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sabato 28 febbraio 2015

I custodi della Storia (Capitolo I) - Addio Sardegna

Il nuraghe vicino a casa mia era un ottimo nascondiglio.

L'aria al suo interno era sempre fresca, il buio profondo accoglieva gli ospiti non appena si varcava la soglia, proiettandoli in un mondo antico e ancora sconosciuto.

Ogni volta che vi entravo mi sembrava che il tempo si fermasse. Respiravo lentamente addossato alle rocce fredde, ascoltando il battito del cuore, osservando protetto dal buio, che nessuno venisse a cercarmi.

Ero sempre stato ossessionato dal mistero rappresentato da quegli enormi torrioni di roccia costruiti con blocchi appena sbozzati. 
Non ne avevo paura, anzi, tra le rocce mi sentivo a mio agio, mi trasmettevano una sensazione di sicurezza e forza che aveva del soprannaturale.

I miei compagni di gioco correvano per i campi, frugavano tra i cespugli, giravano attorno al nuraghe ma raramente vi si addentravano, forse spaventati dal buio, forse dall'odore penetrante del muschio che indipendentemente dalla stagione era sempre presente al suo interno.

Il nuraghe era un nascondiglio perfetto e al suo interno, appiattito contro le spesse pareti, mi sentivo perfettamente a mio agio, come se vi fossi nato.

Uno dei miei preferiti era il nuraghe “Is paras”, così chiamato perché nell'ottocento era appartenuto ai padri scolopi. Si trovava a poche centinai di metri dalla scuola media e io vi andavo spesso a giocare con i miei fratelli o con gli amici.

Vi giravo attorno come per controllare che niente fosse cambiato dall'ultima visita e poi mi arrampicavo lungo le mura per raggiungere la sommità. Non era difficile salire anche perché qualcuno aveva inserito dei ferri tra le rocce che permettevano di salire agevolmente, anche se occorreva fare attenzione perché se si cadeva si rischiava un volo di diversi metri con atterraggio sulle rocce. Arrivato in cima mi sedevo su uno dei grossi massi e restavo a pensare, cingendo le ginocchia con le braccia, insensibile al vento freddo che non più ostacolato dalla vegetazione mi colpiva la faccia. Immaginavo guerrieri antichi dalle forme più strane che protetti dalle mura lanciavano frecce dalla punta di pietra verso aggressori stranieri che avanzavano veloci. I guerrieri nuragici indossavano corte tuniche e elmi cornuti. Braccia e gambe erano protette da placche di cuoio, come nelle riproduzioni dei bronzetti ritrovati nei nuraghi e spesso raffigurati nei libri di storia presi in prestito dalla biblioteca. Altre volte raggiungevo la mia postazione di osservazione portando con me un vecchio album da disegno e disegnavo il paesaggio circostante. 
Nel mio disegno solitamente le colline, ciuffi d'erba e vecchie querce da sughero circondavano l'elemento principale, il nuraghe alto e maestoso, che si stagliava contro il cielo al tramonto. Oppure salivo e scendevo per la stretta scala in pietra, ricavata all'interno delle mura facendo attenzione a non mettere un piede in fallo per evitare brutte cadute. Quelle pietre enormi utilizzate per costruire mura spesse anche cinque metri mi proteggevano da tutto e da tutti e sicuramente avevano svolto lo stesso compito nei confronti delle antiche popolazioni.

-Alessandro, noi rientriamo a casa! Mi urlavano gli amici stanchi di aspettare, allontanandosi di corsa verso il paese. Solo allora mi destavo dai miei pensieri e li raggiungevo per continuare a giocare con loro a pallone lungo la strada.

Quello era il mio mondo o forse lo è ancora, ed io lo vivevo intensamente e senza preoccupazioni. Come era bello essere ragazzo!

Col tempo lasciai perdere il gioco ma continuai a visitare i nuraghi, alla ricerca di ricordi dell'antichità. Chissà quanti avevano abitato quelle torri, vi avevano vissuto e vi erano morti.

Ne visitai tantissimi, più e più volte, girando la Sardegna in lungo e in largo sempre alla ricerca di un punto di vista nuovo che mi permettesse di avvicinarmi maggiormente ai segreti che ai miei occhi, da chissà quanti millenni, essi custodivano.

Poi un giorno mi risvegliai cresciuto e a malincuore lasciai la mia terra per andare a studiare in Continente.

Era una cosa ancora molto frequente per noi sardi.

Arrivati ad una certa età l'isola sembra farsi stretta, troppo piccola per la voglia di scoprire il mondo, troppo povera per chi vuole costruirsi un futuro e una famiglia.

Così un giorno si acquista un biglietto di sola andata e ci si lascia dietro i parenti, il paese, gli amici, la ragazzetta e tutte le fantasie accumulate negli anni su quelle fantastiche costruzioni tronco coniche per partire alla ricerca di qualcosa che nella maggior parte dei casi non arriverà mai: un pizzico di fortuna!

Molti di questi giovani un giorno faranno ritorno nella loro terra, acquisteranno una casa in un paese di mille abitanti e vi passeranno gli ultimi anni della loro vita, spesso soli e dimenticati.

Ma non io, questa cosa non l'avevo mai messa tra le opzioni possibili. Io avrei fatto una vita diversa, mi sarei realizzato, sarei diventato un archeologo o giornalista (o forse scrittore) e sarei tornato in Sardegna di tanto in tanto per vedere i miei parenti nel piccolo paese di Gesico, nella Trexenta del Campidano, in provincia di Cagliari o a Isili per trovare gli amici e magari entrare ancora una volta nel nuraghe della mia gioventù.

