Traduttore automatico - Read this site in another language

venerdì 16 settembre 2016

Un Libero Santostefanese, di Alessandro Busonero

Una bella serata in compagnia di amici e soprattutto dell'autore del libro "Un Libero Santostefanese", Alessandro Busonero.
La presentazione è avvenuta nella piacevole sede del Circolo Ufficiali della Marina Militare di Roma, dove l'autore dialoga con Carlo Romeo, Direttore Generale della San Marino Rtv e Domenico Scopellitti, vice presidente di Operation Smile Italia.











"Porto S. Stefano, oggi rinomata stazione balneare conosciuta in Italia e all’estero, nonché capoluogo del Comune di Monte Argentario (GR), era parte del territorio del piccolo Stato dei Reali Presidi Spagnoli di Toscana istituito nel 1557..."
Porto Santo Stefano è anche il paese di origine di un uomo, Libero Busonero, nonno dell'autore, che visse in prima persona la II Guerra Mondiale.
Alessandro, col suo libro, rievoca le vicende del nonno attraverso i ricordi dei familiari, le foto gelosamente custodite tra le pagine dei vecchi album e i documenti militari riemersi dagli archivi grazie alla sua ferrea volontà di ricerca.
E' qualcosa di più di un libro di ricordi di un singolo uomo, la storia di una famiglia, i Busonero, e più in generale di tutto il paese, prende corpo grazie alla sapiente scrittura dell'autore.
Questo testo è contemporaneamente un libro di storia, una biografia, una raccolta di ricordi e un esempio di vita. Così, sfogliando le sue pagine incontriamo l'origine di Porto Santo Stefano, il capostipite della famiglia Busonero (Gio Antonio Busonero, di Nuoro) e la vita di Libero raccontata da documenti e parenti... (continua)


Alessandro Busonero prosegue nel racconto della vita del nonno Libero, alternando le vicende di famiglia con quelle più cruente della guerra, dei bombardamenti, delle distruzioni, momenti felici e momenti tristi, vita familiare e storia d'Italia.

Un grande libro che merita di far parte della biblioteca personale non solo di un vero Santostefanese ma di ogni italiano.

Infine, non senza importanza, con l'acquisto del libro si diventa parte dei sostenitori della Fondazione Operation Smile Italia Onlus.

Grazie a tutti per la piacevole serata.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 11 settembre 2016

Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway

Vi sono libri che sono stati scritti per essere letti una volta e poi dimenticati sul ripiano di una libreria, altri sono stati scritti per essere usati, di tanto in tanto, per reperire informazioni utili. Infine, una piccola parte, sono stati scritti per essere immortali, per essere letti ogni estate e posati nuovamente sullo scaffale già sapendo che un anno passa presto. Non c'è bisogno di dire che, per quanto mi riguarda, "Il vecchio e il mare" appartiene a quest'ultima categoria!
Non ricordo quando lo lessi per la prima volta, forse una decina d'anni fa, in ogni caso da allora l'ho riletto ogni volta che mi è passato per le mani.
Ieri sera, frugando tra i miei libri alla ricerca di qualcosa da leggere, ho ritrovato "il vecchio e il mare" e non c'è stato bisogno di andare oltre.
Un vecchio pescatore, un ragazzo che se ne prende cura come può, il mare e la lotta per la vita tra l'uomo e la natura, questi gli ingredienti di uno dei più bei romanzi mai scritti.
Hemingway è riuscito, con il suo racconto, a far vivere i suoi personaggi. L'enorme marlin, i pescecani, il tuna, la stessa lenza da pesca, ci parlano attraverso le parole e i pensieri del vecchio Santiago.
Ottantacinque giorni di sfortuna e poi, finalmente, l'avventura della vita, la lotta tra un vecchio pescatore e la sua preda, un marlin di cinque metri e mezzo di lunghezza. Lotta che si consuma nel Golfo, nell'Oceano Atlantico, al largo de L'Avana, tra le profondità immense del mare.
Il vecchio non ha paura del mare, è il suo elemento e lo rispetta, come rispetta tutte le creature, anche e soprattutto quelle che è costretto ad uccidere per vivere (e talvolta per sopravvivere!).
Forse non apprezza troppo i pescecani, che dopo la lotta gli portano via la sua preda.
Il vecchio pescatore ha vinto la sua battaglia, forse l'ultima. Tornato al porto riacquista però il rispetto di tutti i giovani pescatori che osservando ciò che resta del grande pesce possono solo immaginare la lotta che si è svolta in mare.
Il giovane Manolin ritorna ad assistere il vecchio, consapevole che ha ancora tanto da imparare...
Un libro stupendo cui le mie poche righe non rendono certo il giusto merito.
Hemingway col suo "Il vecchio e il mare" ci ha lasciato un ricordo indelebile di se. Nel leggerti, un pensiero va anche a te, reso immortale dal tuo vecchio e dalla sua preda, il marlin.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Sull'uso degli scarabei in Egitto, un'ipotesi

