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sabato 31 dicembre 2016

Tamerlano, di Harold Lamb

"Erein mor nigen bui", il sentiero d'un uomo è uno solo!
In questo libro è raccontato il sentiero di Tamerlano, ultimo dei grandi conquistatori.

Tamerlano nacque intorno al 1335 a Shahr-e Sabz (Città Verde), attualmente nell'Uzbekistan, nei pressi del grande fiume Amu Darya, a sud di Samarcanda.
"La sua abitazione era una casa di legno e di argilla cruda, con un recinto in muratura che chiudeva un cortile e un giardino."
Ma nonostante avesse una casa, passò quasi l'intera sua vita come facevano tutti i nomadi, a cavallo e sotto una tenda.
Il padre di Tamerlano, Tagarai, uomo mite, era il capo tribù dei Tatari Barlas, una tribù di guerrieri: "essi erano tatari, uomini di alta statura, di ossatura grossa e prominente. Barbuti, bruciati dal sole, camminavano - quando proprio era necessario andare a piedi - dondolando la persona e senza mai voltarsi per nessuno, a meno che si trattasse di un tataro più ragguardevole di loro."
  Il nome Tamerlano è la trasposizione fonetica di Timur-i-lang ovvero Timur lo zoppo, infermità contratta a seguito di una delle numerose battaglie cui prese parte. 
Naturalmente gli amici e i sudditi si guardavano bene dal chiamarlo così, il loro re era per loro Amir Timur Garigan, il Signore Timur, lo Splendido.0
Timur passava il tempo coi ragazzi della sua età mettendosi in mostra sin da subito per la serietà e la maestria nell'andare a cavallo e nell'uso delle armi: arco e spada.
Un giorno gli giunse la notizia che il "creatore di re" lo cercava. 
Fedele al richiamo del suo signore, Kazgan, sistemò gli affari di famiglia e partì alla volta di Sali Sarai, una zona nei pressi del fiume Amu Darya in cui i tatari, "signori, giovani di nobile schiatta e guerrieri", erano accampati.
Fu li che si fece notare. Un giorno Kazgan incaricò Timur di recuperare dei cavalli rubati da un gruppo di predoni. 
Timur si comportò bene e riportò il bottino al suo signore che da allora gli si affezionò.
Timur divenne ben presto un "bahatur", uno degli eroi leggendari dei clan tatari, coloro che andavano alla battaglia come ad una festa. Sedeva tra loro e partecipava alle battaglie. 
Era un capo nato, vigoroso, instancabile, amava comandare e possedeva una virtù che non tutti i capi possiedono: in qualunque situazione si trovasse restava sempre calmo e riflessivo.
Il tempo passava e Timur prese moglie, Aljai Khatun Agha.
La sua importanza cresceva anche a corte e Kazgan lo nominò "ming-bashi", comandante di mille uomini e lo mise a capo della avanguardia del suo esercito.
Poco tempo dopo Kazgan, con l'aiuto di Timur e dei suoi guerrieri, conquisto Herat e catturò il signore della città. Da ciò nacquero dei dissidi interni e Kazgan fu ucciso da alcuni suoi sottoposti.
Timur, appena venne informato, prese ad inseguirli e non si fermo di fronte a niente fino a che non li ebbe raggiunti e uccisi.
Alla morte di Kazgan seguì un periodo di caos.
Il figlio non riuscì a prendere le redini del comando a Samarcanda. I Clan iniziarono una lotta senza tregua, "solo chi sa brandire una spada può impugnare uno scettro" era infatti il motto dei tatari. 
Due capi clan su tutti si contendevano il potere: Hadji Barlas, zio di Timur, e Bayazid Jalair.
Nel bel mezzo del chaos lasciato dalla morte di Kazgan, il Gran Khan del nord , sovrano dei Mongoli Jat, decise di scendere nel sud a riaffermare il suo dominio sui territori da tanto tempo perduti.
Timur, anche in quella occasione si mantenne calmo, al contrario degli altri capi tribù che sembravano impazziti dalla paura. 
Decise di restare nella sua casa della Città Verde e attendere.
Quando le avanguardie nemiche arrivarono di fronte alla sua casa, lui accolse il comandante degli esploratori e offrì a lui e ai suoi uomini un sontuoso banchetto. L'Ufficiale, obbligato dal vincolo dell'ospitalità, impedì agli uomini di far man bassa dei beni di Timur ma chiese in cambio dei doni di grande valore. Timur lo accontentò ed espresse la volontà di andare incontro al gran Khan del nord per fargli omaggio.
Il gran Khan, Tugluk, si trovava accampato con la sua corte nei pressi di Samarcanda, li lo raggiunse Timur con tutti  i suoi averi e quelli del suo clan.
Giunto di fronte al gran Khan, smontò da cavallo e gli rese omaggio: "Padre mio, mio khan, signore dell'ordu, io sono Timur, capo tribù dei Barlas della Città Verde". Poi gli donò tutto ciò che possedeva, aggiungendo che il dono sarebbe stato molto più grande se alcuni degli Ufficiali che l'avevano accompagnato non lo avessero depredato.
Timur così conquistò il khan Tugluk e da lui, prima che partisse nuovamente verso il nord per sedare delle rivolte che in sua assenza erano scoppiate, fu nominato "tuman-bashi" cioè comandante di diecimila uomini. 
Timur era stato l'unico a non fuggire di fronte al gran khan del nord, certo, non aveva potuto combattere, non ne aveva la forza, ma aveva mostrato a tutti le sue doti di diplomatico e aveva così salvato la sua valle e la sua città dalla razzia e dalla distruzione. Aveva anche creato invidie e ciò comportò ancora una volta lotte e guerre per il potere. 
Alcuni anni dopo il gran Khan tornò al sud per ripristinare l'ordine. Timur fu investito del titolo di principe di Samarcanda ma Tugluk lasciò sul territorio il figlio Ilias e il generale Bikijuk con il compito di sorvegliare il regno.
Questi mongoli erano dei predoni e lo dimostrarono.
 Timur protestò verso il suo sovrano per il comportamento del figlio e del generale ma non ottenne niente così si ribellò e dopo le prime schermaglie, dichiarato fuori legge, dovette scappare nel deserto. 
Dalla fuga nel deserto ha inizio la fortuna di Timur, sarà nelle difficoltà che emergeranno tutte le sue doti di guerriero, stratega e conquistatore.
Il libro continua nel racconto della vita del grande conquistatore, di colui che a ragione, poteva essere definito il degno erede di Gengis Khan.
Fino alla fine, nel 1405, all'età di circa settant'anni, quando lo fermò una malattia nel rigido inverno che lo vedeva in marcia verso il Catai, alla testa del suo enorme esercito. 
Aveva conquistato tutto. Aveva combattuto sempre in testa ai suoi uomini e dove era passato aveva sempre ottenuto strepitose vittorie.
I suoi uomini lo amavano, il suo popolo lo rispettava e lo temeva.
Di fronte ad un nemico che si arrendeva era capace di atti di giusta prodigalità, di fronte ad un alleato che lo tradiva innalzava piramidi di teste, staccate dal collo.
La giustizia nel regno era esercitata con fermezza e correttezza. 
I suoi ministri, se ottemperavano al loro dovere, venivano premiati, se sbagliavano o si comportavano scorrettamente col popolo, venivano decollati!
Timur, fu l'ultimo dei grandi conquistatori, ma fu anche un grande costruttore. Samarcanda, sotto di lui, divenne la più grande capitale del mondo, ospitando circa due milioni di persone, di tutte le razze e religioni.
Ovunque andasse osservava tutto e al suo rientro in patria faceva innalzare le opere che aveva ammirato nelle città conquistate. 
Il suo regno poteva essere percorso in lungo e in largo senza pericolo. 
Lungo le strade principali stazioni di posta consentivano ai viaggiatori di sostare e cambiare i cavalli, e ai corrieri di Timur, di viaggiare senza interruzione per portare notizie al loro signore.
Purtroppo, come molti dei suoi predecessori, dopo aver conquistato tutto, se ne andò lasciando il regno, in parte, nel caos, non essendo presente un altro Timur capace di mantenere il potere.
Timur fu un grande conquistatore, in occidente per lo più sconosciuto, nonostante a lui si debba, probabilmente, la salvezza dell'Europa che altrimenti sarebbe caduta sotto l'Impero Ottomano!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 18 dicembre 2016

Nelson, di Arrigo Fugassa

Una bella copertina non significa un bel libro, e viceversa.
Il libro che ho appena terminato di leggere ha una brutta copertina ma è un bel libro.
L'autore, Arrigo Fugassa, nacque ad Alassio, in Liguria, nel 1896.
Visse e operò in Liguria, dove oltre a scrivere per diversi giornali, fu insegnante e poi preside presso l'istituto magistrale di Livorno. Morì nel 1940, a causa di un incidente stradale, un filobus impazzito lo investì.
Fugassa apparteneva ad una famiglia di marinai, armatori e capitani di mare passata poi al commercio e le sue origini influenzarono il suo stile e gli argomenti toccati che in qualche modo erano sempre legati alla tradizione marinaresca.
Nel 1931 pubblicò la biografia di Nelson.
Non poteva scegliere argomento migliore. Nelson aveva infatti tutte le caratteristiche del personaggio ideale per esaltare le virtù del patriota (anche se inglese!).
Il libro è scritto con uno stile particolare, direi che lo si potrebbe dire tipico del periodo fascista, per quello che io penso. Le frasi sono costruite in modo particolare, e le prime pagine mi hanno dato qualche problema (ma poi ci si abitua).
Comunque, come ogni biografia, è il personaggio straordinario che mi ha colpito maggiormente.
Nelson!
Di lui cosa sappiamo (noi italiani)?
Probabilmente poco o niente.
Immagino che ora, alcuni tra i lettori più curiosi stiano cercando su wikipedia una sintesi della vita, altri, forse, aspettano invece di leggere le righe successive!
Eccole dunque.
Horatio Nelson nacque il 29 settembre 1758 a Burnham Thorpe, piccolo villaggio  sulla costa orientale dell'Inghilterra, morì nel 1805 nella battaglia di Capo Trafalgar, nei pressi dello stretto di Gibilterra.
Fugassa ci dice come Nelson iniziò la sua carriera, ne riporto una parte per farvi capire anche come è scritto il libro:
"A dodici anni Orazio Nelson era in mare.
Non idealizziamo però, come piace ai redattori delle biografie romanzate oggi in tanta voga; non cerchiamo di scorgere in questo primo passo del futuro ammiraglio l'impeto rivelatore della grande, irresistibile vocazione.
Già in tutto l'epistolario di Nelson, noi cercheremmo invano gli inni al mare e alla vita del marinaio; gli accenni in proposito sono oltremodo sobri e rapidi, nè si gonfiano mai di vaniloquente entusiasmo, finchè da ultimo le lettere esprimono il desiderio sempre più inquieto di farla finita coi bastimenti e le navigazioni: desiderio aduggiato, come vedremo, dall'ombra malaugurosa d'un funesto presentimento, destinato alfine a cangiarsi in realtà.
Il ragazzo andò in mare per una ragione più semplice, più modesta, meno romantica e che gli fa tuttavia molto onore: per liberare suo padre dal carico di mantenerlo."
Ecco, dunque, il piccolo Nelson che si imbarca grazie allo zio Maurice Suckling, come midshipmen, ovvero come cadetto.
Parte così la sua avventura per mare, alla volta delle "Indie Occidentali".
Negli anni successivi partecipa ad una spedizione nel mar artico, prende parte alla guerra per l'indipendenza americana e quindi si ritrova comandante dell'Agamennon, a combattere contro la Francia repubblicana. Occorre ricordare infatti che la fine del '700 vide il mondo scuotersi a causa delle lotte per l'indipendenza dall'Europa degli Stati Uniti d'America e per la ricerca di un nuovo ordine, diverso da quello delle grandi monarchie. In Italia, dopo la Francia, il Regno di Napoli era scosso da fremiti repubblicani. Contemporaneamente il futuro Imperatore, Napoleone, muoveva i suoi primi passi. Nelson combatteva nel Mediterraneo, in Corsica, nel mare ligure, nel mar di Sardegna, instancabile. Nel corso di un bombardamento era stato ferito ad un occhio e perse la vista, ma ciò non gli impedì di andare avanti.
Dal 1795 il comandante in capo delle forze navali nel Mediterraneo è l'Ammiraglio John Jervis. Nelson ebbe molto da imparare e quando toccò a lui applicò senza indugio quanto visto.
Principalmente Jervis era un fautore della disciplina, dell'ordine, della pulizia e dell'addestramento continuo. Sotto le sue cure, la flotta raggiunse un livello di efficienza mai visto prima.
La marina britannica era in quegli anni la più potente al mondo, ma le guerre continue e i lunghi periodi passati lontano dalle famiglie e le paghe ferme da cento cinquant'anni creavano malcontento e rivolte. Ma non sotto Nelson, con lui non ci fu insubordinazione.
Diceva: "Io posso vantarmi d'aver fatto il mio dovere altrettanto bene dei miei colleghi, e d'averlo fatto senza perdere l'affetto di quelli che servivano sotto i miei ordini". Ed in effetti i suoi uomini non lo videro mai se non in prima fila, dove il pericolo era maggiore, ad incitare e trainare alla vittoria.
Dice l'autore: "Lo amavano per questo, i suoi uomini, e per il suo voler vedere, sapere, ascoltare ogni cosa,e d'ogni cosa, prima o poi, tener conto, con largo senso del giusto e del conveniente. E i successi di lui si spiegano o si chiariscono attraverso questo affetto che gli faceva come un alone sul quale egli puntava nelle ore decisive, come su una forza vera e propria a disposizione sua. Un uomo meno amato, in taluno dei frangenti a cui venne a trovarsi, non sarebbe riuscito al pari di lui. Questa non era fortuna, ma volontà. Era il suo stile di comando, uno degli elementi della sua grandezza."
Potrei continuare a lungo raccontandovi le sue imprese nel Mediterraneo, a Napoli e in Sicilia, contro la Francia repubblicana, fino a giungere alla battaglia per cui, forse, è più noto: quella di Capo Trafalgar, che lo consacrò eroe immortale e decretò la fine della marina francese. 
Non lo faccio appositamente, perchè credo che quanto ho  già detto sia più che sufficiente per spingere i curiosi a leggere la biografia di Nelson e riscoprire così, anche un autore come il Fugassa.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO