devide sos muros adorare.
Cando no b'agatades mancu Santu,
zertamente bos benit su piantu.

Se siete presi da compassione
e se venite a visitarla,
dovrete piangere molto
osservandone la triste condizione.
Se ne diventate devoti
dovrete adorarne le mura.
Quando non vi troverete neanche un Santo,
certamente vi verrà il pianto.

14. E' riservada solu pro sa festa
sa presenzia Sua in pompa magna
poi athaversada sa campagna
inghirlandadu cun corona in testa
intrat in domo Sua e si appresta
a sa Vergine Santa si accumpagna.
Si collocat a pese de s'altare
attirende su populus a pregare.

E' riservata solo per la festa
la sua presenza in pompa magna
poi, attraversata la campagna
inghirlandato e con la corona in testa
entra in casa sua e si prepara
alla Santa Vergine si accompagna.
Si colloca ai piedi dell'altare
attirando il popolo a pregare.

15. A ultimada santa funzione
poi e pagas oras mattutinas,
in testa, cumpagnias caddazzinas
e poi, sighit sa pruzessione;
restat sa cheja in desolazione

canto e muros e de moridinas.
Isettat s'aterannu a sa torrada
una olta sa festa zelebrada.

Alla fine della santa funzione
poi, alla mattina presto,
in testa compagnie a cavallo
e poi, segue la processione;
resta la chiesa desolata
come le mura e i muretti.
Si aspetta che arrivi l'anno successivo
una volta celebrata la festa.

16. Beru ch'est logu e pellegrinaggiu
e calchi missa intro de annada;
bei restat sa Vergine adorada
pius de tottu i su mes'e maggiu.
No b'hat difficultade ne disaggiu
como b'est sa piazza e i s'istrada.
Aria frisca dae sa marina
sana finz'a sa festa settembrina.

Vero è che è luogo di pellegrinaggio
e qualche messa nell'arco dell'anno (si celebra);
vi resta la Vergine adorata
maggiormente nel mese di maggio.
Non vi è difficoltà ne disagio
perchè vi è la piazza e la strada.
Aria fresca che viene dal mare
sana fino alla festa settembrina.

17. Memore si cunservat sa tragedia
de enti tres prelado seserciziu,
zelebresin sinsoro sant'uffiziu
treghentos norantannos cussa sedia;
finida santamente sa cumedia
andesit tottugantu in pregiudiziu.
Ultimada sa trista papione
fit distrutta sa popolassione.

Memore si conserva la tragedia
di venti tre prelati l'esercizio (?),
che celebravano il loro sant'ufficio
trecento novant'anni ...... (?)
finita santamente la commedia
se ne andò tutto in malora.
Ultimata la triste farsa (?)
fu distrutta la popolazione.

Vittima e sa plebe saracina
e ateros domimos de usura;
sa zittade tenzesit sepultura
pro iscopu e furtu e de rapina.
E poi su guvernu malispina
Aragona e attera... mistura.
Totta fit zente chi godiat fama
fiza e bonu babbu e bona mama!

Vittima della plebe saracena
e d'altri capi usurai;
la città ebbe sepoltura
a causa di furto e rapina.
E poi il governo Malaspina
Aragona e altre... razze miste.
Tutta era gente che godeva fama
di esser figlia di buon padre e buona mamma!

19. In cussu tempus de calamidade
de guerriglias e de pestilenzia,
gulpa e s'inumana cuscienzia
de Sorres fit distrutta sa zittade,
inue regnaiat s'innossenzia.
E cando fid'i su mezus fiore
bi semenesin tremendu terrore.

In quei tempi di calamità
di guerriglia e di pestilenza,
colpa dell'inumana coscienza
la città di Sorres fu distrutta,
dove regnava l'innocenza.
E quando era nel fior fiore dei suoi anni
vi seminarono tremendo terrore.

20. Cu sa religione de s'ispada
de su samben'e de saccheggiamentos,
ateros duros e bruttos momentos
custa Sardigna nostra tormentada,
dae so Saracinos invasada
suttopost'a sa vida de istentos.
Su settighentos doighi fit s'iniziu
e ruesit in tale sacrifiziu.

Con la religione della spada
del sangue e dei saccheggiamenti.
altri duri e brutti momenti
questa Sardegna nostra tormentata,
dai saraceni invasa
sottoposta a vita di stenti.
Il settecento dodici fu l'inizio
e cadde in tale sacrificio. (?)

21. Antigos iscrittores rinomados
pubblichesini liberos de vaglia,
e dipinghen sa razza e canaglia
ladrona senza tregua ispudorados!
nisciuna caridade ispiedados!
fiumana maligna de iscaglia.
Barbara cantu mai che paganos
contra sa vida de sos cristianos.

Antichi scrittori rinomati
pubblicarono libri di valore,
e descrissero la specie di canaglia
ladrona e senza riposo e senza pudore!
nessuna carità senza pietà!
fiumana maligna bestiale.
Barbari come non mai come pagani
contro la vita dei cristiani.

22. A sa minuscola povera zente
ispaventada dae su terrore,
finant a sos montes cun dolore
pro si salvare sa vida innozente,
e i s'istadu su pius dolente
fit pissighida cun pius furore.
Unu de custos in monte Sorranu
assediada cun s'ispada in manu.

Alla povera gente del popolino
spaventata dal terrore,
fino ai monti con dolore
per salvarsi la vita innocente,
e nello stato più dolente
fu perseguitata con maggior furore.
Uno di questi nel monte di Sorres
assediata con la spada in mano.

23. In su seculo decimu quartu
(segundu opinione de Zurita)
giusta s'opera sua chi ada iscritta
e paret de zertesa pius'inaltu;
sa zittade fit cintas e pedra e crastu
fortificada e bene provista.
Cando dominaiat Aragona
atera custa puru: zente ona!...

Nel secolo decimo quarto
(secondo l'opinione di Zurita)
come dice nell'opera che lui ha scritto
e sembra con massima certezza;
la città fu cinta di pietre e massi
fortificata e ben provvista.
Quando dominava Aragona
anche questa pure: gente buona!

24. Poi e tanta tribulassione
de impoverimentu e de oltraggiu,
de haer fattu fronte a su disaggiu
oprimida e tanta impressione;
fit colpida sa popolassione
de peste, carestia de passaggiu
a sa pius dicciosa eterna vida
cu sa zittade mesu distruida.

Dopo tanta tribolazione
di povertà e di oltraggio,
di aver fatto fronte al disagio
oppressa da tante impressioni
fu colpita la popolazione
dalla peste, carestia di passaggio
alla più dolce vita eterna
con la città mezzo distrutta.

25. Restesit calchi mesu casolare,
truncos de turres e muros crollante,
ateras operas perigulante
e han deidu poi tramontare;
solu su monumentu seculare
chi restesit ancora trionfante.
No bidimus'unateru signale
chi siat testimonzu e tantu male.

Restò (in piedi) qualche mezzo casolare,
tronchi di torri e muri crollanti,
altre opere pericolanti
e che poi sono scomparse;
solo il monumento secolare
è sopravvissuto ancora, trionfante.
Non vediamo nessun altra vestigia
che sia stato testimone di tanto male.

26. A ultimadu passiu cungiuntu
de tempus dolorosu hamontadu,
devo narrer su c'happo sonniadu
e nezessariu fatto unu suntu,
fora e sa rejone de ogni appuntu
subra sos versos chi appo cantadu.
E gai torro como a su cunzettu
de s'istadu dolent'e su soggettu.

Al termine di questo percorso di passione congiunta
di tempi dolorosi appesantito (?)
devo dire ciò che ho sognato
e necessariamente farne un sunto,
al di la di questi appunti ragionati
sopra i versi che ho cantato.
E così torno ancora al concetto
dello stato dolente del soggetto.

27. Su soggettu ses tue cosa amada
mama de custu mundu ifidiadu,
chi su coro ingratu hat dimustradu
dae seculos vivese ispozada;
quasi tottalmente abbandonada
passat doni presettu inosservadu.
Sos fizos tuo si giran'intundu
dedichende s'a cosas de su mundu.

Il soggetto sei tu, cosa amata,
madre di questo mondo senza fede
che di avere il cuore ingrato ha dimostrato
da secoli vivi spogliata;
quasi totalmente abbandonata
passa ogni precetto inosservato.
I tuoi figli si guardano intorno
occupandosi delle cose mondane.

28. Tantu rispettu pro sa vanidade
e poesia pro s'ambizione,
a tenner sempre inaltu sa persone
mancari siat i sa povertade;
e nalzende sa santa veridade
tott'est'ingannu tottu illusione.
Ma contra sa superbia savarizia
Deus emanat sa Sua giustizia.

Tanto rispetto per la vanità
e poesia per l'ambizione,
mantiene sempre in alto le persone
anche se vivono in povertà;
e dicendo la santa verità
tutto è inganno, tutto è illusione.
Ma contro la superbia e l'avarizia
Dio emette la sua giustizia.

29. Deus cheret sos fizos a sa manu
in domo Sua pro los guidare,
e no cheret su logu a disertare
istabilidu pro su cristianu;
unu de custos in monte Sorranu
ses tus monumentu seculare.
De tantos chi faghias numer'unu
e como no ti calculat nisciunu!

Dio vuol prendere per mano i suoi figli
nella sua casa, per guidarli,
e non vuole che il luogo sia abbandonato
stabilito per i cristiani;
uno di questi (luoghi è) nel monte di Sorres
sei tu monumento secolare.
Da quando eri il numero uno
a quando non ti considera più nessuno. 


30. Nara cantos dolores has passadu
cantas penas'ancora se suffrende!
forsi solu ti miro pianghende
cu su coro feridu e attristadu;
e cantas boltas t'appo sonnìadu
che in tempus antigu trionfende!
Mi ses cumparsa totta illuminada
e de arazzos a festa parada.

Racconta quanto dolorehai sofferto
quante pene ancora ti affliggono!
forse solo ti vedo piangere
col cuore ferito e triste;
e quante volte t'ho sognato
trionfante, nei tempi antichi.
Mi sei apparsa tutta illuminata
e di arazzi a festa parata.

31. Comente mi parias lussuosa!
abbellida e santa funzione
sa festosa illuminassione
che in passadu sa pius dicciosa;
dogni pedra pariat una rosa
in oro cunvertidu ogni cantone.
Amada e istatuas e Santos
sos muros risplendian tottugantos.

Come mi sembravi ricca!
abbellita dalla santa funzione
con la festosa illuminazione
che in passato eri la più beata;
ogni pietra sembrava una rosa
in oro trasformato ogni blocco (di pietra).
Amata, e di statue di santi
 le mura risplendevano tutte quante.

32 Santu Pedru cumpalfidu i s'Altare
subra de una musa risplendente;
cantu fit bellu pariat vivente
ispicchende su passu a caminare.
Sos'Anghelos deviana cantare
cun musica sas lodes dulzemente,
poi cun'armonia pius forte
atero Santos li faghian corte.

San Pietro comparso sull'altare
sopra una musa risplendente;
com'era bello sembrava vivo
spiccando il passo per camminare.
Gli angeli cantavano
con la musica le lodi, dolcemente,
poi con armonia, più forte
altri santi gli facevano il coro.

33. Sa Vergine de grazia piena
in'altu tronu si fit presentada,
de sa gloria Sua coronada
cumpariat cu Santa Filomena;
e li fini fatende sa novena
poi su pesperu e missa cantada.
Su populu Sorranu in unione
zelebrende solenne funzione.

La Vergine, di grazia risplendente
su l'alto trono si presentò
coronata della sua gloria
compariva con santa Filomena;
e infine facendo la novena
poi il Vespro e messa cantata.
Il popolo di Sorres tutto unito
celebrando la solenne funzione.

34. Tue fist tottaganta trasformada
ancora pius manna e pius bella,
de lugore parias un'istella
dae sos fizos tuos venerada.
A sughelu t'haiana inalzada
de saltu Regnu parias gemella.
No fisti unu terrenu monumentu
puru chessaret de oro e argentu.

Tu eri tutta trasformata
ancora più grande e più bella,
dal fulgore sembravi una stella
dai figli tuoi venerata.
Al cielo t'avevano innalzata
dell'alto Regno sembravi gemella.
Non eri un monumento terreno
anche se ti mancava oro e argento (?)

