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sabato 13 ottobre 2018

I sistemi d'arma statunitensi sono vulnerabili ad attacchi cyber? Così sembra secondo...

Se ci si limita a leggere le notizie sul cyber space (e relativi attacchi) si è portati a pensare che questi problemi siano tipici del mondo civile e che non hanno niente a che vedere con i sistemi d'arma degli stati più avanzati ma a ben guardare e rivolgendosi verso strutture informative più specifiche del mondo cyber, come per esempio il SANS Institute, si scopre che anche i sistemi d'arma statunitensi sono soggetti a vulnerabilità.
E' proprio nella newsletter del SANS institute che questa mattina ho letto del rapporto governativo US compitato dal "Governmental Accountability Office" per il Senato degli Stati Uniti dal titolo "Weapon System Cybersecurity, DOD just beginning to grapple with scale of vulnerabilities". 
Il report analizza le criticità del settore relativo agli armamenti e mette in evidenza le lacune di alcuni sistemi, soprattutto di quelli più vecchi realizzati quando ancora si avevano poche evidenze delle potenzialità di un cyber attack. 

Ma il fatto che un sistema sia di recente progettazione e realizzazione non mette al riparo da problemi di sicurezza. La complessità, l'interdipendenza da altri sistemi, la necessità di provvedere ad aggiornamenti funzionali e, talvolta, la scoperta di vulnerabilità legate ai software di base (è il caso dei sistemi operativi per esempio) costringe l'industria e la Difesa a riprendere più e più volte i sistemi per effettuare i correttivi del caso.
Il report è dunque un ottimo documento per capire quali sono i rischi cui un sistema d'arma moderno è soggetto e come si deve procede per evitare errori macroscopici partendo dal fatto che la "cybersecurity è il processo relativo alla protezione delle informazioni e dei sistemi informativi attraverso la prevenzione, l'individuazione e la risposta agli attacchi. La cybersecurity mira a ridurre la probabilità che un attaccante possa accedere ai sistemi del DoD e limitare i danni che esso potrebbe fare qualora riuscisse ad accedervi". 
Il report riporta alcuni potenziali effetti negativi che possono essere sfruttati da avversari dotati di capacità di cyber attack, contro sistemi d'arma in qualche modo dipendenti da software, dai più banali quali ad esempio la possibilità di accensione e spegnimento di un sistema d'arma o la modifica di un obiettivo di un missile fino a attacchi più elaborati come la modifica del corretto livello di ossigeno di un pilota di caccia.
Gli Stati Uniti hanno in programma investimenti per circa 1.600 miliardi di dollari per i prossimi anni e i rischi legati alle nuove tecnologie e alle potenziali vulnerabilità cyber sono considerati elevati.
Questo li ha spinti a mettere in piedi delle strutture e dei processi di controllo allo scopo di limitare i danni economici e il fallimento di progetti ma gli ha anche consentito di raccogliere dati sui software e sulle vulnerabilità presenti nei sistemi d'arma di valore inestimabile.
Ci si potrebbe domandare se qualche cosa di simile viene posta in essere negli altri paesi, per esempio nel nostro, dove gli investimenti sono naturalmente minori in quanto attagliati alle ambizioni e agli obiettivi da raggiungere ma, proprio per questo, molto più soggetti a pericolo di fallimento. 
Negli USA, se un progetto fallisce, è molto probabile che ve ne sia un altro con obiettivi simili che arrivi a buon fine, ma da noi (o più in generale nei paesi di piccola e media grandezza europei) il fallimento di un progetto di un sistema d'arma condurrebbe probabilmente alla mancata realizzazione di una capacità operativa con le conseguenze che è possibile immaginare.
Tutto ciò spinge a pensare che l'unica soluzione percorribile sia superare le distanze esistenti (e a volte create ad arte) tra i paesi europei e realizzare dei programmi comuni: l'alternativa è quella di restare legati a politiche delle grandi potenze e anche ai loro "dictat" in campo economico e di sviluppo dell'industria militare e delle nuove tecnologie. 

Alessandro RUGOLO

Per approfondire:


- https://www.sans.org/;
- https://www.gao.gov/assets/700/694913.pdf;

sabato 15 settembre 2018

Le lingue come elemento di unità nazionale

Immagine tratta da internet (1)
La lingua, come la storia, la religione, la cultura e le tradizioni, è uno dei fattori essenziali che costituiscono una nazione. E' tra tutti sicuramente uno dei più importanti in quanto, fu proprio la lingua a dare una marcia in più alla creazione di tutti gli stati che oggigiorno conosciamo. La Francia tra tutte le nazioni fu la prima a evidenziare uno spirito di unità nazionale legato al fatto che già agli inizi del Medio Evo si andavano a diffondere, in quello che allora era il territorio francese, due lingue, entrambe romanze: quella d'oc nel sud e quella d'oil nel nord. Fu proprio grazie a queste lingue e alla presenza di una classe sociale in grado di emergere rispetto alle altre ed esprimere pensieri e sentimenti, che ben resto in Provenza nacque la letteratura. Da questo punto si ebbe una marcia in più verso la creazione di una cultura letteraria che potesse raggruppare la popolazione francese, fino ad arrivare alla forte monarchia di Filippo II Augusto che darà effettivamente vita alla Francia.
Non si può dire lo stesso per l'Italia, che dovette aspettare molti secoli prima di veder nascere una lingua comune in grado di poter unificare il popolo della penisola. Sappiamo infatti che subito dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente la lingua più utilizzata nei territori dell'impero, il latino, pian piano scomparve, unendosi a dialetti e lingue preesistenti per formare le cosiddette lingue neolatine o romanze. L'italiano, appartiene a queste, anche se la formazione di questa lingua fu piuttosto complicata e si protrasse infatti secoli e secoli. Questo è dovuto certamente al fatto che dopo la caduta dell'Impero carolingio e delle innumerevoli battaglie di indipendenza, che alcune città italiane conducevano nei confronti del''imperatore del Sacro Romano Impero, si arrivò al punto in cui il territorio italiano che oggi conosciamo era dominato da grandi famiglie che gestivano piccoli stati come per esempio nel Meridione italico il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli che sarebbero divenuti poi il Regno delle due Sicilie; al Centro, i quattro giudicati sardi che sarebbero stati sconfitti dagli aragonesi e divenuti poi territori del Regno di Sardegna, lo Stato della Chiesa e altri piccoli territori autonomi; mentre nel Centro-Nord e Nord erano presenti le Repubbliche Marinare di Pisa, Genova e Venezia, la Repubblica di Firenze e di Siena, il Ducato di Savoia e di Milano e nella Romagna altre piccole entità statali.
Tutti questi stati possedevano ognuno la propria economia, il proprio sovrano o la propria classe dirigente e il proprio dialetto: erano praticamente uniti (oltre alla forza del loro signore) solamente dalla religione e perciò il loro unico punto in comune era Roma. Troviamo prove della mancanza di una lingua comune anche nelle opere di Petrarca, Boccaccio e in particolare di Dante che scrissero in latino e in volgare: una sorta di dialetto che variava a seconda del territorio. Di ciò abbiamo prove sicuramente nella famosa opera dantesca del “De vulgari eloquentia” prodotta dal Sommo Poeta tra il 1303 e il 1305. Si tratta di un trattato di retorica in cui Dante presenta le caratteristiche di un volgare che possa unificare tutti gli stati italiani sotto di esso. Per chi ha studiato quest'opera e la conosce sa che il volgare che il poeta ricerca nelle corti italiane non sarà mai trovato. L'italiano deriverà successivamente, in particolare dal volgare fiorentino, che fu a sua volta influenzato dai latinismi, francesismi e provenzalismi della Scuola Siciliana. Tuttavia sarà solo con la creazione del romanzo dei Promessi Sposi nel 1842 che Manzoni eleverà il fiorentino a modello nazionale linguistico.
In Germania accaddero fatti simili a quelli italiani: i confini tedeschi si consolidarono intorno al 1871 tuttavia sappiamo che anche in Germania erano presenti vari regni, ducati e altre tipologie di identità statali che avevano in comune un imperatore eletto tra tutte gli stati presenti nei territori del Sacro Romano Impero. C'è da dire, per quanto riguarda la lingua, che prima della formazione della lingua tedesca erano presenti tre differenti idiomi chiamati alto tedesco, basso tedesco e medio tedesco. Una svolta linguistica si ebbe tra il 1522 e il 1534 quando Martin Lutero decise di tradurre la Bibbia dal latino al tedesco, utilizzando proprio l'idioma medio-alto tedesco della regione della Sassonia. Indirizzò in questo modo tutta la popolazione della Germania a leggere e basarsi su un determinato tipo di tedesco. Fu proprio il tedesco usato da Lutero, che fino al 1800 era utilizzato solo in forma scritta e dalla pronuncia incerta, ad identificarsi poi con il mondo politico-culturale tedesco.
Questi sono solo tre grandi esempi di come la nascita di una lingua abbia come conseguenza la nascita di un senso di appartenenza di più persone in un unica comunità che porta alla creazione delle nazioni. 
E se si parlasse di un senso di appartenenza ad una comunità di più stati come l'Unione Europea? 
I ventotto stati dell'Unione si sentono uniti da un unica lingua nella quale tutti si possano esprimere? 
E' da segnalare il fatto che attualmente, dal Regolamento nº1 del 1958, si stabilisce che le lingue che la Comunità Europea può adottare come lingue ufficiali e di lavoro sono ventiquattro:
-bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese.
Tuttavia è da specificare il fatto che la Commissione Europea ha deciso di adottare come lingue procedurali solo tre tra quelle sopra elencate: l'inglese, il francese e il tedesco. Vale a dire le tre lingue più parlate, diffuse e studiate in tutta l'eurozona.
Secondo dei dati rilevati dall'Eurobarometro la lingua parlata come madrelingua più diffusa è il tedesco con il 24% della popolazione della zona euro, segue al secondo posto con il 16% il francese e con la stessa percentuale l'inglese e l'italiano. Tuttavia, ci si può immaginare che, la lingua parlata come lingua straniera più diffusa è l'inglese, parlato in questa categoria dal 31% della popolazione dell'UE. Perciò l'inglese viene parlato in totale dal 47% della popolazione dell'unione, scavalcando in questo modo il tedesco con una percentuale totale del 32%. Inoltre c'è da evidenziare il fatto che nella maggior parte delle scuole, e in particolare in Italia, la lingua straniera che viene privilegiata nell'insegnamento è sicuramente l'inglese, a seguire il francese e il tedesco. E' perciò piuttosto chiaro sotto quale lingua la popolazione dell'Unione Europea si potrebbe riconoscere un giorno, l'inglese potrebbe essere la lingua con la quale gli stati d'Europa potrebbero comunicare tra loro senza nessun problema. Dato che potrebbe essere considerato tutt'altro che utopico poiché già il 45% della popolazione della zona euro riesce a comunicare almeno utilizzando una lingua straniera.
Ma cosa accadrà con la Brexit?
E' possibile infatti che...


Filippo Schirru

(1) http://www.abbanews.eu/educazione-lavori-e-ricerca/lingue-era-digitale/ 

lunedì 3 settembre 2018

Turchia: la forza asimmetrica delle sanzioni


Foto http://nena-news.it
Esaminare un fenomeno, per ogni ricercatore, costituisce un’occasione eccezionale per studiare su vetrino dinamiche altrimenti solo teoriche; la Turchia, con i casi analoghi che stanno interessando la scena internazionale, è un unicum da laboratorio geopolitico da non tralasciare. Geopolitica e geoeconomia si trovano intessute in un’unica trama condizionandosi l’un l’altra, e coinvolgono soggetti politici diversi e tra loro interagenti. La crisi economica che sta sconvolgendo lo Stato Turco ha radici profonde, ed il complesso sanzionatorio americano non ha fatto altro che acuire un male già presente; di fatto, le sanzioni comminate dagli USA rientrano in un quadro più ampio, dove assumono l’aspetto di un’arma che concorre a portare un attacco ad un sistema economico emergente ma dai piedi di argilla, bisognoso di finanziamenti in valuta estera. Che l’economia fosse il grande malato era cosa nota anche ad Erdoğan, tanto da indurlo a formare un governo tecnico capace di ispirare fiducia nei mercati; la variabile legata all’ego del sultano, tuttavia, ha contribuito a vanificare l’intento. La nomina nepotista di Berat Albayrak, genero di Erdoğan, con incarico congiunto tra Tesoro e Finanze, e l’inedita facoltà presidenziale di intervenire sulla politica economica delegittimando l’indipendenza della Banca Centrale, sono ambedue figlie di un imperialismo confessionale neottomano, e hanno sortito un effetto destabilizzante sulla credibilità dell’apparato economico statale, assimilato dagli investitori ad un’impresa a carattere familiare priva di garanzie. Erdoğan, assicuratosi il sostegno delle FF.AA., mai così lontane dalla funzione di garanzia laica loro assegnata da Ataturk ed impegnate nel Siraq, ha agito su due direttrici: all’interno ha promesso di continuare a sostenere crediti agevolati ad imprese e famiglie; all’estero ha confermato il suo intento di perseguire una politica di potenza che, di fatto, già con gli incidenti diplomatici con Israele, ha da tempo superato la dottrina della profondità strategica di Davutoglu, e ha inaugurato una sorta di Erdoganesimo assertivo e di rottura verso gli equilibri regionali consolidati. Ambedue le iniziative presentano tuttavia una necessità imprescindibile: la copertura finanziaria. La crisi economica strutturale assume dunque valenza geopolitica, ed esalta un’inflazione che vanifica la crescita del PIL; la classe media imprenditoriale, arricchita da una politica monetaria espansiva, ha garantito un fondamentale bacino di voti all’AKP, divenuto così partito predominante. Il modello, basandosi sulla necessità di un significativo afflusso di capitali esteri necessari al finanziamento di opere infrastrutturali, ha però esposto il sistema a speculazioni contrastabili solo con una valuta nazionale forte; il siluro delle sanzioni USA, determinando una liquidazione improvvisa, ha aumentato il costo del rifinanziamento, aggravato peraltro e dal deficit delle partite correnti, dove l’import di beni e servizi supera l’export, e dalla decisione di mantenere bassi i tassi di interesse con una politica fiscale accomodante. Da considerare, inoltre, sia il non aver previsto la fine del Quantitative Easing negli USA ed in zona EU, cosa che sta inducendo gli investitori a spostare il focus dai Paesi emergenti verso mercati più stabili anche se con rendimento più basso dei titoli di stato, sia l’introduzione delle sanzioni americane contro l’Iran, fondamentale fornitore energetico. In sintesi: la tempesta perfetta dello speculatore, con gli esempi dell’Argentina che, quale mercato emergente alla stregua turca, ha dovuto fare ricorso all’impolitico FMI, del Sudafrica e della Russia che hanno perso percentuali valutarie significative. Ecco che le sanzioni diventano strumento di guerra asimmetrica, in un momento in cui la ristrutturazione dei rapporti internazionali post guerra fredda ha indotto la Turchia ad assumere una postura diversa a livello regionale, con gli USA indispettiti dalla vicinanza di Erdoğan all’asse russo – iraniano sulla Siria, percepito come una minaccia per gli alleati sauditi ed israeliani. La posizione geografica, a cavallo di regioni strategiche e contigue (e capace di permettere l’accesso nel Mediterraneo alla flotta russa) se da un lato ha portato la Turchia ad aspirare ad un ruolo più centrale ed assertivo, con aperture di politica estera destabilizzanti, dall’altro ha persuaso gli USA a bloccare qualsiasi velleità espansionistica regionale, a congelare la vendita degli F35, anche in relazione all’acquisizione del sistema missilistico russo S-400 in luogo del sistema italo francese Eurosam, ed a sostenere le forze curdo siriane dello YPG. Al di là della retorica turca, la ricerca di nuovi partner si inquadra in un tentativo di salvaguardare l’interdipendenza economica ed energetica del paese, dove le possibili exit strategies sono 4, e tutte impervie: prestito FMI con austerità, tagli e percepito come un avvicinamento forzato al difficile contesto occidentale e ad un allontanamento dal temporaneo alleato russo; default selettivo; un’improbabile moratoria internazionale sul debito; un nuovo gold exchange standard, agganciando la lira alle riserve auree, peraltro in calo nel corso del mese di luglio. Con queste chiavi di lettura vanno interpretati i passi intrapresi, sia in direzione franco – tedesca, con la Germania timorosa e di un possibile contagio finanziario e di una conseguente ondata migratoria alimentata dall’offensiva siriana su Idlib, sia verso il Qatar, pronto a sostenere con prestiti ad hoc l’economia anatolica. Ma è ipotizzabile un’uscita dal sistema NATO a queste condizioni, vincolandosi ad una coalizione regionale pur rimanendo tatticamente legati all’Occidente? Difficile, anche perché la Russia rimane un avversario strategico anche se con limitate disponibilità; perché gli altri Paesi del Golfo, ispirati dall’Arabia Saudita difficilmente accorreranno in aiuto di Ankara; perché la Cina è interessata al business, ma non ai risvolti politici a carattere regionale che possano pregiudicare i suoi interessi. Il diniego americano allo scambio tra Gülen, l’imam avverso ad Erdoğan e residente ormai da tempo negli USA, ed il pastore americano Brunson detenuto in Turchia, vale dunque la crisi che le sanzioni su acciaio, alluminio e due ministri, hanno peggiorato? L’Europa non può certo chiamarsi fuori dai giochi, sia per l’esposizione finanziaria di importanti istituti di credito in territorio turco, sia per il fatto che, previa dazione, Erdoğan rimane il garante del contenimento dell’ondata migratoria da est, sia perché l’Anatolia costituisce lo snodo energetico capace di ridurre la dipendenza dalla Russia. È’ lecito quindi attendersi, in mancanza di un accordo con gli USA, la presentazione a Bruxelles di una nota spese rilevante, indirizzata a sfruttare l’inconsistenza geopolitica europea. Insomma, le sanzioni comminate dagli USA, condizionano più di un Paese; un’arma, senza dubbio, capace di influenzare pesantemente gli equilibri globali; Russia, Iran, Turchia, tutti compressi dall’imposizione di vincoli economici rilevanti, tutti obbligati a dover fare comunque i conti con la valuta forte di riferimento, il dollaro, malgrado i tentativi di sganciarsi dal biglietto verde ricorrendo anche alla criptovaluta venezuelana, il Petro, potenzialmente valorizzato dall’estrazione del greggio ma di fatto di scarso peso intrinseco e, soprattutto, già messo all’indice dal Dipartimento di Stato USA; Paesi accomunati da crisi economiche interne e da instabilità sociali che le sanzioni americane potrebbero far ulteriormente detonare. La vera sanzione, di fatto, è l’attacco contro la valuta turca, legittimato dalla sezione 232 della legge commerciale USA. Turchia dunque in sofferenza finanziaria; e gli USA? I ritorni del regime sanzionatorio in termini finanziari hanno sicuramente la loro importanza, ma quel che più interessa sono i risvolti geopolitici. Gli americani, nel loro relativo disimpegno dal Medio Oriente e con uno strumento asimmetrico, hanno colpito un alleato riluttante con un’azione ad effetto domino sia sulla finanza europea, sia su quella iraniana e quella russa, già provate dai provvedimenti relativi al JCPOA (1) ed alla perdurante querelle ucraina. Il richiamo alla Turchia, da un lato, nel voler ammorbidire le posizioni di Erdoğan, ha inteso rammentare come il declino dell’egemonia USA è ancora di là da venire, e dall’altro ha voluto dare un ulteriore warning anche all’Iran: le proiezioni di potenza regionali non sono state date in appalto a nessuno: nulla può essere accettato o imposto, finanche si tratti dello scambio di semplici “ostaggi”. Fondamentale, in questa azione, sarà riuscire, per gli americani, a non prostrare definitivamente i Paesi sanzionati, correndo il rischio di creare pericolosi vuoti di potere, per i turchi, riuscire a discernere in tempo qual è la strada di una possibile sopravvivenza.

Gino Lanzara

(1) Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) è l'accordo raggiunto tra Iran e il gruppo dei 5+1 (Cina, France, Germany, Russia, the United Kingdom, and the United States), il 14 luglio 2015. 

domenica 2 settembre 2018

6 settembre 2007: Operazione Orchard

Nel 2007 in Italia si sentiva appena parlare di cyber.
Qualcuno si azzardava a scrivere la propria tesi cercando di illustrare il significato di termini come cyberspace, cyberdefence, cyberattack, ma senza riscuotere grande successo di pubblico. 
Eppure il resto del mondo andava avanti.
Israele colpiva una installazione nucleare in Siria con l'impiego della Air Force. 
La notte del 6 settembre almeno 4 F-16I Sufa e 4 F-15I Ra'am superarono la frontiera con la Siria diretti verso l'installazione nucleare nei pressi della città di Dir A-Zur.
Gli aeromobili effettuarono la loro missione e rientrarono tutti alla base senza che le difese antiaeree siriane si accorgessero di niente: i radar erano ciechi e le difese antiaeree non entrarono in funzione, nonostante si trattasse di sistemi russi molto avanzati (Pantsir S1).
Il successo della missione è sempre stato attribuito alla grande abilità dei piloti israeliani e al grande lavoro della guerra elettronica israeliana, eppure con il tempo é emersa la verità: la missione è riuscita grazie all'impiego di una cyber arma chiamata Suter.
Suter è un sistema informatico che attraverso dei sensori riesce a individuare la sorgente delle onde elettromagnetica, per esempio un radar, capire che tipo di emittente ha di fronte e inviare dei segnali in grado di confondere l'emittente o addirittura di infettarla con dei virus.
Suter, secondo diverse fonti, è un sistema americano sviluppato dalla BAE Systems e integrato su alcuni velivoli senza pilota.
Esistono diverse versioni di Suter, la più elementare consente di capire cosa vedono i radar avversari, la seconda versione consente di prendere il controllo della rete avversaria e controllare i sensori, la terza versione consente di prendere il controllo dei sensori e degli attuatori collegati, ovvero dei sistemi d'arma. 
Tutto ciò si ottiene "semplicemente" iniettando del codice costruito ad hoc.
Questi sistemi sono impiegati dagli US almeno dal 2006 e sono stati impiegati in Iraq, Siria ed Afghanistan.
Che Israele abbia utilizzato Suter o qualcosa di simile creato dai suoi laboratori poco importa, ciò che è interessante notare è che molto probabilmente da almeno dieci anni esistono tecnologie capaci di ridurre i radar all'impotenza...


Alessandro RUGOLO


Per approfondire:
- https://www.strategypage.com/htmw/htecm/articles/20071006.aspx
- https://theaviationist.com/2014/09/06/operation-orchard-anniversary/
- https://www.theregister.co.uk/2007/10/04/radar_hack_raid/
- https://www.theregister.co.uk/2007/10/04/radar_hack_raid/
- https://www.airforce-technology.com/features/feature1669/
- http://www.progettodreyfus.com/operazione-orchard-nucleare-siria-israele/
- https://wikileaks.org/gifiles/docs/11/1157626_re-os-china-us-ct-mil-csm-pla-generals-on-cyberwarfare-.html

Vostok-2018: 11 settembre 2018

No, non si tratta di un racconto di fantascienza, come qualcuno avrà pensato leggendo il titolo!

Vostok-2018, anche conosciuta come East-2018, sarà la più grande esercitazione militare Russa dai tempi di Zapad (1981). 
300.000 uomini, 1000 aerei e 900 carri armati, unità navali delle flotte del Pacifico e del nord e per la prima volta delle unità cinesi, lavoreranno assieme lungo la frontiera ad est. Assieme ai due Big, anche la Mongolia parteciperà all'esercitazione.
Ma è il caso di dire che questa volta l'importanza dell'esercitazione non va vista nelle dimensioni, impensabili per noi, ne tanto meno nella tipologia di armamenti impiegati, quanto piuttosto nella novità strategica: Russia e Cina si esercitano assieme, come Alleati!
E questo cambia radicalmente le cose. 
L'esercitazione Vostok 2018 non è la prima della serie. Nel 2014 sono stati dispiegare forze per 100.000 uomini, 1.500 carri armati e 70 navi, ma allora la Cina non era tra gli amici.
Secondo alcuni osservatori stranieri la Cina è interessata ad osservare come si sono evolute le tecniche di guerra dato che le Forze Armate cinesi non entrano in guerra dal 1979 contro il Vietnam, mentre la Russia è coinvolta in Siria.
Ma a ben guardare, Russia e Cina già dall'anno scorso hanno cominciato a effettuare esercitazioni missilistiche difensive congiunte.
La tensione US vs RUSSIA & CINA sembra dunque destinata ad aumentare.

Alessandro RUGOLO


Per approfondire:
- https://www.nytimes.com/2018/08/28/world/europe/russia-military-drills.html;
- https://nationalinterest.org/blog/buzz/russia%E2%80%99s-massive-vostok-military-exercise-was-intended-prepare-war-china-so-what-happened;
- https://www.japantimes.co.jp/opinion/2018/09/02/editorials/arms-russian-exercises/;
- https://www.thehindu.com/news/international/russia-china-set-to-launch-joint-military-exercises/article24822709.ece;