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sabato 7 gennaio 2017

Visita alla Galleria Borghese - Roma

A Roma ieri è stata una giornata fredda, serena ma fredda.
Di quel freddo intenso delle giornate di tardo inverno, con quel vento freddo che ti congela le guance e le orecchie...
Noi abbiamo approfittato comunque del tempo libero per visitare la Galleria Borghese, uno dei nostri obiettivi ormai da diversi mesi.
La Galleria Borghese si trova all'interno dei giardini di Villa Borghese. Occupa una splendida palazzina che si staglia elegante sullo sfondo azzurro del cielo, fatta realizzare intorno alla fine del 1500 dal cardinale Scipione Borghese.


Al suo interno sono custodite opere di Caravaggio, Bernini, Canova, Raffaello, Tiziano... e tanti altri pittori e scultori famosi.

La visita va prenotata ed è un po cara, anche perchè oltre al costo dei biglietti si paga la prenotazione obbligatoria e il servizio di vendita al concessionario, comunque, dopo aver sborsato una media di 20 euro a testa, ci si può finalmente godere la visita.

Purtroppo è vietato scattare fotografie, per cui posso solo mostrarvi alcuni scatti effettuati prima di sentire l'avviso e qualche foto di alcune opere tratte da internet.

Tra le opere che ho più apprezzato, ecco forse la migliore: si intitola "Il ratto di Proserpina", ed è un gruppo scultoreo in marmo di Carrara di Gian Lorenzo Bellini, realizzata per il cardinale Scipione Caffarelli Borghese.




Per chi fosse interessato alla storia di Proserpina, la si può trovare in Ovidio, Metamorfosi  (Libro V, 391 e seguenti), da cui traggo una piccola parte:

           "Non lontano dalle mura di Enna vi è un lago di acqua profonda di nome Pergo; il Caistro non ode più di quello canti di cigni nelle sue acque correnti. Un bosco incorona le acque, cingendo ogni lato e con le sue foglie, come con un velo, allontana i raggi del sole; i rami danno frescura, l'umida terra fiori purpurei; vi è perpetua primavera. Mentre Proserpina si trastulla in questo bosco e coglie o viole o bianchi gigli e mentre con fanciullesca cura riempie i cestelli e il lembo della veste e si sforza di superare le coetanee nella raccolta, appena vista fu amata e rapita da Plutone, a tal punto fu rapida la passione."

Sempre del Bernini è una seconda opera in marmo, eseguita però con l'aiuto di un altro maestro scultore, Giuliano Finelli, che realizzò le parti più delicate, si tratta di "Apollo e Dafne", anche questa storia è tratta da Ovidio (I, 450 e seguenti).


La terza opera che voglio mostrarvi è è il David, sempre del Bernini.


L'opera è stata commissionata dal cardinale Peretti ma poi acquistata dal solito cardinale Scipione Caffarelli Borghese.

Non c'è molto da dire, di fronte a queste opere d'arte, bisogna solo osservarle in silenzio, ruotare attorno al loro piedistallo e osservarle ancora, alla ricerca di un particolare, di una muscolo, di una smorfia del viso...

Naturalmente nella Galleria Borghese sono esposti tantissimi quadri, oltre alle statue di cui vi ho fornito un assaggio.
Purtroppo le luci o la posizione elevata spesso non consentono di osservarli altrettanto bene che le statue.

Tra i quadri più belli, per me, uno su tutti, realizzato da Michele di Ridolfo del Ghirlandaio: Leda.

  
Per la sua particolarità, mi è restato in mente il "Paesaggio con corteo magico" di Girolamo da Carpi:


Osservando da vicino un quadro molto colorato mi sono reso conto che si trattava di un mosaico... di Marcello Provenzale, dal titolo "Orfeo".



E qui mi fermo, non certo perchè le altre opere non meritino di esser citate (ve ne sono più belle e sicuramente più famose) ma solo perchè mi sembra giusto dare anche a voi la possibilità di vedere coi vostri occhi, le opere presenti alla Galleria Borghese.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 5 gennaio 2017

Mostra di Antonio Ligabue

Da alcuni mesi e fino al 29 gennaio, al Vittoriano è possibile visitare la mostra di Antonio Ligabue, pittore italiano (ma nato in Svizzera, a Zurigo, nel 1899).


Ligabue (Antonio Costa, poi Laccabue) ebbe una gioventù abbastanza movimentata, nato a Zurigo, da padre ignoto, fu riconosciuto dal marito della madre, ma sin da subito fu affidato ad un'altra famiglia svizzera con la quale visse.
Ebbe grossi problemi comportamentali a causa dei quali dovette cambiare scuola diverse volte. Nel 1917 ebbe una crisi di nervi e fu ricoverato in un ospedale psichiatrico. Infine, nel 1919, fu addirittura cacciato dalla Svizzera, su denuncia della madre adottiva.
Esiliato in Italia, senza amici, senza parenti e senza conoscere la lingua, si trovò a cercare di sopravvivere come poteva, lungo le rive del Po.
Nel 1928 incontrò Renato Marino Mazzacurati, scultore e pittore italiano della cosiddetta scuola Romana. Questo artista riteneva che l'arte avesse una funzione sociale e, forse anche per ciò, aiutò Ligabue a sviluppare il suo talento. Ligabue aveva iniziato a disegnare e dipingere già dal 1920.
I quadri di Ligabue sono generalmente considerati appartenenti alla corrente pittorica "naif".
Quasi tutti i suoi quadri (quelli presenti nella mostra) presentano come soggetto principale una scena di lotta tra animali.
E' difficile trovare un soggetto differente.
Qui sotto, uno dei quadri che mi è piaciuto di più, la tigre. 
  
 

Ligabue si cimentò non solo nella pittura ma anche nella scultura, sono sue diverse opere esposte, tra le quali questo splendido tacchino.
 Il leone
 La capra

 il gufo
Uno dei soggetti preferiti del pittore era il leopardo, sempre ripreso in movimento, in azione di caccia.


 
Interessanti i particolari. I quadri vanno osservati attentamente, spesso infatti tra le foglie o gli alberi si nascondono personaggi o animali.
Qui sotto invece, tra le zampe del leopardo si trova uno scheletro umano che sembra sorridere.
Bellissimi i colori.
Sembra che a Ligabue piacesse molto ritrarsi. Sono numerosi gli autoritratti esposti. In ognuno vi è qualche particolare distintivo, un cappello, una farfalla, una mosca...

  Belli anche i paesaggi alpini, con le mucche al pascolo.


o i cavalli delle carrozze postali dei paesaggi Svizzeri.



Ecco una bella scena di caccia al cinghiale
 
la lotta per la sopravvivenza tra un ragno gigante e un piccolo uccello
 la lotta tra galli
 i cani in caccia

 un paesaggio di campagna
ed infine, uno scoiattolo, questa volta solitario.
Una bella mostra, non il mio genere preferito, ma la pittura di Ligabue ha qualcosa di selvaggio, che colpisce e attira.
Lui non ebbe modo di godersi la fama.
Al termine della sua vita la pittura gli permise di non lottare più contro la fame, ma nulla di più.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 3 gennaio 2017

Archimede e l'assedio di Siracusa

Spesso dalla lettura di un libro, nascono delle curiosità da soddisfare che ti condcono inesorabilemnte a leggere altri libri, visitare luoghi, conoscere persone ed opere...
Nel mio caso, dalla lettura della biografia di "Annibale", di Baker, hsono passato ad approfondire alcuni brani di Polibio e a conoscere l'opera di Giulio Parigi.
Ad un certo punto nel libro su Annibale si parla infatti dell'assedio di Siracusa ad opera di Marco Marcello, allora console romano.

Ci troviamo proiettati nel 212 a.C., cosa che non dobbiamo dimenticare!
Siracusa, come tutti sappiamo, era la patria di Achimede.
Di Archimede si racconta sempre che fu l'inventore degli specchi ustori. 
Ma questa non fu l'unica "arma" da guerra del grande matematico. 
Opera di Giulio Parigi - Architetto e matematico fiorentino
Polibio, grande storico dell'antichità, racconta che durante l'assedio di Siracusa da parte dei romani, il console Marco Marcello era a capo della flotta condotta alla conquista di Siracusa.
Nel libro l'autore scrive così delle invenzioni di Archimede: 
"... Archimede sventò i progetti del console. Il muro era stato bucato perché le barbette e gli scorpioni potessero tirare, oggi si direbbe, a bruciapelo. E non solo gli assalitori dovettero subire questi congegni, ma ebbero ad affrontare qualcosa di più spaventoso.: grandi braccia, munite alle loro estremità di una mano di ferro e di una catena, passarono al disopra dei merli. Quelle mani spazzarono i soldati che erano più avanti lasciando cadere enormi pesi; poi afferrarono le prore delle navi. Furono veduti allora i vascelli innalzarsi al disopra dell'acqua. Quando all'uomo che manovrava quelle macchine pareva che il battello fosse abbastanza sollevato in alto, apriva la mano di ferro tirando una corda e lo lasciava ricadere. Alcuni ricaddero su un fianco, altri si capovolsero, altri colarono a picco con tutti gli occupanti... 
Fu necessario battere di nuovo in ritirata."
 
Oggi possiamo dire che il grande Archimede utilizzò, a quanto pare, delle enormi gru come arma, indubbiamente efficaci sul piano materiale. 
Possiamo solo tentare di immaginare quale effetto psicologico ebbe la scienza di Archimede sugli avversari!


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 31 dicembre 2016

Tamerlano, di Harold Lamb

"Erein mor nigen bui", il sentiero d'un uomo è uno solo!
In questo libro è raccontato il sentiero di Tamerlano, ultimo dei grandi conquistatori.

Tamerlano nacque intorno al 1335 a Shahr-e Sabz (Città Verde), attualmente nell'Uzbekistan, nei pressi del grande fiume Amu Darya, a sud di Samarcanda.
"La sua abitazione era una casa di legno e di argilla cruda, con un recinto in muratura che chiudeva un cortile e un giardino."
Ma nonostante avesse una casa, passò quasi l'intera sua vita come facevano tutti i nomadi, a cavallo e sotto una tenda.
Il padre di Tamerlano, Tagarai, uomo mite, era il capo tribù dei Tatari Barlas, una tribù di guerrieri: "essi erano tatari, uomini di alta statura, di ossatura grossa e prominente. Barbuti, bruciati dal sole, camminavano - quando proprio era necessario andare a piedi - dondolando la persona e senza mai voltarsi per nessuno, a meno che si trattasse di un tataro più ragguardevole di loro."
  Il nome Tamerlano è la trasposizione fonetica di Timur-i-lang ovvero Timur lo zoppo, infermità contratta a seguito di una delle numerose battaglie cui prese parte. 
Naturalmente gli amici e i sudditi si guardavano bene dal chiamarlo così, il loro re era per loro Amir Timur Garigan, il Signore Timur, lo Splendido.0
Timur passava il tempo coi ragazzi della sua età mettendosi in mostra sin da subito per la serietà e la maestria nell'andare a cavallo e nell'uso delle armi: arco e spada.
Un giorno gli giunse la notizia che il "creatore di re" lo cercava. 
Fedele al richiamo del suo signore, Kazgan, sistemò gli affari di famiglia e partì alla volta di Sali Sarai, una zona nei pressi del fiume Amu Darya in cui i tatari, "signori, giovani di nobile schiatta e guerrieri", erano accampati.
Fu li che si fece notare. Un giorno Kazgan incaricò Timur di recuperare dei cavalli rubati da un gruppo di predoni. 
Timur si comportò bene e riportò il bottino al suo signore che da allora gli si affezionò.
Timur divenne ben presto un "bahatur", uno degli eroi leggendari dei clan tatari, coloro che andavano alla battaglia come ad una festa. Sedeva tra loro e partecipava alle battaglie. 
Era un capo nato, vigoroso, instancabile, amava comandare e possedeva una virtù che non tutti i capi possiedono: in qualunque situazione si trovasse restava sempre calmo e riflessivo.
Il tempo passava e Timur prese moglie, Aljai Khatun Agha.
La sua importanza cresceva anche a corte e Kazgan lo nominò "ming-bashi", comandante di mille uomini e lo mise a capo della avanguardia del suo esercito.
Poco tempo dopo Kazgan, con l'aiuto di Timur e dei suoi guerrieri, conquisto Herat e catturò il signore della città. Da ciò nacquero dei dissidi interni e Kazgan fu ucciso da alcuni suoi sottoposti.
Timur, appena venne informato, prese ad inseguirli e non si fermo di fronte a niente fino a che non li ebbe raggiunti e uccisi.
Alla morte di Kazgan seguì un periodo di caos.
Il figlio non riuscì a prendere le redini del comando a Samarcanda. I Clan iniziarono una lotta senza tregua, "solo chi sa brandire una spada può impugnare uno scettro" era infatti il motto dei tatari. 
Due capi clan su tutti si contendevano il potere: Hadji Barlas, zio di Timur, e Bayazid Jalair.
Nel bel mezzo del chaos lasciato dalla morte di Kazgan, il Gran Khan del nord , sovrano dei Mongoli Jat, decise di scendere nel sud a riaffermare il suo dominio sui territori da tanto tempo perduti.
Timur, anche in quella occasione si mantenne calmo, al contrario degli altri capi tribù che sembravano impazziti dalla paura. 
Decise di restare nella sua casa della Città Verde e attendere.
Quando le avanguardie nemiche arrivarono di fronte alla sua casa, lui accolse il comandante degli esploratori e offrì a lui e ai suoi uomini un sontuoso banchetto. L'Ufficiale, obbligato dal vincolo dell'ospitalità, impedì agli uomini di far man bassa dei beni di Timur ma chiese in cambio dei doni di grande valore. Timur lo accontentò ed espresse la volontà di andare incontro al gran Khan del nord per fargli omaggio.
Il gran Khan, Tugluk, si trovava accampato con la sua corte nei pressi di Samarcanda, li lo raggiunse Timur con tutti  i suoi averi e quelli del suo clan.
Giunto di fronte al gran Khan, smontò da cavallo e gli rese omaggio: "Padre mio, mio khan, signore dell'ordu, io sono Timur, capo tribù dei Barlas della Città Verde". Poi gli donò tutto ciò che possedeva, aggiungendo che il dono sarebbe stato molto più grande se alcuni degli Ufficiali che l'avevano accompagnato non lo avessero depredato.
Timur così conquistò il khan Tugluk e da lui, prima che partisse nuovamente verso il nord per sedare delle rivolte che in sua assenza erano scoppiate, fu nominato "tuman-bashi" cioè comandante di diecimila uomini. 
Timur era stato l'unico a non fuggire di fronte al gran khan del nord, certo, non aveva potuto combattere, non ne aveva la forza, ma aveva mostrato a tutti le sue doti di diplomatico e aveva così salvato la sua valle e la sua città dalla razzia e dalla distruzione. Aveva anche creato invidie e ciò comportò ancora una volta lotte e guerre per il potere. 
Alcuni anni dopo il gran Khan tornò al sud per ripristinare l'ordine. Timur fu investito del titolo di principe di Samarcanda ma Tugluk lasciò sul territorio il figlio Ilias e il generale Bikijuk con il compito di sorvegliare il regno.
Questi mongoli erano dei predoni e lo dimostrarono.
 Timur protestò verso il suo sovrano per il comportamento del figlio e del generale ma non ottenne niente così si ribellò e dopo le prime schermaglie, dichiarato fuori legge, dovette scappare nel deserto. 
Dalla fuga nel deserto ha inizio la fortuna di Timur, sarà nelle difficoltà che emergeranno tutte le sue doti di guerriero, stratega e conquistatore.
Il libro continua nel racconto della vita del grande conquistatore, di colui che a ragione, poteva essere definito il degno erede di Gengis Khan.
Fino alla fine, nel 1405, all'età di circa settant'anni, quando lo fermò una malattia nel rigido inverno che lo vedeva in marcia verso il Catai, alla testa del suo enorme esercito. 
Aveva conquistato tutto. Aveva combattuto sempre in testa ai suoi uomini e dove era passato aveva sempre ottenuto strepitose vittorie.
I suoi uomini lo amavano, il suo popolo lo rispettava e lo temeva.
Di fronte ad un nemico che si arrendeva era capace di atti di giusta prodigalità, di fronte ad un alleato che lo tradiva innalzava piramidi di teste, staccate dal collo.
La giustizia nel regno era esercitata con fermezza e correttezza. 
I suoi ministri, se ottemperavano al loro dovere, venivano premiati, se sbagliavano o si comportavano scorrettamente col popolo, venivano decollati!
Timur, fu l'ultimo dei grandi conquistatori, ma fu anche un grande costruttore. Samarcanda, sotto di lui, divenne la più grande capitale del mondo, ospitando circa due milioni di persone, di tutte le razze e religioni.
Ovunque andasse osservava tutto e al suo rientro in patria faceva innalzare le opere che aveva ammirato nelle città conquistate. 
Il suo regno poteva essere percorso in lungo e in largo senza pericolo. 
Lungo le strade principali stazioni di posta consentivano ai viaggiatori di sostare e cambiare i cavalli, e ai corrieri di Timur, di viaggiare senza interruzione per portare notizie al loro signore.
Purtroppo, come molti dei suoi predecessori, dopo aver conquistato tutto, se ne andò lasciando il regno, in parte, nel caos, non essendo presente un altro Timur capace di mantenere il potere.
Timur fu un grande conquistatore, in occidente per lo più sconosciuto, nonostante a lui si debba, probabilmente, la salvezza dell'Europa che altrimenti sarebbe caduta sotto l'Impero Ottomano!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 18 dicembre 2016

Nelson, di Arrigo Fugassa

Una bella copertina non significa un bel libro, e viceversa.
Il libro che ho appena terminato di leggere ha una brutta copertina ma è un bel libro.
L'autore, Arrigo Fugassa, nacque ad Alassio, in Liguria, nel 1896.
Visse e operò in Liguria, dove oltre a scrivere per diversi giornali, fu insegnante e poi preside presso l'istituto magistrale di Livorno. Morì nel 1940, a causa di un incidente stradale, un filobus impazzito lo investì.
Fugassa apparteneva ad una famiglia di marinai, armatori e capitani di mare passata poi al commercio e le sue origini influenzarono il suo stile e gli argomenti toccati che in qualche modo erano sempre legati alla tradizione marinaresca.
Nel 1931 pubblicò la biografia di Nelson.
Non poteva scegliere argomento migliore. Nelson aveva infatti tutte le caratteristiche del personaggio ideale per esaltare le virtù del patriota (anche se inglese!).
Il libro è scritto con uno stile particolare, direi che lo si potrebbe dire tipico del periodo fascista, per quello che io penso. Le frasi sono costruite in modo particolare, e le prime pagine mi hanno dato qualche problema (ma poi ci si abitua).
Comunque, come ogni biografia, è il personaggio straordinario che mi ha colpito maggiormente.
Nelson!
Di lui cosa sappiamo (noi italiani)?
Probabilmente poco o niente.
Immagino che ora, alcuni tra i lettori più curiosi stiano cercando su wikipedia una sintesi della vita, altri, forse, aspettano invece di leggere le righe successive!
Eccole dunque.
Horatio Nelson nacque il 29 settembre 1758 a Burnham Thorpe, piccolo villaggio  sulla costa orientale dell'Inghilterra, morì nel 1805 nella battaglia di Capo Trafalgar, nei pressi dello stretto di Gibilterra.
Fugassa ci dice come Nelson iniziò la sua carriera, ne riporto una parte per farvi capire anche come è scritto il libro:
"A dodici anni Orazio Nelson era in mare.
Non idealizziamo però, come piace ai redattori delle biografie romanzate oggi in tanta voga; non cerchiamo di scorgere in questo primo passo del futuro ammiraglio l'impeto rivelatore della grande, irresistibile vocazione.
Già in tutto l'epistolario di Nelson, noi cercheremmo invano gli inni al mare e alla vita del marinaio; gli accenni in proposito sono oltremodo sobri e rapidi, nè si gonfiano mai di vaniloquente entusiasmo, finchè da ultimo le lettere esprimono il desiderio sempre più inquieto di farla finita coi bastimenti e le navigazioni: desiderio aduggiato, come vedremo, dall'ombra malaugurosa d'un funesto presentimento, destinato alfine a cangiarsi in realtà.
Il ragazzo andò in mare per una ragione più semplice, più modesta, meno romantica e che gli fa tuttavia molto onore: per liberare suo padre dal carico di mantenerlo."
Ecco, dunque, il piccolo Nelson che si imbarca grazie allo zio Maurice Suckling, come midshipmen, ovvero come cadetto.
Parte così la sua avventura per mare, alla volta delle "Indie Occidentali".
Negli anni successivi partecipa ad una spedizione nel mar artico, prende parte alla guerra per l'indipendenza americana e quindi si ritrova comandante dell'Agamennon, a combattere contro la Francia repubblicana. Occorre ricordare infatti che la fine del '700 vide il mondo scuotersi a causa delle lotte per l'indipendenza dall'Europa degli Stati Uniti d'America e per la ricerca di un nuovo ordine, diverso da quello delle grandi monarchie. In Italia, dopo la Francia, il Regno di Napoli era scosso da fremiti repubblicani. Contemporaneamente il futuro Imperatore, Napoleone, muoveva i suoi primi passi. Nelson combatteva nel Mediterraneo, in Corsica, nel mare ligure, nel mar di Sardegna, instancabile. Nel corso di un bombardamento era stato ferito ad un occhio e perse la vista, ma ciò non gli impedì di andare avanti.
Dal 1795 il comandante in capo delle forze navali nel Mediterraneo è l'Ammiraglio John Jervis. Nelson ebbe molto da imparare e quando toccò a lui applicò senza indugio quanto visto.
Principalmente Jervis era un fautore della disciplina, dell'ordine, della pulizia e dell'addestramento continuo. Sotto le sue cure, la flotta raggiunse un livello di efficienza mai visto prima.
La marina britannica era in quegli anni la più potente al mondo, ma le guerre continue e i lunghi periodi passati lontano dalle famiglie e le paghe ferme da cento cinquant'anni creavano malcontento e rivolte. Ma non sotto Nelson, con lui non ci fu insubordinazione.
Diceva: "Io posso vantarmi d'aver fatto il mio dovere altrettanto bene dei miei colleghi, e d'averlo fatto senza perdere l'affetto di quelli che servivano sotto i miei ordini". Ed in effetti i suoi uomini non lo videro mai se non in prima fila, dove il pericolo era maggiore, ad incitare e trainare alla vittoria.
Dice l'autore: "Lo amavano per questo, i suoi uomini, e per il suo voler vedere, sapere, ascoltare ogni cosa,e d'ogni cosa, prima o poi, tener conto, con largo senso del giusto e del conveniente. E i successi di lui si spiegano o si chiariscono attraverso questo affetto che gli faceva come un alone sul quale egli puntava nelle ore decisive, come su una forza vera e propria a disposizione sua. Un uomo meno amato, in taluno dei frangenti a cui venne a trovarsi, non sarebbe riuscito al pari di lui. Questa non era fortuna, ma volontà. Era il suo stile di comando, uno degli elementi della sua grandezza."
Potrei continuare a lungo raccontandovi le sue imprese nel Mediterraneo, a Napoli e in Sicilia, contro la Francia repubblicana, fino a giungere alla battaglia per cui, forse, è più noto: quella di Capo Trafalgar, che lo consacrò eroe immortale e decretò la fine della marina francese. 
Non lo faccio appositamente, perchè credo che quanto ho  già detto sia più che sufficiente per spingere i curiosi a leggere la biografia di Nelson e riscoprire così, anche un autore come il Fugassa.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 10 dicembre 2016

Il Crepuscolo degli Dei (parte quinta)


Il commissario Sterling


Dal giorno del funerale erano passate tre settimane ormai. Mentre reggeva la lettera aveva ripensato a quell’omino unto e fastidioso.

Come aveva detto di chiamarsi? Stralin, forse… Sterling, commissario Sterling!

Da quel giorno non si era fatto più sentire.

Quando era stato? Il giorno dopo il funerale del padre. Si era presentato a casa del padre, aveva suonato due volte, a lungo, e aveva aspettato che lei le aprisse.

Non aveva mai capito perché era andato a trovarla proprio a casa del padre. Aveva pensato, solo per un attimo, che lui l’avesse seguita. Forse era andata proprio così ma lei non aveva motivo di pensarlo… così la prese per una coincidenza e dimenticò.

Quel giorno era stato discreto, più discreto del giorno prima, al cimitero.

Aveva chiesto se stava bene, se aveva bisogno di qualcosa, poi, aveva raccontato dei sospetti. Disse che suo padre aveva sporto denuncia, alcune settimane prima della sua morte. Sembra che qualcuno lo avesse seguito. Forse era solo un balordo, una sera un ubriaco gli si era avvicinato di soppiatto e lui si era spaventato. Forse non era niente ma in ogni caso, vista la sua sparizione, era meglio non sottovalutare niente e esplorare tutte le strade.

Lei ricordava che il giorno non si era sentita troppo bene, forse a causa delle rivelazioni del commissario Sterling, era andata a letto presto, senza uscire di casa. Poi il commissario dopo averle lasciato un bigliettino da visita era scomparso.


Ora era lei che l’avrebbe cercato. Certo, la cosa non le piaceva molto, ma forse lui avrebbe potuto aiutarla a capire.

Cercò nella borsa il suo biglietto da visita…

Sicuramente era ancora li, lei non era mai stata troppo ordinata e di solito le cose restavano mesi dove le appoggiava la prima volta.


Trovò il biglietto da visita tra i suoi documenti.


- Benjamin K. Sterling… seguito da un numero di telefono e dalla sua email.

Lo chiamò subito, impaziente.

- Si?

- Commissario Sterling?

- Si, sono io, chi mi cerca?

- Sono Maria, Maria Odges…

- Finalmente, pensavo che non avrebbe chiamato più! Dove si trova adesso? Le devo parlare…


- Ma… sono a casa mia…


- Stia li, sto arrivando! La voce era decisa, il tono preoccupato.


Il commissario Sterling interruppe la chiamata senza attendere oltre. Uscì dal commissariato quasi di corsa (per i suoi standard!). Prese la macchina di servizio, senza attendere l’autista. Mezz’ora dopo suonava il campanello del portone in legno della casa di Maria.


- Si accomodi, commissario


Maria, per la prima volta da quando lo conosceva, lo guardò sotto una luce differente. Aveva sempre pensato che fosse una persona senza spina dorsale.

Un commissario di provincia che per qualche inspiegabile motivo era finito a Londra, non certo per merito. Aveva sempre pensato ai suoi capelli unti e al suo chiacchiericcio insulso come… non sapeva neanche come definirlo… ribrezzo? Forse…

Eppure ora era la persona più vicina ed affidabile che avesse, l’unico con cui potersi confidare, l’unico cui avrebbe dovuto far leggere la lettera di suo padre, dato che erano stati colleghi… tanti anni prima, quando servivano entrambi sotto l’MI5!

Suo padre… un agente segreto, chi l’avrebbe mai detto! 


(Continua ->>)

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


Puntate precedenti:

Parte prima ->>

Parte seconda _>>

Parte terza ->> 

Parte quarta ->>

sabato 3 dicembre 2016

Il Crepuscolo degli Dei (parte quarta)


Sensazioni

Erano passate diverse settimane dalla morte del padre ma lei non riusciva a trovare pace.
Dopo la morte della madre avevano ritrovato una certa tranquillità.
Certo, di alcune cose non parlavano mai, ma si potrebbe dire che erano in pace con il passato e cercavano di godere ogni minuto che passavano assieme.
Lei non era più tornata nella vecchia casa di famiglia ma al di la di questo si vedevano abbastanza spesso e facevano lunghe passeggiate assieme.
A volte andavano a mangiar fuori… come l'ultima volta.
Ora, però, era sola… sola!

La cosa la faceva star male.
Le mancavano le passeggiate, a volte sotto la pioggia fredda della periferia di Londra.
Le mancavano le piccole attenzioni che il padre le riservava quando si incontravano.
A volte un fiore di campo appena colto, una ciambella ancora calda, un libro…

L'ultima volta, la sera della prima teatrate del “Crepuscolo degli Dei”, le aveva portato un pacchetto... che non aveva ancora aperto!
Nel trambusto che era seguito non ci aveva fatto più caso.
Chissà che fine aveva fatto.
Aveva pensato che fosse un libro, anche se il padre normalmente non incartava i regali.
Maria cercò di tornare indietro con la memoria a quella sera.
Le faceva male… ma era curiosa.
Cercò di ricordare gli ultimi istanti, quando si erano salutati di fronte a casa sua, dopo la cena in ristorante.
Lui l'aveva accompagnata a casa e andando via le aveva consegnato il regalo.
Cosa aveva detto?
Non ricordava bene… l'aveva abbracciata come faceva sempre… forse più intensamente, ma poteva essere solo una sua impressione.
Poi lei gli aveva asciugato una lacrima e gli aveva detto “ti voglio bene, papà...”

Lui non aveva risposto e l'aveva stretta forte.
Poi era risalito in macchina ed era ripartito. Si era fermato di nuovo ed era tornato indietroò indietro…
le disse di essersi dimenticato di lasciarle il regalo, così le diede il pacchetto.

Lei aveva ringraziato ed era entrata in casa.
Aveva pensato che dovesse trattarsi di un libro che aveva appoggiato nella libreria del piccolo salotto, proprio sopra la poltrona nella quale amava sedersi per leggere.
Il pacchetto era ancora li.
Nessuno l'aveva toccato...
Prese il pacchetto dalla libreria e lo rigirò tra le mani.
Solo ora si accorse che non si trattava di un libro ma, forse, di un piccolo contenitore, tipo un porta sigari.
Che idea balzana… perché mai il padre avrebbe dovuto regalarle dei sigari? Eppure… anche l'odore era quello di una scatola di sigari!
Come aveva fatto a non accorgersene prima?
Certo, le ultime settimane erano state abbastanza stressanti e lei aveva passato più tempo nella vecchia casa del padre che nel suo appartamento.
Aveva usato della carta da regalo natalizia e il pacco era fatto male, doveva averlo fatto lui in tutta fretta. Forse poco prima di raggiungerla a teatro…

Maria si sedette nella sua poltrona preferita, anche perché era l'unica, ed aprì il pacchetto.

Si trattava di una scatola di sigari, riutilizzata come contenitore.

All'interno si trovavano pochi fogli sparsi, alcune fotografie e una lettera…

La scrittura era quella del padre, anche se si vedeva che era stata scritta in fretta, la calligrafia del padre era inconfondibile.

Aveva sempre scritto a mano e la sua scrittura era chiara e decisa. Scriveva sempre su fogli di carta ingiallita.
Ne aveva una scorta enorme a casa sua, quasi avesse paura di restarne senza.
Maria prese il foglio tra le mani e cominciò a leggere:

“Cara piccola mia,
da domani per te la vita sarà diversa, molto diversa, e mi sento in dovere di raccontarti alcune cose della mia vita, cose che non ti ho mai detto, non per vergogna ma per proteggerti…”

Mentre leggeva sul viso le si leggeva chiaramente il suo stupore, la sua incredulità, la paura… ora intuiva cosa poteva essere accaduto!
Dunque, quelle dei giorni precedenti, non erano sensazioni... qualcuno la seguiva!
Cosa avrebbe dovuto fare?

(Continua ->>)

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


Puntate precedenti:

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