35. Cale misteriosu sonnu meu!
e de tantu no poto esser dignu,
ma chi siat de te unu carignu
o palpitu e custu coro meu?
Forsi suggerimentu dae Deu
o de s'anima mia calch'impignu?
De haer fattu votu no mi ammento
e de haer peccadu già mi pento.

Che sogno misterioso!
di tanto non posso esser degno,
ma che sia di te una carezza (?)
o un palpito di questo mio cuore?
Forse fu un suggerimento di Dio
odella mia anima qualche impegno?
Di aver fatto voto non ricordo
e di aver peccato già mi pento.

36. No una olta sola est capitada
custa bella suggesta visione,
provocada e calda passione
ch'intro e coro meu est'incarnada.
Ses continuamente sonniada
doedando tenzusu e rejone.
E meda oltos los'appo isvelados
sos sonnos chi mi sunu capitados.

Non una sola volta mi è capitata
questa bella suggestiva visione,
provocata da calda passione
che dentro il mio cuore s'è incarnata.
Sei continuamente nei miei sogni
da quando ho iniziato a capire.
E molte volte ho rivelato
i sogni che mi sono capitati.

37. Insargumentu chi appo trattadu
no si firmat sa mia attenzione:
atera pius bella visione
durante vida mia appo sonadu,
e in modu diversu e variadu
cun pius giara cumbinazione.
Appo devidu puru faeddare
cun chia? no lu potto ispiegare.

Sull'argomento che ho trattato
non si ferma la mia attenzione:
altre più belle visioni
durante la mia vita ho sognato,
e in modo diverso e vario
con tante combinazioni.
Avrei dovuto parlarne
con chi? non lo potevo spiegare.

38. Si naro custu mi lean pro maccu
e mezus conservare su segretu;
mancari siat in sonnu perfetu
podet a su sabine dare intaccu,
attribuende sonnos a su... baccu
pro su cale bi tenzo pagu affettu.
Pensende viceversa calmu e seriu
so sonnos tenen tott'unu misteriu.

Se raccontassi questo mi prenderebbero per matto
è meglio conservare il segreto;
anche se è un sogno perfetto
può al saggio recare danno,
attribuendo i sogni al... vino
per il quale io ho poco affetto
Pensando, invece, con calma e serietà
i sogni mantengono tutto il loro mistero.

39. Mi dispiaghet chi resto delusu
dae sas visiones ingannadu,
e cantas boltas mi so ischidadu
mi battiat su coro e fit confusu;
sas veridades no fini piusu
ischende chi mi fia sonniadu.
Poi, currende prestu a su balcone
bido sa Cheja in desolassione!

Mi dispiace se resto deluso
dalle visioni ingannato,
e quante volte mi sono risvegliato
mi batteva il cuore ed ero confuso
le verità non finiscono più (?)
sapendo ciò che avevo sognato.(?)
Poi, correndo veloce al balcone
vedo la chiesa in abbandono!

40. Bido sa mama mia isconsolada
inistadu e pena e de piantu;
no intendo più su dulze cantu
e ne Anhelos bido i sa contrada;
apparit dae nou cambiada
orfana, sola senza b'haer Santu.
Già chi s'altare Sua l'han distrutta
Santu Pedru allogiat in Burutta.

Vedo la madre mia sconsolata
in stato pietoso e in pianto;
non sento più il dolce canto
e neppure angeli vedo nel quartiere;
appare di nuovo trasformata
orfana, sola e senza Santo.
Da quando il suo altare è stato distrutto
San Pietro alloggia a Borutta.

41. Su milli noighentos vintisese
tempus de una noa volontade, chi pariat amore caridade
basende a tottu sos manos e pese;
visitas e... prommissas pius de trese
bei faghiat s'autoridade.
Poi, unu terribile flagellu
ha postu tottu su logu in burdellu.

Nel millenovecento ventisei
tempi di nuove volontà,
che sembrava d'amore e carità
baciando a tutti mani e piedi;
visite e... promesse più di tre
ci facevano le autorità.
Poi, un terribile flagello
ha messo tutto in disordine.

42. In custu noighentos barantotto
s'affacciat dae nou a s'orizzonte,
e paret chi si ponzat pius de fronte
su trattadu progettu postu i mottu,
sutta sa bona guida e dotto
pro su risvegliu dei cussu monte.
A riedificare su Guventu
comente prima dae fundamentu.

In questo millenovecento quarantotto
s'affaccia di nuovo all'orizzonte,
e sembra stia per realizzarsi
il già detto progetto rimesso in moto,
sotto la buona guida d'un dotto
per il risveglio di quel monte.
Per riedificare il convvento
com'era un tempo, dalle fondamenta.

43. A riedificare sa memoria
de s'antigu tesoro abbandonadu,
de su tempus c'hat perdidu e lassadu
de un'era chi torrat a s'istoria.
A laude, osanna e gloria
de s'Altu Regnu chi l'hat motivadu.
E poi chi no restet a sa sola
torran sos Padres e faghen'iscola.

A ricostruire la memoria
dell'antico tesoro abbandonato
del tempo perduto e passato
di un'era che torna alla storia.
A lode, osanna e gloria
dell'Alto Regno che l'ha voluto.
E poi affinchè non resti sola
tornano i Padri a farvi scuola.

44. Pro custa noa generazione
dae bonu caminu traviada,
dae tempus hat perdidu s'istrada
pro elementos fora e rijone;
contrari a su cultu in funzione
cheret s'idea sua rispettada.
E no approdat a su cumprendoniu
de l'opera maligna e su dimoniu.

Per questa nuova generazione
bal buon cammino traviata,
che da tempo ha perso la strada
a causa di elementi estranei
contrari al culto in vigore
vogliono che la loro idea sia rispettata
e non riescono a capire
che è opera del diavolo.

45. Custu cheret sa zente Uruttesa
cun sas vicinas popolassiones
In sa Cheja Sorrana funzione
e Sazerdotes a s'antiga mesa.
Sa cristianidade sa difesa
chi li pretendet sa religione.
Da edade minore professada
dae sos genitores imparados.

Questo vuole la gente di Borutta
con le vicine popolazioni.
Nella chiesa di Sorres, funzione
e sacerdoti all'antico altare (tornino).
La difesa della cristianità
che la religione pretende
Sin da piccoli professata
dai genitori insegnata.

46. Ecco finidu su cantigu meu
e i como li ponzo su cappellu.
Mancari chi no sia tantu bellu
so seguru chi mi perdonat Deu;
si no appo cantadu tottu a reu
siet s'antigu che i su novellu.
Chie legge mi devet cumpatire
si cosas noas no li fato ischire.

Ecco terminato il mio canto
e questa è la chiusura.
Anche se non sarà tanto bello
sono sicuro che Dio mi perdonerà;
se non ho cantato tutto in giro
sia il vecchio che il nuovo.
Chi legge mi deve compatire
se cose nuove non ho fatto conoscere.

Fine

Aggiungo a quest'opera solo poche righe, per cercare una spiegazione ad alcuni fatti accennati in alcuni dei versi storici.
Partiamo dal n. 17: potrebbe trattarsi infatti dei ricordi di un fatto storico accaduto nel 390 d.C., l'autore probabilmente si riferisce alla strage di Tessalonica. In quegli anni a Tessalonica fu ucciso il Magister Militum Boterico che a causa di continui disordini in città aveva impedito agli abitanti di Tessalonica di presentarsi ai giochi con la propria fazione. Questi si erano ribellati e l'avevano ucciso e fatto a pezzi. Teodosio è allora imperatore e si vendica dell'uccisione di Boterico organizzando dei giochi solo per i cittadini, poi chiuse le porte dell'arena, fa uccidere tutti. Si dice che fossero novemila le vittime, in pratica fu distrutta una città.
L'autore nel n.20 ci parla dei saccheggi dei saraceni avvenuti nel settecento dodici, effettivamente in quegli anni i saraceni attaccano la Sardegna, e non per la prima volta.
Al numero 23 e 24 infine ci parla di una peste che colpì la città nel XIV secolo.

Sono convinto che la traduzione sia approssimativa e chiedo l'aiuto della rete per completarla, in particolare alcune frasi non trovano un completo significato e nel testo sono evidenziate in giallo.
Ringrazio chi è arrivato alla fine per la pazienza e spero di aver contribuito a riportare alla luce un bel pezzo di poesia sarda e la memoria del suo autore: Farantoni Sai.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


sabato 17 settembre 2016

Difficile spiegare, impossibile capire, di Carmelo Sarcià

(Poesie della maturità)

Commentare un libro di poesie è sempre un'impresa.
Quando poi si tratta delle poesie di un amico, è ancora più difficile.
Naturalmente parlo di me, forse per altri non è la stessa cosa, forse c'è chi si trova a proprio agio con le poesie come con un romanzo o un saggio storico. Per me non è così.
Perché, potrete chiedervi.
Perché io stesso scrivo poesie e so bene cosa significhino quelle poche righe, spesso scritte di getto, sulla scia di un momento di malinconia, di tristezza o, talvolta, di gioia. 
So bene che a volte le poesie sono incomprensibili se non a chi le ha scritte, perché cercano di esprimere con le parole ciò che con le parole spesso non è esprimibile.
Eppure, seppur consapevole delle difficoltà, mi accingo a commentare il libro di Carmelo e per farlo, partirò dall'ultima.
Epitaffio numero 53, è il titolo, e mi ha colpito per la sua asprezza e per la forza con cui Carmelo esprime la sua voglia di essere ricordato. Ne riporto una parte:

"Solo una lastra di travertino grezzo
col mio nome scolpito nella pietra,
colorato di rosso: Carmelo
senza date di nascita e di morte.

Quindi aggiungete:
Figlio di Anna e Salvatore
Marito di Marilia
Padre di Alessia e Alessandro
Nonno di Ludovica e Luigi

Questo è il compendio di tutta la mia vita."

Ecco, credo che questa poesia sia da prendere a riferimento per una vita saggia.
Tutto ciò che conta, alla fine, quando non ci saremo più, è la nostra famiglia e il ricordo che loro avranno di noi.
Ogni poesia è un pezzo di vita dell'autore e nelle poesie di Carmelo, si legge la sua vita. Nel bene e nel male, nella gioia e nella tristezza, nella buona e nella cattiva sorte...

Grazie, Carmelo,
perché ora, dopo aver letto le tue poesie,  mi sento tuo complice, avendo vissuto (seppure in parte) le tue esperienze e i tuoi sentimenti. 
Ti auguro ogni bene e che tu possa vivere a lungo, per vivere altre emozioni... e scrivere ancora Poesie.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 16 settembre 2016

Un Libero Santostefanese, di Alessandro Busonero

Una bella serata in compagnia di amici e soprattutto dell'autore del libro "Un Libero Santostefanese", Alessandro Busonero.
La presentazione è avvenuta nella piacevole sede del Circolo Ufficiali della Marina Militare di Roma, dove l'autore dialoga con Carlo Romeo, Direttore Generale della San Marino Rtv e Domenico Scopellitti, vice presidente di Operation Smile Italia.











"Porto S. Stefano, oggi rinomata stazione balneare conosciuta in Italia e all’estero, nonché capoluogo del Comune di Monte Argentario (GR), era parte del territorio del piccolo Stato dei Reali Presidi Spagnoli di Toscana istituito nel 1557..."
Porto Santo Stefano è anche il paese di origine di un uomo, Libero Busonero, nonno dell'autore, che visse in prima persona la II Guerra Mondiale.
Alessandro, col suo libro, rievoca le vicende del nonno attraverso i ricordi dei familiari, le foto gelosamente custodite tra le pagine dei vecchi album e i documenti militari riemersi dagli archivi grazie alla sua ferrea volontà di ricerca.
E' qualcosa di più di un libro di ricordi di un singolo uomo, la storia di una famiglia, i Busonero, e più in generale di tutto il paese, prende corpo grazie alla sapiente scrittura dell'autore.
Questo testo è contemporaneamente un libro di storia, una biografia, una raccolta di ricordi e un esempio di vita. Così, sfogliando le sue pagine incontriamo l'origine di Porto Santo Stefano, il capostipite della famiglia Busonero (Gio Antonio Busonero, di Nuoro) e la vita di Libero raccontata da documenti e parenti... (continua)


Alessandro Busonero prosegue nel racconto della vita del nonno Libero, alternando le vicende di famiglia con quelle più cruente della guerra, dei bombardamenti, delle distruzioni, momenti felici e momenti tristi, vita familiare e storia d'Italia.

Un grande libro che merita di far parte della biblioteca personale non solo di un vero Santostefanese ma di ogni italiano.

Infine, non senza importanza, con l'acquisto del libro si diventa parte dei sostenitori della Fondazione Operation Smile Italia Onlus.

Grazie a tutti per la piacevole serata.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 11 settembre 2016

Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway

Vi sono libri che sono stati scritti per essere letti una volta e poi dimenticati sul ripiano di una libreria, altri sono stati scritti per essere usati, di tanto in tanto, per reperire informazioni utili. Infine, una piccola parte, sono stati scritti per essere immortali, per essere letti ogni estate e posati nuovamente sullo scaffale già sapendo che un anno passa presto. Non c'è bisogno di dire che, per quanto mi riguarda, "Il vecchio e il mare" appartiene a quest'ultima categoria!
Non ricordo quando lo lessi per la prima volta, forse una decina d'anni fa, in ogni caso da allora l'ho riletto ogni volta che mi è passato per le mani.
Ieri sera, frugando tra i miei libri alla ricerca di qualcosa da leggere, ho ritrovato "il vecchio e il mare" e non c'è stato bisogno di andare oltre.
Un vecchio pescatore, un ragazzo che se ne prende cura come può, il mare e la lotta per la vita tra l'uomo e la natura, questi gli ingredienti di uno dei più bei romanzi mai scritti.
Hemingway è riuscito, con il suo racconto, a far vivere i suoi personaggi. L'enorme marlin, i pescecani, il tuna, la stessa lenza da pesca, ci parlano attraverso le parole e i pensieri del vecchio Santiago.
Ottantacinque giorni di sfortuna e poi, finalmente, l'avventura della vita, la lotta tra un vecchio pescatore e la sua preda, un marlin di cinque metri e mezzo di lunghezza. Lotta che si consuma nel Golfo, nell'Oceano Atlantico, al largo de L'Avana, tra le profondità immense del mare.
Il vecchio non ha paura del mare, è il suo elemento e lo rispetta, come rispetta tutte le creature, anche e soprattutto quelle che è costretto ad uccidere per vivere (e talvolta per sopravvivere!).
Forse non apprezza troppo i pescecani, che dopo la lotta gli portano via la sua preda.
Il vecchio pescatore ha vinto la sua battaglia, forse l'ultima. Tornato al porto riacquista però il rispetto di tutti i giovani pescatori che osservando ciò che resta del grande pesce possono solo immaginare la lotta che si è svolta in mare.
Il giovane Manolin ritorna ad assistere il vecchio, consapevole che ha ancora tanto da imparare...
Un libro stupendo cui le mie poche righe non rendono certo il giusto merito.
Hemingway col suo "Il vecchio e il mare" ci ha lasciato un ricordo indelebile di se. Nel leggerti, un pensiero va anche a te, reso immortale dal tuo vecchio e dalla sua preda, il marlin.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Sull'uso degli scarabei in Egitto, un'ipotesi

Ho appena terminato la lettura di una lettera del Cavalier Giulio di San Quintino, relativamente all'uso degli scarabei e, non avendo mai sentito parlare di questo argomento, ho pensato potesse essere di interesse anche per altri e così ho scritto questo piccolo articolo che spero non troverete noioso.
Il Cavaliere sta rispondendo ad una lettera di G.B. Vermiglioli in cui si parlava di una moneta unciale attribuita al conio di Heretum dei Sabini.
Nella sua risposta i lCavaliere parla a sua volta di un argomento di interesse: gli scarabei egiziani.
Questi oggetti, custoditi presso il museo di Torino sono stati oggetto dei suoi studi approfonditi, possibili anche grazie al gran numero di scarabei presenti nella collezione Reale.
Il Cavaliere, in primo luogo chiarisce l'argomento che tratterà: "sotto nome di scarabei intendo parlare di quei piccoli monumenti dello antico Egitto, figurati o scritti nella loro parte liscia, fatti di terra cotta ovvero di pietra, ed aventi, per lo più, la forma di quello Scarofaggio che si vede tutto dì fare per terra la pallotta, o d'altro animale, o cosa non molto diversa dalla figura ovale e tondeggiante di quell'insetto".
Secondo il Cavaliere, gli scarabei sono la parte più numerosa delle collezioni egizie e vanno divisi in due categorie principali:
- gli scarabei sepolcrali;
- gli scarabei destinati per gli usi civili della società;
Secondo l'autore (e chi può avere a portata di mano tali oggetti potrà verificare) gli scarabei sepolcrali sono una minima parte del totale, sono di dimensioni maggiori e solitamente sono privi di iscrizioni e figure, e quando invece hanno delle scritte queste si riferiscono ai defunti. L'autore della lettera ci dice che nella collezione reale vi erano poco più di ottanta scarabei sepolcrali. La dimensione varia dai 3 ai 7 centimetri e sono realizzati in pietre dure di vario tipo. 
Il secondo tipo di scarabei invece è differente. Intanto la forma è solo abbozzata e sono traforati nel senso della lunghezza (mentre quelli sepolcrali non hanno foro!). Di questo tipo vi erano circa 1700 pezzi. La dimensione va dai 7 millimetri ai 4 centimetri, sono realizzati in terra cotta smaltata e sono molto leggeri.
Il cavaliere a questo punto pone una domanda: "Ma a che cosa dunque servivano in Egitto questi curiosi, numerosissimi lavori?
Occorre distinguere, come sopra, tra i due tipi: "gli scarabei sepolcrali accompagnano i defunti nella tomba come simboli, probabilmente, dell'Universo, e del suo facitore. Ma, intorno agli altri, vario tuttora ed incerto è il parere degli eruditi".
A questo punto nella lettera segue una breve analisi di alcune ipotesi e del perchè lui non sia d'accordo su di esse, quindi passa ad esporre una sua ipotesi e a giustificarla, ma prima osserva che: "Fa veramente meraviglia come fra l'infinito numero delle cose antiche d'ogni forma e sostanza che, già da più secoli si vanno scavando nella valle del Nilo, non siasi scoperta mai, una sola moneta di vero conio egiziano; quando, all'incontro, se ne trovano ogni giorno in gran copia di quelle battute colà, non solo dai Romani, e dai Greci, ma talvolta ancora dagli stessi Monarchi Persiani, che furono a contatto cogli ultimi Faraoni", e poco oltrea ggiunge: "E' per altro impossibile che un popolo ricco, ingegnoso e potente [..] abbia potuto rimaner si gran tempo privo di uno dei cardini della società, voglio dire della moneta, o di altra cosa che la rappresentasse".
Ecco, infine, svelato l'argomento della lettera: la moneta egiziana.
Il Cavaliere prosegue nello spiegare i vantaggi della moneta (o suo sostituto) e di come i piccoli scarabei possano in tutto supplire la monetazione metallica.
"Quel succedaneo della moneta in Egitto dovea avere in se tutte , od in parte almeno, le proprietà de' metalli men rari; dovea essere di una materia dura, poco voluminosa, non greve, capace di lunga durata, ed atta a ricevere, e conservare gl'impronti; di una figura sempre uniforme, di una forma tondeggiante anzi che angolosa, affinchè per continuo attrito non venisse troppo presto a logorarsi. Doveva essere inoltre di una sostanza triviale, e di facile lavoro, acciocchè  il prezzo della materia, e dell'opera, non superasse il valore delle cose più dozzinali per le quali si dava. Dovea essere, per ultimo, infinitamente moltiplicata, affinchè potesse bastare ad una nazione ricca e numerosissima." 
Ebbene, non si può certo dire che gli scarabei non siano più che adatti a svolgere la funzione di monete accorpando in se tutte le caratteristiche indicate.
Il Cavaliere prosegue la sua spiegazione dilungandosi sulla storia antica per poi tornare pragmaticamente ad osservare: "gioverà ancora por mente alle seguenti osservazioni che mi vennero fatte esaminando la collezione degli scarabei in questo Regio gabinetto.
"1° Nella serie di questi scarabei, che è poco minore di mille settecento, come si è già detto, io ne ho contato un centinaio circa, i quali in vece di essere segnati colle solite note geroglifiche, ovvero con figure, presentano dei punti fatti a modo di piccoli cerchietti, regolarmente disposti, e di vario numero dall'unità fino al venti. Non è cosa improbabile che in tal guisa, come appunto sulle frazioni dell'Asse Romano, venisse indicato il maggiore o minor valsente nominale di ciascuno scarabeo. 
2° Nella maggior parte degli scarabei fatti di porcellana, i quali come ho già notato, sono di tutti, i più numerosi, i loro smalti durissimi veggonsi quasi intieramente consumati nelle parti prominenti [..] la qual cosa, come ognun vede, non può essere che l'effetto di un lungo sfregamento prodotto dall'uso quotidiano di quelle porcellane, non diversamente da ciò che noi vediamo accadere alle monete correnti nel giro di pochi anni.
3° Si può notare che il foro è spesso allargato, da cui si evince che venivano infilzati e così trasportati.
4° Anche gli scarabei in pietra dura riportano gli stessi segni di sfregamento dei più semplici scarabei di terra cotta.
5° Questi scarabei riportano il nome del Monarca egiziano sotto cui ebbero validità, a similitudine delle nostre monete. Se ciò fosse vero, si potrebbe anche dedurre, dalla numerosità di alcuni scarabei, periodi di crisi e di conseguente svalutazione.
6° Spesso negli scarabei vi sono rappresentati anche gli Dei".
Il Cavaliere termina il suo scritto con una osservazione sulla parsimonia degli Egiziani che usando gli scarabei come moneta non mandavano in polvere patrimoni, come invece accade nei popoli che usano i metalli, a causa del continuo sfregamento.
Devo dire che le osservazioni del Cavaliere Giulio di San Quintino mi hanno colpito e affascinato per la loro profondità e mi stupisce di non aver mai letto niente in proposito, come se queste osservazioni fossero andate perdute. Se così è stato, spero con queste poche righe, di rendergli anche se in ritardo il giusto merito.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO  
 

 

Il papiro dei Re di Torino, considerazioni intorno al sistema de' numeri presso gli antichi egiziani

Ho appena terminato di leggere un saggio/lettera del Cavaliere Giulio di S. Quintino, "Sopra il sistema de' numeri presso gli antichi egiziani" pubblicato il 15 gennaio 1825, inviata all'Abate Giovan Battista Zannoni.
Avendolo trovato molto interessante e non avendo mai sentito prima parlare di ciò, ho ritenuto importante scrivere alcune righe per ricordarlo.
Il Cavalier Giulio di S.Quintino era allora conservatore presso il Museo Egizio di S.M. il Re di Sardegna, in Torino, mentre l'Abate era segretario della Reale Accademia della Crusca e Regio antiquario nell'I. e R galleria di Firenze.
L'oggetto della lettera/saggio, come traspare dal titolo, è il sistema numerale degli Egizi.
Il Cavaliere spiega di essersi avvalso, per i suoi studi, di contratti demotici e registri ieratici "pieni in ogni loro parte di date e di quantità numerali" ma, più utili sono stati per lui "i miseri avanzi di un antico codice cronologico egiziano che presso di noi pure si conserva, ridotto però dal tempo, in centinaia di frammenti".
Il Cav. ci parla dunque di un codice cronologico antico e molto rovinato. Aggiunge che il primo a visitare e studiare il codice fu Champollion il minore. Sulla base dell'analisi del codice, Champollion pubblicò diversi articoli sui giornali d'oltralpe, definendo il papiro "un vero canone reale fatto a somiglianza di quello di Manetone; come un tesoro per la storia, di cui non si potrà mai deplorare abbastanza la perdita per ciò che ne manca; come un'appendice inestimabile alla celebre tavola genealogica d'Abydos, e contenente una serie di oltre cento Monarchi egiziani".
Una notizia interessante senza dubbio, per quei tempi di sicuro, trattandosi di una scoperta che aggiungeva almeno cento Re a quelli allora noti. Sicuramente Champollion utilizzò questi dati nella sua cronologia, facendo risalire i faraoni più antichi anche al 6.000 a.C., per Champollion il Re Menes, capostipite della Prima dinastia, unificò alto e basso Egitto nel 5867 a.C.. Attualmente si ritiene che Menes abbia regnato intorno all'anno 3000 a.C., ma siamo sicuri che le datazioni odierne siano corrette? 
Vediamo cosa ci dice ancora il Cavaliere Giulio di S. Quintino.
"Ora egli è evidente che aggiungendo quei settecento od ottocento anni, all'anno millequattrocento settanta tre avanti l'era volgare, nel quale, con molta ragione, si crede dagli eruditi che il Re Sesostri abbia cominciato a regnare, noi saremo trasportati, dalla sola tavola d'Abydos oltre i tempi d'Abramo, in un'epoca già assai vicina al diluvio, secondo la cronologia de' libri Santi.
Come si può vedere chiaramente, l'autore è preoccupato di non andare in contrasto con la cronologia ufficiale riconosciuta dalla chiesa. Il periodo di 700 o 800 anni, riferito ad un centinaio di Faraoni è chiaramente sottostimato, potendosi più realisticamente valutare, a mio parere, in almeno 2000 anni.
Ma non è tutto, infatti poco più avanti si dice: "Eppure Ella dee sapere, sig. Abate pregiatissimo, che i nomi dei Faraoni che si trovano sparsi in quei frammenti sono veramente assai più di cento; io stesso ne ho riscontrato più di dugento; ed è cosa probabilissima che nell'intiero papiro il loro numero fosse anche maggiore...".
Ciò potrebbe significare aggiungere non 2000 anni ma piuttosto almeno 4000!
Riportando così l'epoca dei primi faraoni almeno al 5000/6000 a.C. ovvero ai tempi indicati da Champollion. 
Ma allora cosa spinge i nostri studiosi a porre molto più vicino nel tempo l'alba dell'Egitto?
Non penso che oggi si tratti di rispetto per la cronologia biblica ma non ne capisco il reale motivo.
Proseguendo la lettera, il Cavaliere avanza delle ipotesi più che credibili:
"Questo nostro canone cronologico tanto celebrato non sarebbe egli mai per avventura quello stesso codice nel quale erano registrati i 340 Re, i quali secondo ciò che i sacerdoti di Tebe voleano far credere ad Erodoto (Erodoto, II, 142) tennero lo scettro di Egitto per lo spazio di undicimila trecento e quaranta anni, da Menes, loro primo Monarca fino a Sethos Re e sacerdote di Vulcano?"
In effetti conoscevo già la storia di Erodoto e non ho mai capito per quale motivo i nostri storici non abbiano mai preso la cosa sul serio. Anche nel Timeo di Platone si fa riferimento all'antichità dell'Egitto ma per i nostri scienziati e storici gli Egizi non possono aver creato un regno sopravvissuto per più di 3000 anni!
Il Cavaliere prosegue dicendo che il codice riportava, per ogni Faraone, il nome, il periodo del suo regno  in anni, mesi e giorni "con estrema precisione". 
Riconosce pure lui che una serie di duecento sovrani non poteva non abbracciare un periodo di tempo inferiore ai trenta o quaranta secoli. Dice inoltre che gli elenchi furono trovati somiglianti a quelli di Manetone, per inciso altro autore non tenuto in considerazione dagli storici.
A questo punto sembra che il Cavaliere Giulio di S. Quintino si ricordi che sta scrivendo ad un Abate e ritorna a parlare del suo studio sul sistema numerale, professando anzi la sua contrarietà all'approfondire lo studio della successione dei Monarchi: "Abbandonai quindi al suo destino tutta quella turba disordinata di Faraoni, nascosti sotto il velo di oscuri prenomi per lo più mutilati; perchè com'ella può credere, non mi vanno punto a genio sì fatti antichi documenti cronologici, che non so trovar modi di conciliare facilmente coi testi delle scritture sante, ed in particolare colle otto generazioni che precedettero, dopo il diluvio, la nascita d'Abramo (Genesi XI)".
Ecco, così il Cavaliere abiura al suo ruolo di uomo di scienza per prostrarsi di fronte all'uomo di chiesa!
Questa, forse, la sua unica preoccupazione: che qualcuno possa comprendere che nel papiro si parli di tempi antecedenti allo stesso Adamo: "Pericolo è che tale papiro possa contribuire segretamente a distruggere l'infallibilità della sacra storia scritta da Mosè".
Non credo di dover aggiungere altro!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Goffredo MAMELI, il corpo e lo spirito della nazione.




Goffredo Mameli ma chi era? Per molti concittadini Mameli è “quello” che ha scritto l’Inno d’Italia, ma poco si sa della sua intensa e breve vita. Lo stesso Inno è poco amato, la patria dei grandi musicisti come Verdi, Rossini, Puccini, Donizetti, sembra essere poco rappresentata dalla “marcetta” del “Canto degli Italiani”.

Ma le cose non nascono per piacere, la storia non è un discount a scaffali dove prendere ciò che più ci attira e soddisfa. La storia è la vita degli uomini e delle loro gesta, e la vita di Mameli è la vita di un uomo, di un intellettuale, di un patriota e di un martire.

Quando Goffredo Mameli muore a soli 22 anni, il 6 luglio 1849, l’Italia unita era ancora un miraggio, un sogno irraggiungibile. Molti dopo la disfatta della Repubblica Romana di Giuseppe Mazzini si convinsero che l’Italia Unita non avrebbe mai visto la luce. Troppi nemici fuori e dentro il continente italiano remavano contro l’unificazione, e soprattutto la repubblica di Mazzini sembrò aggravare le contraddizioni del processo Unitario - La Repubblica Romana apparve troppo sconveniente per conciliare il paese che doveva essere del Papa e dei Savoia. Cavour capì bene la situazione e da uomo pragmatico quale era disegnò una strada per l’Unità che prevedeva i Savoia e il papato a discapito delle idee di Mazzini e dei mazziniani.

Ma torniamo a Mameli. Gli eventi che caratterizzano la vita di Mameli si consumano velocemente, nell’arco di soli tre anni. Diciannovenne, ancora studente, aderì alle idee del risorgimento italiano e preferì una vita di sacrifici ad una agiata carriera diplomatica, dato che proveniva da una antica e benestante famiglia nobile. Nel 1846, compose la poesia “Fratelli d’Italia” che iniziò a circolare tra gli studenti e i circoli risorgimentali genovesi, ma non era ancora un canto. Nel 1847, Mameli contattò il musicista Navaro per dare una musica compiuta alla sua poesia. Il canto che venne fuori, che venne anche indicato come il “Canto degli Italiani” fu cantato per la prima volta durante i moti di Genova di cui Mameli fu uno degli organizzatori. Il 10 dicembre 1847, in occasione della commemorazione della rivolta del 1746 dei genovesi contro gli austriaci, nelle piazze di Genova, all’insaputa delle autorità, i patrioti iniziarono a sventolava il tricolore e a distribuire dei volantini con il canto di Mameli-Navaro e fu subito un successo mediatico.

Per le sue gesta piene di entusiasmo e le sue capacità intellettuali e organizzative il giovane studente e patriota Mameli fu arruolato nelle fila rivoluzionarie e fu portato al cospetto di Mazzini. Nella primavera seguente, a soli 21 anni era già un personaggio di spicco del movimento, e con Bixio si fece promotore, durante i moti del 1848, della spedizione dei trecento volontari per la liberazione di Milano che diedero vita alle 5 giornate e, in virtù dello straordinario successo dell’episodio, che vide il passaggio di mano del potere milanese dagli austriaci a patrioti, venne arruolato come ufficiale nell'esercito di Giuseppe Garibaldi.

L’eco delle 5 giornate di Milano infiammò la penisola, i patrioti si convinsero che era possibile l’liberare l’Italia dello straniero. A Roma, Papa Pio IX, che in un primo tempo sembrava volesse sostenere la causa italiana, cominciò a temere per il potere temporale della chiesa. La posizione ambigua del Papa portò la popolazione di Roma alla rivolta e Pio IX fu costretto alla fuga a Gaeta. I risorgimentali riuscirono a indire una costituente e a proclamare la Repubblica a Roma. Il Papa in esilio chiamò in soccorso i francesi per restaurare il papato. Dal canto loro i patrioti chiamarono le truppe volontarie di Garibaldi, il quale aderì immediatamente e con lui Mameli e il Canto degli Italiani venne adottato fin da subito come Inno della Repubblica Romana.

Non ci fu molta partita, i francesi di Napoleone III meglio organizzati e maggiori in numero ebbero la meglio e l’esperienza della Repubblica Romana finì presto (9 febbraio - 4 luglio 1849). Negli scontri, il 3 giugno, Mameli si ferì ad una gamba e morì il 6 luglio 1849 di cancrena, poco dopo essere stato nominato capitano, con nel cuore la disfatta della Repubblica e il sogno di una Italia unita che svaniva.

Mameli morì come cittadino romano, in quanto perì per la difesa della Repubblica Romana e quindi venne seppellito al Verano, il cimitero monumentale di Roma, con una tomba che riporta le insigne della città di Roma. Dopo di che, di Mameli non si parla più, una volta raggiunta l’Unità d’Italia nel 1861, i Savoia scelsero come inno del nuovo Regno la “Marcia Reale” e del Canto degli Italiani non si ebbe più traccia.

Nel 1941 la prima svolta. Mussolini era in forte crisi di consensi, il fascismo da tempo aveva esaurito la sua spinta propulsiva, e allora ebbe un’idea, egli volle riscoprire le radici repubblicane del risorgimento italiano per dare una immagine giacobina e patriottica ad un regime ormai logorato da anni di dittatura e di guerra. Organizzò in pompa magna la traslazione della salma di Mameli dal Verano al Gianicolo, luogo della battaglia a difesa della Repubblica Romana e dove Mameli venne ferito.

Una cerimonia laica che interessò tutta la città di Roma, un lungo corteo dal Verano fino al Gianicolo passando per le maggiori piazze della città. Fiori, lacrime, scene di regime certo, ma anche di un sincero affetto per un episodio, quello della Repubblica Romana, che era ancora vivissimo nell’immaginario collettivo. Il corteo non salvò il fascismo, e Mussolini si avviò alla inesorabile disfatta, e con lui quella di tutto il paese. Il 2 giugno del 1946, dopo la liberazione, gli Italiani scelsero la Repubblica, e la Marcia Reale fu chiusa in un cassetto e allora si pose il problema di trovare un inno che riunisse le varie anime di un paese nelle macerie oltre che fisiche, anche morali.

Avvenne la seconda svolta. Nel consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946, il Ministro della Guerra propose l’Inno di Mameli come canto per le Forze Armate, e da li si estese a Inno provvisorio per l’Italia repubblicana.

Ma ancora non ci fu pace ne per Mameli ne per l’Inno. Molti esponenti delle Forze Armate avrebbero preferito la canzone del Piave, e non la canzone legata ad un oscuro episodio del passato, peraltro finito male. La sinistra Italiana avrebbe preferito l’Inno di Garibaldi, la sinistra radicale lo giudicava troppo militaresco, la borghesia colta invece avrebbe preferito il “va pensiero” di Verdi. La destra monarchica non digeriva la Repubblica, figuriamoci l’Inno, e comunque la destra vedeva scomparire tutti i simboli del precedente regime e per i cattolici era troppo legato ad episodi anti papalini. Insomma non piaceva proprio a nessuno, per questo, come da buona tradizione italiana, era quello giusto.

Le polemiche non si sono mai sopite del tutto, la ricostruzione, il boom economico, il periodo del terrorismo e delle lotte studentesche, tangentopoli, durante qualsiasi fase della storia della nostra recente Repubblica c’è sempre stato un motivo per attaccare Mameli.

A partire dagli anni 2000, la terza svolta. Ciampi prima e Napolitano dopo, imposero l’inno in tutte le manifestazioni ufficiali a partire da quelle dove era presente il Capo dello Stato. Disse Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente della Repubblica: È un inno che, quando lo ascolti sull'attenti, ti fa vibrare dentro; è un canto di libertà di un popolo che, unito, risorge dopo secoli di divisioni e di umiliazioni.


Alessandro Ghinassi