Ho appena terminato la lettura di una lettera del Cavalier Giulio di San Quintino, relativamente all'uso degli scarabei e, non avendo mai sentito parlare di questo argomento, ho pensato potesse essere di interesse anche per altri e così ho scritto questo piccolo articolo che spero non troverete noioso.
Il Cavaliere sta rispondendo ad una lettera di G.B. Vermiglioli in cui si parlava di una moneta unciale attribuita al conio di Heretum dei Sabini.
Nella sua risposta i lCavaliere parla a sua volta di un argomento di interesse: gli scarabei egiziani.
Questi oggetti, custoditi presso il museo di Torino sono stati oggetto dei suoi studi approfonditi, possibili anche grazie al gran numero di scarabei presenti nella collezione Reale.
Il Cavaliere, in primo luogo chiarisce l'argomento che tratterà: "sotto nome di scarabei intendo parlare di quei piccoli monumenti dello antico Egitto, figurati o scritti nella loro parte liscia, fatti di terra cotta ovvero di pietra, ed aventi, per lo più, la forma di quello Scarofaggio che si vede tutto dì fare per terra la pallotta, o d'altro animale, o cosa non molto diversa dalla figura ovale e tondeggiante di quell'insetto".
Secondo il Cavaliere, gli scarabei sono la parte più numerosa delle collezioni egizie e vanno divisi in due categorie principali:
- gli scarabei sepolcrali;
- gli scarabei destinati per gli usi civili della società;
Secondo l'autore (e chi può avere a portata di mano tali oggetti potrà verificare) gli scarabei sepolcrali sono una minima parte del totale, sono di dimensioni maggiori e solitamente sono privi di iscrizioni e figure, e quando invece hanno delle scritte queste si riferiscono ai defunti. L'autore della lettera ci dice che nella collezione reale vi erano poco più di ottanta scarabei sepolcrali. La dimensione varia dai 3 ai 7 centimetri e sono realizzati in pietre dure di vario tipo. 
Il secondo tipo di scarabei invece è differente. Intanto la forma è solo abbozzata e sono traforati nel senso della lunghezza (mentre quelli sepolcrali non hanno foro!). Di questo tipo vi erano circa 1700 pezzi. La dimensione va dai 7 millimetri ai 4 centimetri, sono realizzati in terra cotta smaltata e sono molto leggeri.
Il cavaliere a questo punto pone una domanda: "Ma a che cosa dunque servivano in Egitto questi curiosi, numerosissimi lavori?
Occorre distinguere, come sopra, tra i due tipi: "gli scarabei sepolcrali accompagnano i defunti nella tomba come simboli, probabilmente, dell'Universo, e del suo facitore. Ma, intorno agli altri, vario tuttora ed incerto è il parere degli eruditi".
A questo punto nella lettera segue una breve analisi di alcune ipotesi e del perchè lui non sia d'accordo su di esse, quindi passa ad esporre una sua ipotesi e a giustificarla, ma prima osserva che: "Fa veramente meraviglia come fra l'infinito numero delle cose antiche d'ogni forma e sostanza che, già da più secoli si vanno scavando nella valle del Nilo, non siasi scoperta mai, una sola moneta di vero conio egiziano; quando, all'incontro, se ne trovano ogni giorno in gran copia di quelle battute colà, non solo dai Romani, e dai Greci, ma talvolta ancora dagli stessi Monarchi Persiani, che furono a contatto cogli ultimi Faraoni", e poco oltrea ggiunge: "E' per altro impossibile che un popolo ricco, ingegnoso e potente [..] abbia potuto rimaner si gran tempo privo di uno dei cardini della società, voglio dire della moneta, o di altra cosa che la rappresentasse".
Ecco, infine, svelato l'argomento della lettera: la moneta egiziana.
Il Cavaliere prosegue nello spiegare i vantaggi della moneta (o suo sostituto) e di come i piccoli scarabei possano in tutto supplire la monetazione metallica.
"Quel succedaneo della moneta in Egitto dovea avere in se tutte , od in parte almeno, le proprietà de' metalli men rari; dovea essere di una materia dura, poco voluminosa, non greve, capace di lunga durata, ed atta a ricevere, e conservare gl'impronti; di una figura sempre uniforme, di una forma tondeggiante anzi che angolosa, affinchè per continuo attrito non venisse troppo presto a logorarsi. Doveva essere inoltre di una sostanza triviale, e di facile lavoro, acciocchè  il prezzo della materia, e dell'opera, non superasse il valore delle cose più dozzinali per le quali si dava. Dovea essere, per ultimo, infinitamente moltiplicata, affinchè potesse bastare ad una nazione ricca e numerosissima." 
Ebbene, non si può certo dire che gli scarabei non siano più che adatti a svolgere la funzione di monete accorpando in se tutte le caratteristiche indicate.
Il Cavaliere prosegue la sua spiegazione dilungandosi sulla storia antica per poi tornare pragmaticamente ad osservare: "gioverà ancora por mente alle seguenti osservazioni che mi vennero fatte esaminando la collezione degli scarabei in questo Regio gabinetto.
"1° Nella serie di questi scarabei, che è poco minore di mille settecento, come si è già detto, io ne ho contato un centinaio circa, i quali in vece di essere segnati colle solite note geroglifiche, ovvero con figure, presentano dei punti fatti a modo di piccoli cerchietti, regolarmente disposti, e di vario numero dall'unità fino al venti. Non è cosa improbabile che in tal guisa, come appunto sulle frazioni dell'Asse Romano, venisse indicato il maggiore o minor valsente nominale di ciascuno scarabeo. 
2° Nella maggior parte degli scarabei fatti di porcellana, i quali come ho già notato, sono di tutti, i più numerosi, i loro smalti durissimi veggonsi quasi intieramente consumati nelle parti prominenti [..] la qual cosa, come ognun vede, non può essere che l'effetto di un lungo sfregamento prodotto dall'uso quotidiano di quelle porcellane, non diversamente da ciò che noi vediamo accadere alle monete correnti nel giro di pochi anni.
3° Si può notare che il foro è spesso allargato, da cui si evince che venivano infilzati e così trasportati.
4° Anche gli scarabei in pietra dura riportano gli stessi segni di sfregamento dei più semplici scarabei di terra cotta.
5° Questi scarabei riportano il nome del Monarca egiziano sotto cui ebbero validità, a similitudine delle nostre monete. Se ciò fosse vero, si potrebbe anche dedurre, dalla numerosità di alcuni scarabei, periodi di crisi e di conseguente svalutazione.
6° Spesso negli scarabei vi sono rappresentati anche gli Dei".
Il Cavaliere termina il suo scritto con una osservazione sulla parsimonia degli Egiziani che usando gli scarabei come moneta non mandavano in polvere patrimoni, come invece accade nei popoli che usano i metalli, a causa del continuo sfregamento.
Devo dire che le osservazioni del Cavaliere Giulio di San Quintino mi hanno colpito e affascinato per la loro profondità e mi stupisce di non aver mai letto niente in proposito, come se queste osservazioni fossero andate perdute. Se così è stato, spero con queste poche righe, di rendergli anche se in ritardo il giusto merito.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO  
 

 

Il papiro dei Re di Torino, considerazioni intorno al sistema de' numeri presso gli antichi egiziani

Ho appena terminato di leggere un saggio/lettera del Cavaliere Giulio di S. Quintino, "Sopra il sistema de' numeri presso gli antichi egiziani" pubblicato il 15 gennaio 1825, inviata all'Abate Giovan Battista Zannoni.
Avendolo trovato molto interessante e non avendo mai sentito prima parlare di ciò, ho ritenuto importante scrivere alcune righe per ricordarlo.
Il Cavalier Giulio di S.Quintino era allora conservatore presso il Museo Egizio di S.M. il Re di Sardegna, in Torino, mentre l'Abate era segretario della Reale Accademia della Crusca e Regio antiquario nell'I. e R galleria di Firenze.
L'oggetto della lettera/saggio, come traspare dal titolo, è il sistema numerale degli Egizi.
Il Cavaliere spiega di essersi avvalso, per i suoi studi, di contratti demotici e registri ieratici "pieni in ogni loro parte di date e di quantità numerali" ma, più utili sono stati per lui "i miseri avanzi di un antico codice cronologico egiziano che presso di noi pure si conserva, ridotto però dal tempo, in centinaia di frammenti".
Il Cav. ci parla dunque di un codice cronologico antico e molto rovinato. Aggiunge che il primo a visitare e studiare il codice fu Champollion il minore. Sulla base dell'analisi del codice, Champollion pubblicò diversi articoli sui giornali d'oltralpe, definendo il papiro "un vero canone reale fatto a somiglianza di quello di Manetone; come un tesoro per la storia, di cui non si potrà mai deplorare abbastanza la perdita per ciò che ne manca; come un'appendice inestimabile alla celebre tavola genealogica d'Abydos, e contenente una serie di oltre cento Monarchi egiziani".
Una notizia interessante senza dubbio, per quei tempi di sicuro, trattandosi di una scoperta che aggiungeva almeno cento Re a quelli allora noti. Sicuramente Champollion utilizzò questi dati nella sua cronologia, facendo risalire i faraoni più antichi anche al 6.000 a.C., per Champollion il Re Menes, capostipite della Prima dinastia, unificò alto e basso Egitto nel 5867 a.C.. Attualmente si ritiene che Menes abbia regnato intorno all'anno 3000 a.C., ma siamo sicuri che le datazioni odierne siano corrette? 
Vediamo cosa ci dice ancora il Cavaliere Giulio di S. Quintino.
"Ora egli è evidente che aggiungendo quei settecento od ottocento anni, all'anno millequattrocento settanta tre avanti l'era volgare, nel quale, con molta ragione, si crede dagli eruditi che il Re Sesostri abbia cominciato a regnare, noi saremo trasportati, dalla sola tavola d'Abydos oltre i tempi d'Abramo, in un'epoca già assai vicina al diluvio, secondo la cronologia de' libri Santi.
Come si può vedere chiaramente, l'autore è preoccupato di non andare in contrasto con la cronologia ufficiale riconosciuta dalla chiesa. Il periodo di 700 o 800 anni, riferito ad un centinaio di Faraoni è chiaramente sottostimato, potendosi più realisticamente valutare, a mio parere, in almeno 2000 anni.
Ma non è tutto, infatti poco più avanti si dice: "Eppure Ella dee sapere, sig. Abate pregiatissimo, che i nomi dei Faraoni che si trovano sparsi in quei frammenti sono veramente assai più di cento; io stesso ne ho riscontrato più di dugento; ed è cosa probabilissima che nell'intiero papiro il loro numero fosse anche maggiore...".
Ciò potrebbe significare aggiungere non 2000 anni ma piuttosto almeno 4000!
Riportando così l'epoca dei primi faraoni almeno al 5000/6000 a.C. ovvero ai tempi indicati da Champollion. 
Ma allora cosa spinge i nostri studiosi a porre molto più vicino nel tempo l'alba dell'Egitto?
Non penso che oggi si tratti di rispetto per la cronologia biblica ma non ne capisco il reale motivo.
Proseguendo la lettera, il Cavaliere avanza delle ipotesi più che credibili:
"Questo nostro canone cronologico tanto celebrato non sarebbe egli mai per avventura quello stesso codice nel quale erano registrati i 340 Re, i quali secondo ciò che i sacerdoti di Tebe voleano far credere ad Erodoto (Erodoto, II, 142) tennero lo scettro di Egitto per lo spazio di undicimila trecento e quaranta anni, da Menes, loro primo Monarca fino a Sethos Re e sacerdote di Vulcano?"
In effetti conoscevo già la storia di Erodoto e non ho mai capito per quale motivo i nostri storici non abbiano mai preso la cosa sul serio. Anche nel Timeo di Platone si fa riferimento all'antichità dell'Egitto ma per i nostri scienziati e storici gli Egizi non possono aver creato un regno sopravvissuto per più di 3000 anni!
Il Cavaliere prosegue dicendo che il codice riportava, per ogni Faraone, il nome, il periodo del suo regno  in anni, mesi e giorni "con estrema precisione". 
Riconosce pure lui che una serie di duecento sovrani non poteva non abbracciare un periodo di tempo inferiore ai trenta o quaranta secoli. Dice inoltre che gli elenchi furono trovati somiglianti a quelli di Manetone, per inciso altro autore non tenuto in considerazione dagli storici.
A questo punto sembra che il Cavaliere Giulio di S. Quintino si ricordi che sta scrivendo ad un Abate e ritorna a parlare del suo studio sul sistema numerale, professando anzi la sua contrarietà all'approfondire lo studio della successione dei Monarchi: "Abbandonai quindi al suo destino tutta quella turba disordinata di Faraoni, nascosti sotto il velo di oscuri prenomi per lo più mutilati; perchè com'ella può credere, non mi vanno punto a genio sì fatti antichi documenti cronologici, che non so trovar modi di conciliare facilmente coi testi delle scritture sante, ed in particolare colle otto generazioni che precedettero, dopo il diluvio, la nascita d'Abramo (Genesi XI)".
Ecco, così il Cavaliere abiura al suo ruolo di uomo di scienza per prostrarsi di fronte all'uomo di chiesa!
Questa, forse, la sua unica preoccupazione: che qualcuno possa comprendere che nel papiro si parli di tempi antecedenti allo stesso Adamo: "Pericolo è che tale papiro possa contribuire segretamente a distruggere l'infallibilità della sacra storia scritta da Mosè".
Non credo di dover aggiungere altro!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Goffredo MAMELI, il corpo e lo spirito della nazione.




Goffredo Mameli ma chi era? Per molti concittadini Mameli è “quello” che ha scritto l’Inno d’Italia, ma poco si sa della sua intensa e breve vita. Lo stesso Inno è poco amato, la patria dei grandi musicisti come Verdi, Rossini, Puccini, Donizetti, sembra essere poco rappresentata dalla “marcetta” del “Canto degli Italiani”.

Ma le cose non nascono per piacere, la storia non è un discount a scaffali dove prendere ciò che più ci attira e soddisfa. La storia è la vita degli uomini e delle loro gesta, e la vita di Mameli è la vita di un uomo, di un intellettuale, di un patriota e di un martire.

Quando Goffredo Mameli muore a soli 22 anni, il 6 luglio 1849, l’Italia unita era ancora un miraggio, un sogno irraggiungibile. Molti dopo la disfatta della Repubblica Romana di Giuseppe Mazzini si convinsero che l’Italia Unita non avrebbe mai visto la luce. Troppi nemici fuori e dentro il continente italiano remavano contro l’unificazione, e soprattutto la repubblica di Mazzini sembrò aggravare le contraddizioni del processo Unitario - La Repubblica Romana apparve troppo sconveniente per conciliare il paese che doveva essere del Papa e dei Savoia. Cavour capì bene la situazione e da uomo pragmatico quale era disegnò una strada per l’Unità che prevedeva i Savoia e il papato a discapito delle idee di Mazzini e dei mazziniani.

Ma torniamo a Mameli. Gli eventi che caratterizzano la vita di Mameli si consumano velocemente, nell’arco di soli tre anni. Diciannovenne, ancora studente, aderì alle idee del risorgimento italiano e preferì una vita di sacrifici ad una agiata carriera diplomatica, dato che proveniva da una antica e benestante famiglia nobile. Nel 1846, compose la poesia “Fratelli d’Italia” che iniziò a circolare tra gli studenti e i circoli risorgimentali genovesi, ma non era ancora un canto. Nel 1847, Mameli contattò il musicista Navaro per dare una musica compiuta alla sua poesia. Il canto che venne fuori, che venne anche indicato come il “Canto degli Italiani” fu cantato per la prima volta durante i moti di Genova di cui Mameli fu uno degli organizzatori. Il 10 dicembre 1847, in occasione della commemorazione della rivolta del 1746 dei genovesi contro gli austriaci, nelle piazze di Genova, all’insaputa delle autorità, i patrioti iniziarono a sventolava il tricolore e a distribuire dei volantini con il canto di Mameli-Navaro e fu subito un successo mediatico.

Per le sue gesta piene di entusiasmo e le sue capacità intellettuali e organizzative il giovane studente e patriota Mameli fu arruolato nelle fila rivoluzionarie e fu portato al cospetto di Mazzini. Nella primavera seguente, a soli 21 anni era già un personaggio di spicco del movimento, e con Bixio si fece promotore, durante i moti del 1848, della spedizione dei trecento volontari per la liberazione di Milano che diedero vita alle 5 giornate e, in virtù dello straordinario successo dell’episodio, che vide il passaggio di mano del potere milanese dagli austriaci a patrioti, venne arruolato come ufficiale nell'esercito di Giuseppe Garibaldi.

L’eco delle 5 giornate di Milano infiammò la penisola, i patrioti si convinsero che era possibile l’liberare l’Italia dello straniero. A Roma, Papa Pio IX, che in un primo tempo sembrava volesse sostenere la causa italiana, cominciò a temere per il potere temporale della chiesa. La posizione ambigua del Papa portò la popolazione di Roma alla rivolta e Pio IX fu costretto alla fuga a Gaeta. I risorgimentali riuscirono a indire una costituente e a proclamare la Repubblica a Roma. Il Papa in esilio chiamò in soccorso i francesi per restaurare il papato. Dal canto loro i patrioti chiamarono le truppe volontarie di Garibaldi, il quale aderì immediatamente e con lui Mameli e il Canto degli Italiani venne adottato fin da subito come Inno della Repubblica Romana.

Non ci fu molta partita, i francesi di Napoleone III meglio organizzati e maggiori in numero ebbero la meglio e l’esperienza della Repubblica Romana finì presto (9 febbraio - 4 luglio 1849). Negli scontri, il 3 giugno, Mameli si ferì ad una gamba e morì il 6 luglio 1849 di cancrena, poco dopo essere stato nominato capitano, con nel cuore la disfatta della Repubblica e il sogno di una Italia unita che svaniva.

Mameli morì come cittadino romano, in quanto perì per la difesa della Repubblica Romana e quindi venne seppellito al Verano, il cimitero monumentale di Roma, con una tomba che riporta le insigne della città di Roma. Dopo di che, di Mameli non si parla più, una volta raggiunta l’Unità d’Italia nel 1861, i Savoia scelsero come inno del nuovo Regno la “Marcia Reale” e del Canto degli Italiani non si ebbe più traccia.

Nel 1941 la prima svolta. Mussolini era in forte crisi di consensi, il fascismo da tempo aveva esaurito la sua spinta propulsiva, e allora ebbe un’idea, egli volle riscoprire le radici repubblicane del risorgimento italiano per dare una immagine giacobina e patriottica ad un regime ormai logorato da anni di dittatura e di guerra. Organizzò in pompa magna la traslazione della salma di Mameli dal Verano al Gianicolo, luogo della battaglia a difesa della Repubblica Romana e dove Mameli venne ferito.

Una cerimonia laica che interessò tutta la città di Roma, un lungo corteo dal Verano fino al Gianicolo passando per le maggiori piazze della città. Fiori, lacrime, scene di regime certo, ma anche di un sincero affetto per un episodio, quello della Repubblica Romana, che era ancora vivissimo nell’immaginario collettivo. Il corteo non salvò il fascismo, e Mussolini si avviò alla inesorabile disfatta, e con lui quella di tutto il paese. Il 2 giugno del 1946, dopo la liberazione, gli Italiani scelsero la Repubblica, e la Marcia Reale fu chiusa in un cassetto e allora si pose il problema di trovare un inno che riunisse le varie anime di un paese nelle macerie oltre che fisiche, anche morali.

Avvenne la seconda svolta. Nel consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946, il Ministro della Guerra propose l’Inno di Mameli come canto per le Forze Armate, e da li si estese a Inno provvisorio per l’Italia repubblicana.

Ma ancora non ci fu pace ne per Mameli ne per l’Inno. Molti esponenti delle Forze Armate avrebbero preferito la canzone del Piave, e non la canzone legata ad un oscuro episodio del passato, peraltro finito male. La sinistra Italiana avrebbe preferito l’Inno di Garibaldi, la sinistra radicale lo giudicava troppo militaresco, la borghesia colta invece avrebbe preferito il “va pensiero” di Verdi. La destra monarchica non digeriva la Repubblica, figuriamoci l’Inno, e comunque la destra vedeva scomparire tutti i simboli del precedente regime e per i cattolici era troppo legato ad episodi anti papalini. Insomma non piaceva proprio a nessuno, per questo, come da buona tradizione italiana, era quello giusto.

Le polemiche non si sono mai sopite del tutto, la ricostruzione, il boom economico, il periodo del terrorismo e delle lotte studentesche, tangentopoli, durante qualsiasi fase della storia della nostra recente Repubblica c’è sempre stato un motivo per attaccare Mameli.

A partire dagli anni 2000, la terza svolta. Ciampi prima e Napolitano dopo, imposero l’inno in tutte le manifestazioni ufficiali a partire da quelle dove era presente il Capo dello Stato. Disse Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente della Repubblica: È un inno che, quando lo ascolti sull'attenti, ti fa vibrare dentro; è un canto di libertà di un popolo che, unito, risorge dopo secoli di divisioni e di umiliazioni.


Alessandro Ghinassi

giovedì 8 settembre 2016

Graffiti rupestri a Monte Baranta - Olmedo

Archeologia in Sardegna, niente di più appassionante.
Questo perché dovunque ti giri vieni sommerso da resti di antiche civiltà, quella nuragica è la più evidente ma non l'unica.





Questa mattina siamo stati a Monte Baranta e dopo essere rimasti sconvolti dallo stato di abbandono del posto, che preferisco non commentare, siamo rimasti colpiti dalle strutture metaforiche presenti sul posto, mi sembra che siano diverse da quanto visto fino ad oggi. Ma questo breve articolo mira solo a presentarvi una piccola scoperta. Il posto è pieno di lastrone sparsi sul terreno e uno di questi ha destato la mostra attenzione per i segni che vi erano incisi.
 Dalla foto non è proprio evidente come in presenza, ma nella foto qui sotto ho evidenziato quei segni che mi sembra siano inequivocabilmente di natura umana.
Devo dire, senza esagerare, di essere rimasto felicemente colpito dalla scoperta.
Fino ad ora, nonostante le innumerevoli escursioni non mi era mai capitato di trovare niente di simile.
Nella pietra si vedono anche altri segni ma è difficile distinguerli.
Naturalmente ora sta al mondo degli studiosi verificare la mia ipotesi. Buon lavoro a tutti.

Invito tutti coloro che amano la nostra Sardegna a fare qualcosa affinché posto come Monte Baranta possano essere trattati come meritano.

Alessandro Rugolo e Giusy Schirru