Solo buoni propositi, forse sogni di un ragazzo la cui vita era ancora tutta da scrivere!

Partii per Milano dove avrei frequentato l'Università degli Studi, avrei seguito un percorso che mi consentisse di approfondire la storia, la mia materia preferita e le lingue antiche.

Avevo vinto una borsa di studio, l'impegno alle scuole superiori mi consentì di iscrivermi gratuitamente al primo anno di corso. Avevo diritto all'alloggio e alla mensa e con i risparmi che avevo messo da parte lavorando durante l'estate la vita non sarebbe stata male almeno per i primi tempi.

Comunque, arrivato a Milano mi resi conto che la vita era più cara di quanto potesse apparirmi da ragazzo, quando le spese sono sostenute dai genitori. Così, per cercare di vivere un po' meglio senza gravare sulle loro spalle mi trovai un lavoretto che mi portava via poco tempo e mi consentiva di studiare. Solo alcune ore al giorno ma andava bene così.

Appena arrivato all'università avevo notato un cartello appeso al cancello di un ricco condominio, “cercasi portiere”, diceva. Sembrava proprio il lavoro adatto a me. Mi presentai all'amministratore, un vecchio avvocato piegato in due dagli anni e con indosso un impeccabile completo nero d'altri tempi che mi interrogò come fossi stato un ragazzino delle elementari. Le domande vertevano sulle mie origini, la famiglia, la mia presenza a Milano e sul perché volevo lavorare. Risposi a tutto senza esitazione e così superai il colloquio. Cominciai a lavorare prima ancora di iniziare a frequentare i corsi all'università. Un vero colpo di fortuna!

Milano era una città caotica.

Passare da un paese di poco più di mille abitanti dove tutti si conoscono ad una metropoli di quelle dimensioni era stato scioccante ma mi abituai velocemente. Imparai subito a muovermi con la metropolitana e cominciai a girare a piedi per visitare i luoghi più suggestivi. La mia prima volta in centro fu indimenticabile.

Sbucai fuori dalla metroproprio ai piedi della Galleria Vittorio Emanuele II, che con il suo imponente Arco Trionfale ti fa sentire una formica! Che mente doveva essere il suo architetto, Giuseppe Mengoni; che abilità gli artisti che vi lasciarono la loro impronta a metà Ottocento. Impiegarono due anniper congiungere Piazza del Duomo e Piazza della Scala. Epoi finalmentel'inaugurazione alla presenza del Re! Il loro lavoro era tutt'ora ammirabile. Mi chiedo se oggi esistano ancora simili ingegni.

Ricordo che mi voltai d'istinto e sulla mia sinistra comparve il Duomo. Come descriverlo? Era una costruzione maestosa per le dimensioni e la ricchezza delle decorazioni. Restai senza parole e vi girai intorno con il naso all'insù rischiando in diverse occasioni di andare a sbattere contro alcuni turisti che come me ammiravano il duomo.

Appresi poi che la costruzione ebbe inizio nel 1386, come ricordava la targa della posa della prima pietra, su impulso dell'Arcivescovo Antonio de Saluzzi e del Duca della Città, Gian Galeazzo Visconti e terminò cinque secoli più tardi per volere di Napoleone. Più grande del Duomo di Milano c'era solo San Pietro, la Cattedrale di Siviglia eSaintPaul a Londra.

All'interno mi persi. L'oscurità del luogo mi intimoriva! O forse era lo spazio immenso che mi sovrastava a darmi le vertigini.

Le vetrate, enormi, stupende, lasciavano filtrare pochissima luce che rendeva appena apprezzabile la maestosità della costruzione e le opere che conteneva. Sopra il Duomo, protetta dalle guglie della Cattedrale, la Madonnina realizzata da Giuseppe Perego e messa in opera nel 1774, diventata simbolo di Milano.

Uscii dal Duomo impressionato dalle dimensioni e passeggiai a lungo per le vie attorno.

Una delle cose che notai subito fu l'immagine di un serpente che ingoia un bambino. La si trovava ovunque, dipinta o scolpita su stemmi in pietra nei grandi palazzi lungo le vie di Milano.

Cosa poteva significare, mi chiedevo? Era il simbolo del casato dei Visconti – scoprii poi – e simboleggiava potenza ed eternità della stirpe. Eraun simbolo particolare e inquietante che mi metteva a disagio.

Apoche centinaia di metri dall'uscita della galleria Vittorio Emanuele II si apriva piazza della Scala conal centro la statua dedicata a Leonardo da Vinci. Avevo sempre provato una grande ammirazione per il grande scienziato toscano e mi fermai qualche istante a riposare nella panchina ai suoi piedi.

Mi guardai attorno e cominciai a percorrere la strada che portava in direzione del Castello che si intravvede in lontananza, appartenuto prima ai Visconti e poi agli Sforza. Visitai il castello impressionato dalle dimensioni. Conoscevo bene l'immagine per averla vista tante volte impresso sul francobollo marroncino da dieci lire ma dal vivo era tutta un'altra cosa. Il castello più grande che avevo visitato in precedenza era quello di Sanluri ma non si poteva fare nessun paragone. Quella sera, al mio rientro in stanza, passai delle ore a studiare la guida di Milano che avevo acquistato la mattina per cercare di capire ciò che avevo visto e di conoscere la storia della città che mi avrebbe ospitato per i prossimi anni. Era tutto così grande intorno a me che i nuraghi in un attimo erano diventati minuscoli.

L'idea che tra loro e la Milano che mi circondava erano passati almeno tremila anni non mi passava minimamente per la mente.

Vai al capitolo II: Il viaggio

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


mercoledì 25 febbraio 2015

Siamo fatti di stelle, di Margherita Hack e Marco Morelli


Margherita Hack... un nome che mi porta indietro a quando, ancora ragazzino, guardavo i documentari di Piero Angela in TV. Non ricordo di preciso ma sono sicuro che fu in quegli anni, fine anni settanta o inizi anni ottanta che vidi per la prima volta quella donna con forte accento toscano e subito rimasi affascinato dal modo in cui raccontava l'Universo che ci circondava. 

E' da quegli anni che mi è rimasta la passione per l'Astronomia. 
Qualche tempo fa appresi della sua morte e mi resi conto che il tempo passa per tutti e anche quelli che uno considera punti fermi nella propria vita, prima o poi scompaiono.
Così quando alcuni mesi fa nel corso di una delle solite ma sempre piacevoli visite in libreria mi imbattei nel libro di Margherita senza pensarci su troppo lo acquistai. Margherita avrebbe continuato ad accompagnarmi, come fanno le stelle fisse nel cielo, dalla libreria di casa.
Il libro è scritto a quattro mani, con Marco Morelli, direttore del Museo di scienze planetarie di Prato.
I due autori sono a Trieste e seduti su una panchina di fronte al mare, in attesa di un ospite che non arriverà mai, si tuffano nei ricordi della vita di Margherita.
E' la storia di una vita fatta di successi e delusioni, di amore per la scienza e dispiacere per la situazione dell'Italia.
Margherita e Marco, con l'aiuto di Aldo, marito di Margherita, ripercorrono la vita fatta di tanti piccoli episodi con leggerezza, mettendo in evidenza le cose in cui margherita ha sempre creduto. Il libro non è una vera biografia, semmai è un libro di ricordi, condito dalle battute piccanti di una donna che oltre ad essere la più grande astrofisica italiana era anche una donna senza peli sulla lingua.
Mi piace ricordare solo un episodio del libro, quando Morelli parla delle tipologie di studenti universitari, "sono cinque gli studenti con la S maiuscola, i mezzi studenti, gli studenticchi, i paraculo e i quaquaraqua..."
Al termine della disamina Margherita chiede infine cosa si intenda per quaquaraqua, "I quaquaraqua sono quelli che parlano, parlano, parlano e non fanno nulla! [..] Si arrabattano tra la loro meschinità, l'ambizione di voler essere qualcuno e l'intima consapevolezza di non essere nessuno..."
E margherita sbottò: "Ma questi sono i nostri politici! Altro che gli studenti...

Libro veramente bello, pungente, toccante, da leggere tutto d'un fiato e conservare per sempre nella propria biblioteca...

Grande Margherita Hack e un grazie anche a Marco Morelli!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 25 gennaio 2015

Anteprima: La Sardegna antica secondo Francisco de Vico

Cari amici e lettori, ecco un'altra piccola anteprima del mio prossimo libro sulla Sardegna, buona lettura...

"Leggendo tra testi antichi e saggi dei nostri tempi mi sono imbattuto nel testo del 1639 di Francisco de Vico, Historia general de la Isla y reino de Sardena, fonte inesauribile di informazioni non solo sulla Sardegna ma più in generale di tutto il mondo antico.
Quanto detto fino ad ora è stato spesso ignorato o non considerato degno di entrare a far parte della Storia della Sardegna, con il risultato di cancellare la memoria di un popolo.
Il fatto che quanto raccontato sia poco più che leggenda non significa che vada dimenticato. Pensate alla Grecia antica, conosciuta al mondo proprio per i suoi miti e le sue leggende!
Cosa sarebbe oggi la Grecia se i suoi storici avessero deciso che le leggende andavano dimenticate o cancellate?
Mi chiedo ancora oggi perché non sia possibile recuperare queste "leggende" e restituire così alla nostra Sardegna (e ai Sardi), almeno in parte, le proprie origini!
Avremo forse modo di approfondire la questione, per ora dobbiamo abbandonare la preistoria e i miti per arrivare infine alla Storia.
Sono in tanti a criticare la visione di una Sardegna occupata nel tempo da popolazioni straniere, ma a me non interessa, punti di vista. In ogni caso la Sardegna è stata per secoli sotto la Spagna.
Francisco de Vico nella sua opera ha raccolto tutte le testimonianze a sua disposizione sulla Sardegna e ci ha raccontato una storia ricca di avvenimenti e personaggi importanti, re e regine mitiche, guerre e conquiste.
Per cui prima di passare alla storia, che occuperà il prossimo capitolo, vorrei aprire qualche piccola finestra sul testo di Francisco de Vico (migliaia di pagine che vi invito a leggere!). L'autore, oltre ai testi antichi, basò il suo lavoro su quello del vescovo Giovanni Francesco Fara, autore anch'egli di una storia di Sardegna.
Vi chiedo scusa in anticipo se di tanto in tanto dovessi riportare qualche osservazione che con la Sardegna ha poco a che fare, ma è molto difficile separare rigidamente quelli che sono i propri interessi di studio per cui dovrete sopportare le mie digressioni. Inoltre, prima di cominciare vi devo avvisare che quando possibile userò i nomi in italiano ma in alcuni casi userò dei nomi in spagnolo o in altre lingue, ma solo quando non sono sicuro della corrispondenza in italiano.
E allora cominciamo subito dicendo che secondo la ricostruzione storica di Francesco il mondo ebbe inizio 4004 anni prima della nascita di Cristo. Secondo questa cronologia nel 2348 a.C. avvenne il Diluvio Universale, quello raccontato nella Bibbia, quello di Noè per essere chiari.
Dopo il Diluvio la vita umana comincia ad accorciarsi; che ciò dipenda dal fatto di usare un anno di lunghezza differente, che prima del Diluvio si chiamasse anno quello che era invece un mese lunare o una stagione o che la durata della vita umana si sia realmente accorciata a causa di fenomeni che non conosciamo e che oggi non possiamo ricostruire né immaginare, poco importa. Ciò che importa è che qualche secolo dopo (nel 2004 a.C.) nasce il patriarca Abramo che tanta importanza avrà per la religione del popolo ebraico.
Nel 1788 a.C. Mesraim, chiamato anche Osiris, conquista l'Italia. Uno dei suoi generali, o suo figlio a detta di alcuni autori antichi, Ercole Libico, fonda la città di Torres e la chiama Turris Lybisonis che significa "Città Augusta di Ercole Libico". Siamo nel 1788 a.C. e così nasce la prima e più antica città della Sardegna di cui si abbia memoria. Pochi anni dopo, nel 1779 a.C., Osiris invia in Sardegna una spedizione di Vituloni, o Turreni, per colonizzarla. Il loro nome derivava dal fatto che costruivano torri. Il mediterraneo non doveva essere poi così pericoloso visto che era teatro di scorrerie e conquiste già in quei tempi antichi. Nel 1754 a.C. Ercole Libico si impadronì di Spagna e Italia dopo aver sconfitto i Gerioni, la vecchia casa regnante.
Circa due secoli dopo è la volta di un altro conquistatore straniero, siamo circa nel 1544 a.C. e il conquistatore o colonizzatore che dir si voglia si chiama Norax. Si dice Norax (o Noraco per alcuni) arrivò in Sardegna dalla Spagna. Pare fosse originario della mitica Tartesso, città che forse prese il nome da Tartesio Campo, nipote di Gerione, re di Spagna. Prima di morire, nel 1484 a.C., Norax fondò la città di Nora. Gli succedette il re Porco che morì nel 1451 a.C., nel corso della guerra contro Atlante. Porco aveva tre figlie che gli succedettero nel governo dell'isola. Si chiamavano Euriola, Estenio e Medusa, meglio note come Gorgoni.
Stupiti?
Lo sono stato anche io leggendo le pagine di Francisco de Vico. Francisco spiega che il termine Gorgonia o Georgonia significa in greco "agricoltura" e le tre sorelle si dice fossero esperte nell'agricoltura. Medusa venne poi rappresentata con la tasta piena di serpenti in quanto i serpenti erano già anticamente simbolo di sapienza e lei era tra le tre la più saggia. Pochi anni dopo Perseo uccide Medusa (siamo nel 1418 a.C.) e la Sardegna resta senza guida perché Medusa non ha lasciato eredi.
Sono sicuro che saranno in tanti a non credere a queste storie! La prima obiezione che si può sollevare riguarda la figura di Medusa, appartenente alla mitologia greca. Ma proviamo per un attimo ad interrogare Diodoro Siculo, che già conosciamo. La domanda potrebbe essere: "Diodoro, puoi aiutarci a capire di quale popolo Medusa fu regina?".
"Certo che posso Alessandro, tu peraltro già sai la risposta, te lo leggo nella mente. Ma ugualmente ancora una volta ricorderò il mito di Perseo e della sua spedizione contro le bellicose Amazzoni, da me esposto nella Biblioteca Storica, libro III, paragrafo 54. Parlo delle Amazzoni Libiche, non di quelle più recenti del Ponto. La stirpe di queste donne era completamente scomparsa già molti anni prima della guerra di Troia. Una stirpe di Amazzoni libiche era quella delle Gorgoni, contro cui Perseo si spinse in guerra. I miti raccontano che la stirpe delle Gorgoni abitasse in occidente, in Libia ai confini del mondo. Abitavano esse un'isola situata all'interno della palude Tritonide. La palude si trovava vicino all'Etiopia e al monte Atlante, nei pressi dell'Oceano. L'isola era ben grande e piena di alberi da frutto di vario genere. Vi si potevano trovare un gran numero di capre e di pecore da cui si ricavava latte e carne. Il grano ancora non era stato introdotto. In quei tempi le Amazzoni cominciarono la conquista dalle città dell'Isola, ad eccezione di Mene, considerata sacra. Fondarono una città di nome Cherroneso (ovvero "penisola") all'interno della palude Tritonide. Queste Amazzoni mossero contro gli Atlanti, gli uomini più civilizzati di quelle contrade, Mirina era la loro regina. La prima città a cadere fu Cerne, i suoi abitanti maschi furono sgozzati, donne e bambini furono asserviti e la città distrutta. Gli Atlanti, vista la sorte toccata alla città stabilirono dei patti con Mirina che, soddisfatta, fece costruire una nuova città che chiamò Mirina dal suo nome. Nei pressi degli Atlanti si trovava un'altra popolazione di Amazzoni, chiamate Gorgoni. Mirina decise di attaccare le Gorgoni e vi fu una grande battaglia. Mirina ebbe la meglio ma le prigioniere si liberarono durante la notte e fecero strage tra l'esercito di Mirina. Mirina dopo breve tempo e altre battaglie ritornò nel suo regno. Le Gorgoni ebbero tutto il tempo di riprendersi e più tardi furono sconfitte da Perseo, regnava su di loro Medusa. Il popolo delle Gorgoni e delle Amazzoni fu sterminato più tardi da Eracle quando durante la visita delle contrade d'occidente pose le sue Colonne in Libia. Si dice che in quel periodo scomparve anche la palude Tritonide. A causa di terremoti si ruppero le sponde dell'Oceano."
Ti ringrazio Diodoro, sei stato gentilissimo e ricco di particolari, come al solito. Chissà se l'Isola di cui ci ha parlato era la Sardegna! Non potremo mai saperlo. Ciò che possiamo affermare con ragionevole certezza è che la geografia del Mediterraneo di allora doveva essere molto diversa da quella odierna. Anche Lucio Anneo Seneca ci parla di una catastrofe immensa che avrebbe causato la rottura delle sponde dell'Oceano e la separazione della Sicilia dalla Calabria. Quali danni avrebbe causato una catastrofe di simili dimensioni sull'isola di Sardegna? Sarebbe potuta essere la causa della scomparsa della civiltà nuragica? Ma lasciamo questo argomento per tornare al racconto di Francisco de Vico.
In questo periodo in Tessaglia si verifica un nuovo Diluvio conosciuto come il diluvio di Deucalione. Invece nel nord Italia, lungo la pianura dell'Eridano (ovvero nella pianura Padana!) si verificò un incendio immane, regnava allora in Italia Fetonte.
Nel 1400 a.C. circa Aristeo arriva in Sardegna e conquista il regno dopo la morte di Medusa. Nello stesso periodo si trovava in Sardegna Cadmo, il Fenicio. Secondo alcuni antichi autori fu questo Aristeo a fondare la città di Cagliari. Nello stesso periodo Galatas fonda la città di Olbia, la prima in Sardegna con questo nome. Galatas era figlio di Olbio e veniva dalla Francia, ovvero dalla Gallia. La Gallura, regione della Sardegna che si trova intorno ad Olbia, deriverebbe il suo nome proprio dall'antico dominio dei Galli.
In Italia contemporaneamente regnano Giano, Saturno, Pico e Fauno. La moglie di quest'ultimo re si dice abbia inventato le lettere Latine.
Arriviamo all'anno 1254 a.C.. Iolao, nipote di Ercole (un altro Ercole, detto il Tebano dalla città di Tebe greca) arriva in Sardegna a capo di un grande esercito. Iolao fonda varie città tra le quali una chiamata Iolea (o Olbia per alcuni) nel sud dell'isola, nei pressi di Sulcis. Iolao invitò dalla Sicilia Dedalo, il famoso inventore e architetto, per abbellire la Sardegna con le sue opere. Alla sua morte i Sardi chiamarono Iolao "padre" e per ringraziarlo delle grandi e splendide opere realizzate durante il suo regno fondarono un tempio chiamato "Sardo Patoris Fanum" cioé "tempio del padre dei Sardi".
Sardo, figlio di Ercole, alla morte di Iolao prese il comando del regno e le diede il suo nome attuale: Sardegna.
Pochi anni dopo, nel 1214 a.C. circa, una nuova spedizione arriva sulle coste del nord dell'isola: si tratta dei popoli chiamati "taratos" e "sosinates". I primi fondano due città: la prima chiamata Olbia, dal nome della città di provenienza, Olbia di Tartaria; la seconda chiamata Tatari, che poi sarebbe la Sassari odierna. I sosinates fondarono invece la città di Sorso.
Pochi anni dopo, forse nel 1204 a.C., gli ateniesi fondano Ogrillen, dove oggi si trova Orgosolo.
In questo periodo diversi popoli arrivarono dalla Meonia. Sembra che questi si stanziarono nella zona chiamata Meilogu ovvero "Meonum Locus". Altri arrivarono dalla Lidia e dalla Locride. Altri ancora da Rodi, da cui "Locus Rodies" ovvero Logudoro.
Si racconta che anche Enea, con un esercito di Troiani fuggitivi dopo la distruzione di Troia, giunse in Sardegna. Vi restò poco in quanto gli abitanti dell'isola gli si posero immediatamente contro, ma ebbe comunque il tempo di distaccare una colonia, "Foro Troyano", oggi Fordongianos.
Intorno all'anno mille a.C. i ciprioti si impadronirono del mar di Sardegna. Secondo lo storico Eusebio vi si stabilirono per qualche tempo fondando anche alcuni paesi, chiamati "Corpasesios". E' sempre secondo Eusebio nell'anno 866 a.C. arrivarono in Sardegna anche i Fenici anche conosciuti come Puni. Secondo gli autori antichi in questo secolo sarebbe stata fondata Cartagine che sarebbe dunque più antica di Roma di circa un secolo.
Secondo la leggenda la fondazione di Cartagine fu merito di Didone, o Elisa, la stessa donna di cui si dice si sia innamorato l'Enea fondatore della stirpe Romana... ma anche questa è un'altra storia! Secondo molti storici dei giorni nostri i Fenici si impossessarono di buona parte delle coste e vi fondarono città, tra queste Cagliari (alcuni autori attribuiscono ad Aristeo la fondazione della città di Cagliari nel 554 a.C., per altri invece Cagliari è stata fondata dai Cartaginesi nel 228 a.C.).
C'è chi afferma che i Fenici non si siano mai impossessati della Sardegna e forse non ci sono mai stati se non per commercio. A mio parere la verità sta nel mezzo. Forse vi approdarono, vi costruirono delle città e si impossessarono di alcune di esse, ma non credo abbiano mai avuto la forza di controllare tutta l'Isola.
Il tempo passa e di questi secoli bui non restano tanti ricordi, arriviamo così all'anno 588 a.C. quando, spinti dalle guerre che imperversavano nella loro terra arrivano in Sardegna i Focesi, anch'essi originari della Grecia, dietro consiglio di Biante di Priene (uno dei sette saggi!).
Pare che i cartaginesi fossero allora già abbastanza potenti. Avevano conquistato buona parte della Sicilia e decisero di impossessarsi anche della Sardegna. Un grosso esercito partì così per la conquista, sotto la guida del Generale Malio.
Malio venne però sconfitto dagli abitanti della Sardegna e la maggior parte dei suoi uomini perirono nell'impresa. La sconfitta costrinse i cartaginesi a rimandare l'impresa a tempi migliori. Questo tempo arrivò intorno all'anno 478 a.C. con la nomina a Generale di Asdrubale figlio di Magone. Cartagine intendeva conquistare la Spagna e la Sardegna doveva essere solo una tappa per raggiungere la sua meta. Le cose andarono diversamente e i cartaginesi vennero nuovamente sconfitti e il condottiero Asdrubale ucciso. Dovette passare ancora molto tempo prima che i cartaginesi riuscissero a conquistare il mediterraneo. La Sicilia, la Spagna e infine anche la Sardegna, seppure solo lungo le coste, intorno al 400 a.C. erano tiranneggiate da Cartagine.
Erano tempi duri quelli e le guerre erano la norma.
Posso darvi un consiglio? Se avete un pizzico di curiosità storica leggete "Storie" di Erodoto, oppure "la guerra del Peloponneso" di Tucidide o ancora "l'Anabasi" di Senofonte. Avrete una idea più chiara di cosa significasse la guerra per gli antichi.
Ma torniamo alla Sardegna.
Di quei secoli lo storico Francisco de Vico ci dice che non sono stati conservati i nomi dei Re di Sardegna, forse a causa delle lotte continue per la sua colonizzazione o forse perché la storia dell'isola poteva essere trovata in testi andati distrutti con la caduta della civiltà punica e la distruzione di Cartagine. Per trovare informazioni sulla Sardegna e su chi la governava occorre fare un salto fino alle guerre puniche e giungere così al governo Romano, ma di ciò parleremo tra poco.
Francisco de Vico affronta anche il problema dell'origine del termine nuraghe per indicare le costruzioni antiche che ricoprono la nostra isola. Dopo aver accennato agli Etruschi o Turreni o anche Tirreni, considerati i più antichi costruttori di torri, ci dice anche che il termine nuraghe sembra si possa far risalire a coloro che fondarono la città di Nora. Altri ancora fanno risalire il termine dalla parola greca "ηokρός", nocros, che significa sepoltura. I nuraghe sarebbero infatti le sepolture di personaggi importanti."

                                 Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 8 dicembre 2014

Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero.

Napoli, con la sua vitalità, con la sua musica da strada, con le sue bancarelle piene di fantasiose cianfrusaglie o di splendidi presepi, con i suoi venditori di fortuna, mostra a chi è capace di vedere "oltre", il suo splendido passato.

Una gita a Spaccanapoli mi ha permesso di conoscere qualcosa di stupefacente: la Cappella del Principe Raimondo di Sangro con le sue incredibili opere d'arte. Da lì all'acquisto del libro di Antonio Emanuele Piedimonte il passo è stato breve.

La famiglia Sansevero, e in particolare il Principe Raimondo di Sangro, è ben nota ai napoletani per le opere custodite nella cappella di famiglia e per le storie ad esso legate.

Raimondo di Sangro nacque a Torremaggiore, in Puglia, il 30 gennaio 1710. La madre muore quando è ancora piccolissimo, il padre sarà sempre lontano, il piccolo Raimondo viene cresciuto dai nonni paterni. Riconosciuta in lui una certa vivace intelligenza viene iscritto al Collegio dei Gesuiti di Roma dove dimostrò ben presto le sue capacità. Imparò otto lingue e studio soprattutto materie fisiche diventando assiduo frequentatore della biblioteca e del museo di scienze creato il secolo prima dallo storico e filosofo tedesco Athanasius Kircher (1602-1680),

La vita del Principe sarà una continua esplorazione dei segreti della natura e le sue invenzioni lo dimostrano. Si occupò di studiare la materia e inventò e regalò al re di Napoli un "archibuso" capace di funzionare con la polvere da sparo e con aria compressa. Qualche anno dopo regalò al re un cannone realizzato con una  lega leggera di sua invenzione e un mantello di un tessuto impermeabile da lui inventato.

I suoi studi ed esperimenti lo portarono ad occuparsi del corpo umano, di tessuti, colori, stampa, gemme preziose, colorazione delle pietre, macchine, orologi, medicinali... lasciando ogni volta a bocca aperta le persone che lo avvicinavano.

La sua opera più importante è sicuramente la Cappella di famiglia, che lui fece restaurare da alcuni artisti chiamati a lavorarvi.

Al centro della Cappella il Cristo Velato di un giovane scultore napoletano, Giuseppe Sanmartino.

Alla sinistra dell'altare la statua dedicata alla madre, la "Pudicizia Velata", realizzata da Antonio Corradini.

Alla destra dell'altare l'opera che mi è piaciuta di più, "il Disinganno", statua che rappresenta il padre del Principe, opera di Francesco Queriolo. 
Credo di non aver mai visto niente di simile, non capisco proprio come si possa realizzare un'opera in marmo di questo genere. La rete da pesca che riveste il corpo principale sembra vera!

La volta della Cappella è affrescata dal pittore Francesco Maria Russo che realizzò la "gloria del Paradiso" utilizzando colori di invenzione del Principe e che stupiscono ancora oggi per la vividezza.

Infine, in una saletta sotto la Cappella sono esposte due cosiddette "macchine anatomiche", opera del medico Giuseppe Salerno, che rappresentano i corpi di un uomo e una donna e mettono in evidenza apparato circolatorio, scheletro e organi interni.

Il Principe era studioso appassionato di alchimia e si occupò di problemi che oggi diremo di fisica e chimica sperimentale.
Nel 1750 divenne affiliato ad una Loggia Massonica e poco dopo fu eletto Gran Maestro della Loggia Nazionale sotto cui vennero raccolte tutte le Logge preesistenti.
Raimondo di Sangro scrisse anche diversi libri su argomenti vari, dall'arte militare ad argomenti relativi ai suoi studi e intrattenne corrispondenza con scienziati e intellettuali di tutta europa.

Il Principe Raimondo si divertiva a stupire amici e conoscenti e difficilmente spiegava come aveva raggiunto i risultati creando così attorno a se un alone di mistero e attirando purtroppo anche il sospetto di invidiosi del suo successo e della chiesa. Il Papa e il re, per i suoi studi alchemici l'uno, per l'appartenenza alla massoneria l'altro, gli negarono i favori e così Raimondo si trovò nei guai.

Il 22 marzo 1771 il Principe Raimondo di Sangro muore, lasciando dietro di se il ricordo perenne dei suoi studi e misteri che lo accompagnarono per tutta la vita e di cui io vi ho dato solo un piccolo accenno.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO 


sabato 6 dicembre 2014

John Maynard Keynes: come uscire dalla crisi

John Maynard Keynes (1883-1946), forse il più grande economista britannico del XX secolo, illustra il suo punto di vista sulla crisi che mise in ginocchio il mondo ed ebbe il suo culmine nel '29 con il crollo di Wall Street.
Keynes fece diversi viaggi in America ed ebbe l'opportunità di conoscere i presidenti Hoover e Roosevelt con i quali intrattenne una cordiale corrispondenza.

Questo libro è una raccolta di suoi articoli scritti durante il periodo della crisi. Articoli pubblicati su vari giornali diretti quasi sempre ai politici del tempo allo scopo di tentare di aiutare il mondo ad uscire dalla crisi.

Keynes analizzò la situazione nazionale e internazionale alla ricerca delle origini della crisi e provò nel tempo a dare suggerimenti sul come uscirne.
Le relazioni esistenti tra occupazione, investimenti pubblici, piani di assistenza, finanza, tassazione, tassi di interesse, politiche monetarie e altri fattori macroeconomici, sono spiegate con dovizia di particolari ed esempi chiari che in qualche modo potrebbero essere ancora oggi utili all'analisi della crisi attuale.

I problemi legati ai bassi costi di produzione in alcuni paesi esteri e alla facilità con cui era possibile spostare i capitali erano ben chiari a Keynes che invitava il governo britannico a favorire gli investitori che investivano nel proprio paese anche a costo di ridurre le spese assistenziali.

Il circolo vizioso in cui entra una nazione che perde la fiducia nel futuro è ben illustrato e per certi versi pienamente applicabile anche al nostro paese. Chi non ha fiducia nel futuro, anzi chi teme il futuro, mette da parte i soldi che può, facendo più danni che altro. Quando infatti occorre consumare per spingere la produzione e il lavoro, i consumatori diventano invece eccessivamente prudenti causando così ulteriori problemi.
Ma chi poteva convincere l'uomo comune a spendere quando tutto andava a rotoli?

Un libro illuminante, non troppo complesso, che i nostri politici ed economisti dovrebbero riprendere alla mano, anche se con le dovute considerazioni in relazione alle differenti condizioni a contorno.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 16 novembre 2014

Percezioni extra sensoriali

Leggendo il numero di ottobre 2014 di Le Scienze ho trovato interessante, tra gli altri, un articolo dal titolo "Percezioni extra sensoriali" scritto da Gershon Dublon e Joseph A. Paradiso.
L'articolo, anche se dal titolo potrebbe sembrare trattare argomenti di parapsicologia è invece categorizzato "Informatica".

Chi sono gli autori? 
Gershon Dublon è studente di PhD al Media Lab presso il MIT mentre Joseph A. Paradiso è professore associato di arte e scienze dei media presso lo stesso istituto americano.

Su cosa stanno lavorando?
L'articolo riferisce gli sviluppi di un progetto di ricerca sull'impiego massivo di sensori e sulla analisi, interpretazione e rappresentazione spaziale delle informazioni raccolte.
Gli autori hanno sviluppato un programma in grado di gestire, interpretare e rappresentare i differenti segnali raccolti con differenti tipi di sensori, programma che consentirebbe di visualizzare e controllare da differenti punti di vista un determinato ambiente.
Il titolo del riquadro esplicativo è molto chiaro: "Il browser della realtà".  Il programma consente di navigare all'interno del Media Lab del MIT e "vedere" in tempo reale tutto ciò che accade, sentire i suoni degli ambienti, conoscere la temperatura, la luminosità, controllare la presenza di persone e così via...

Gli autori si spingono a indicare possibili utilizzi commerciali sia possibili aree di interesse da sviluppare e possibili riflessi sulla privacy.

Chi è interessato troverà l'articolo nella maggior parte delle biblioteche pubbliche, Le Scienze normalmente è una delle poche riviste che viene acquistata dalle biblioteche.

Io vorrei però dire la mia sull'argomento, soprattutto dal punto di vista della privacy e della sostenibilità di un simile progetto nel tempo.

Io non sarei per niente contento di vivere in un mondo in cui c'è sempre qualcuno che può vedermi o sentirmi mentre mi soffio il naso o canto sotto la doccia, ma questo è un punto di vista personale, vi sono anche vantaggi dal vivere in un mondo simile, soprattutto nel campo della sicurezza.

Quello che però credo sarà il vero problema di un mondo siffatto è legato all'enorme numero di sensori necessario e alla potenza di calcolo e di immagazzinamento delle informazioni con le conseguenti necessità di risorse energetiche impiegate per tutto ciò. Non voglio fare un'analisi quantitativa di un progetto simile anche perché non sono in possesso dei dati di base del progetto ma vorrei porre l'attenzione sul fattore "sostenibilità" attraverso una semplice analisi qualitativa.   
Occorre considerare che la maggior parte dei circuiti utilizzati per la sensoristica contiene elementi rari o comunque di ridotta disponibilità, come pure i circuiti elettronici impiegati per la produzione di processori di calcolo e memorie. 
E' sostenibile un mondo in cui tutti gli ambienti saranno controllati da sensori? Ritengo di no. L'impiego massiccio di sensoristica farà si che i materiali di base diventino sempre più rari e quindi costosi. Già oggi gli USA controllano la produzione mondiale e il consumo (e riciclo) di tanti minerali proprio per essere in grado di prendere decisioni per tempo su un possibile problema di scarsità di risorse, un progetto simile penso potrebbe essere molto "demanding" da questo punto di vista.

Un'altra piccola considerazione. La raccolta di dati da diversi sensori necessita l'impiego di complicati sistemi informatici capaci di raccogliere, analizzare e fondere le informazioni ricevute per arrivare a presentare le informazioni attraverso metodi e sistemi di vario tipo, tutte cose alla base, tra l'altro,  dei sistemi militari di Comando e Controllo.
Quale sarà dunque l'impiego (ufficiale o meno) di un sistema simile da parte delle strutture militari?

Sostenibilità e impiego nel campo dello spionaggio e del Comando e Controllo sono due punti che andrebbero analizzati attentamente e che potrebbero determinare successo o insuccesso di un simile progetto.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 8 novembre 2014

Bertrand Russell: Il mio pensiero (e alcune mie considerazioni sull'Italia)

Bertrand Russell (1872-1970) è stato uno dei più importanti filosofi britannici del '900.
In questi giorni sto leggendo una raccolta delle sue opere intitolata "il mio pensiero". Il libro è in pratica un insieme di brevi articoli scritti durante la sua vita e sui più disparati argomenti. Tra questi ve ne sono molti davvero interessanti ma oggi voglio parlarvi di uno solo di questi: "Gli scopi dell'educazione".
Russell esamina diversi modelli educativi, posti in essere in tempi diversi e in nazioni diverse, mettendo in evidenza le caratteristiche principali e i risultati raggiunti.
La cosa che Russell mette bene in evidenza è il fatto che alla base di un modello educativo vi è un obiettivo (o più) da raggiungere. Un modello educativo veniva adottato per raggiungere uno scopo prefissato. Avevo già riflettuto in passato su questo argomento principalmente perché in diverse occasioni ho cercato di capire perché l'Italia si trovi in queste condizioni e se in qualche modo sia colpa della scuola.
Di tanto in tanto si sente parlare di riforma della scuola in Italia ma mai ho sentito esporre in maniera chiara gli obiettivi che con una riforma si vorrebbero raggiungere.
Perché?
Forse perché coloro che sbandierano riforme non hanno idea di cosa stanno facendo?
Oppure non vogliono dire cosa stanno facendo?
Ma poi, alla fine, cosa hanno ottenuto realmente in questi anni?
Difficile dirlo.
Una riforma scolastica seria dovrebbe intanto dar vita ad un sistema in cui il modello educativo venga applicato per un sufficiente numero di anni affinché buona parte della popolazione venga interessata. 
Fare una riforma ogni cinque anni ha poco senso, rischia solo di creare frizioni all'interno della società tra gruppi che per età e interessi entrano in competizione diretta.
Di contro periodi troppo lunghi potrebbero essere ugualmente dannosi rendendo il paese troppo rigido.
Mi vien da pensare che probabilmente i nostri governanti non hanno la capacità o il coraggio di dire a tutti cosa stiano facendo, in linea di massima ritengo che non sappiano cosa stanno facendo.
Una delle cose che si insegnano ai militari è la pianificazione. 
Bene, può la pianificazione sociale aiutare l'Italia ad uscire dalla crisi (non solo economica ma di valori) che sta attraversando? E, in particolare, come la scuola potrebbe aiutare ad uscire dalla crisi attuale?
Queste domande devono e possono trovare risposta e, una volta trovate le risposte, i nostri politici dovrebbero impegnarsi in una riforma mirata, cosa che purtroppo non faranno perché troppo impegnati in chiacchiere più o meno inutili e in sterili litigi!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO