mercoledì 29 febbraio 2012

Considerazioni sull'Enciclica CARITAS IN VERITATE di Benedetto XVI

“IO HO IDEE DIVERSE DALLE TUE.
MA FARO’ DI TUTTO PERCHE’ TU POSSA, SEMPRE, ESPRIMERLE LIBERAMENTE”.

Colgo l’occasione di una veloce lettura dell’ultima enciclica del Papa cattolico per alcune considerazioni su religione, dio e uomini.
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Non vi e’ dubbio che portare speranza dove non ve n’e’ e’ meritorio e condivisibile. Come non vi e’ dubbio che portare come esempio una donna di due secoli fa che, non avendo conosciuto altro che dolore, si affida al primo appiglio di vita normale che le si presenta davanti (la fede cristiana, ma anche la benevolenza del suo “padrone”) e’, quantomento, fuorviante.
Pensiamo davvero che se in una analoga situazione invece della fede in un dio le si fosse offerta la scelta di diventare semplicemente una donna libera e percio’ libera di scegliere un qualunque lavoro, non avrebbe trovato la “speranza” in quella scelta di vita?
E pensiamo veramente che ella non volle tornare in Sudan per non separarsi dal suo nuovo dio o magari non voleva, semplicemente, tornare alla vita, terribile, che conosceva gia’?
E che dire della visione diocentrica dell’universo?
Innanzitutto continuare a credere in un essere supremo da cui discenderebbe il “tutto” e’ paradossale.
Ma anche ammettendo che ci sia, o ci sia stato, un “creatore” un super-essere (o per quanto ne sappiamo, una super-cosa) responsabile di una creazione “consapevole” dell’universo, puo’ qualcuno spiegarmi perche’ dovremmo adorare questa entita creatrice?
Perche’, in definitiva, dobbiamo aver bisogno di qualcuno a cui demandare la responsabilita’ di passato, presente e futuro?
Ovviamente, si argomentera’, all’uomo e’ stato dato il libero arbitrio. Egli puo’ decidere per se stesso.
Ovviamente se decide contro la, presunta, volonta’ del supremo essere ne paghera’ le conseguenze.
E le paghera’ nella vita ultraterrena.
A questo punto c’e’ da fare una considerazione sull’idea della morte propria del cristianesimo.
In effetti la vita del vero cristiano non e’ altro che un’attesa della morte in quanto promessa di vita eterna nella luce di dio.
Ma ecco il punto. Dobbiamo necessariamente morire?
Verrebbe da rispondere, andiamo ma che razza di domanda e’ mai questa?
Ma questa E’ LA DOMANDA. Tutte le religoni monoteiste piu’ diffuse basano gran parte della loro forza sulla promessa-garanzia di benefici e punizioni (ovviamente eterne) da fruire nella “vita dopo la morte”.
Ma in fin dei conti l’uomo e’ mortale (o se si preferisce, non-immortale) perche’ e “ignorante”.
Nel senso che, ancora, ignora il modo, il sitema, il trucco per sconfiggere la morte. O perlomeno le morti derivanti da vecchiaia e malattia.
Ma, io dico, siamo sul giusto sentiero (genetica ed ingegneria chirurgica ne sono due esempi) per raggiungere, se non la totale immortalita’, una longevita’ assoluta e soprattutto in sanita’ fisica e mentale.
Ed a quel punto i fondamenti delle religioni verrebbero meno.
A chi promettere la ricompensa/punizione ultraterrena se l’uomo non conosce piu’ il deperimento fisico ed in ultima analisi, la morte?
Quali armi di seduzione di massa useranno a quel punto le religioni per mantenere la loro, anacronistica, presa sulle menti umane?
Ovviamente la propensione dell’uomo verso il mistico ed il trascendente non si esaurira’ con il raggiungimento della “fine della morte”.
Potrebbe anzi essere sublimata dal fatto che gli uomini potrebbero sentirsi semidei.
Ma, in fondo, tutto il discorso sull’immortalita’ e’ pura accademia.
E’, pero’, funzionale a dimostrare che l’assunto su cui si radica la forza delle religioni e’ esso stesso pura accademia.
La fede, la speranza in un futuro di redenzione, in funzione del quale sacrificare il presente ai dettami di un dio che molto pretende e che molto promette, non e’ altro che l’annichilimento dell’essere umano-presente nella speranza che le promesse divine siano veritiere e quindi mantenute.
Il voler dimostrare l’esistenza della fede portando ad esempio la vita dei santi del passato, vista come auto-spoliazione delle ricchezze terrene per dedicarsi alla poverta’ ed alla divulgazione della parola di dio non puo’ rendere l’idea di cio’ che in realta’ questi uomini del passato hanno significato.
Consideriamo per un istante la condizione di vita ai tempi, ad esempio, di Francesco di Assisi. A meno di essere un regnante la condizione del 99% della popolazione dell’epoca era molto vicina, se non assolutamente dentro, la condizione di poverta’.
Certo Francesco era di famiglia ricca, ma in tempi in cui la durezza della vita (e Francesco ne fu testimone diretto in quanto prigioniero di guerra) e la (scarsa) conoscenza del mondo rendevano la mente umana molto predisposta verso il divino, il trascendentale ed in definitiva la superstizione.
Da ciò ne deriva che non si puo’ rapportare al presente e tentare di spiegare la fede ai contemporanei, adducendo esempi di uomini di piu’ di mille anni fa’.
Allora era piu’ facile, in molti casi conveniente, abbandonare la vita secolare per quella spirituale.


Un punto che mi trova assolutamente d’accordo e dove si cita Bernardo di Chiaravalle: “il genere umano vive grazie a pochi. Se non ci fossero quelli il mondo perirebbe”.
E che dire della frase: “...nessuna positiva strutturazione del mondo può riuscire là dove le anime inselvatichiscono”?
In realta’ ben fa’ il Papa a richiamare all’ordine i cristiani. La cosiddetta civilta’ moderna (non solo quella occidentale, oramai) si fonda sempre meno sulla spiritualita’ (ammesso che lo abbia mai fatto) e sempre piu’ sull’apparenza, sul possesso, sul dominio dell’uomo sul suo simile sia in via fisica che morale.
Dove egli erra e’ nel non comprendere che anche le Scienze Umanistiche vanno nella stessa direzione che lui intende ri-mostrare al suo popolo.
In realta’ la Santa Sede e gli Umanisti sono alleati nello sforzo, nella lotta per garantire al genere umano una esistenza che non sia solo confinata al meccanismio pimigenio “mangia-riproduciti-soddisfa i tuoi bisogni-muori”.
Lo studio delle Scienze puo’ avvicinare l’uomo alla spiritualita’ allo stesso modo di una religione.
Comprendere, non solo per fede, che l’essere umano e’ parte di un vasto disegno (sia esso intenzionale per opera di un essere superiore oppure no e’, a questo punto, irrilevante) e’ sostanziale e necessario per elevarsi al di sopra della palude formata da luoghi comuni, convenzioni e vite standardizzate che contraddistinguono la stragrande maggioranza del genere umano.
E’ inoltre errato credere, come afferma il papa, che la scienza allontani dalla spiritualita’.
L’esempio piu’ lampante ci viene da un piccolo scienziato di nome Albert Einstein.

Ed infine prendiamo in considerazione un’ulteriore, e direi definitiva, “falla” nella planetaria balla di dio e delle religioni.
Vi siete mai chiesti che religione professereste se foste nati a Teheran da una famiglia sciita, o nella ortodossa Salonicco da una famiglia greca, invece che a Roma da una famiglia cattolica?
Non e’ dio ad aver creato l’uomo.
E’ vero l’esatto contrario. Gli uomini, a seconda delle loro culture, hanno creato le loro divinita’ a propria immagine e somiglianza.
L’appartenenza ad una qualunque religione e’ come l’appartenenza ad una tribu’ o ad una tifoseria calcistica.
E non si pensi che le varie etnie umane , in fondo, credono tutte nello stesso dio, adattandolo pero’ alle loro culture.
Gli uomini hanno, per un motivo che (devo ammetterlo) tuttora non comprendo, un disperato bisogno di sapere che c’e’ “qualcuno” che regola le loro vite e che ci sara’ una qualche ricompensa dopo la fine della vita.
Non accetta, il genere umano, se non in rari casi, che la morte altro non e’ se non una (per ora...) inevitabile tappa dell’esistenza.
Senza tenere nel conto dei cosiddetti credenti quelli, la maggioranza in fin dei conti, che si professano tali solo per convenzione, convenienza ed in ultima analisi, conformismo.

Mauro CASCIOLI

domenica 19 febbraio 2012

Lezioni spirituali per giovani samurai (di Yukio Mishima)


Un libro strano... ai miei occhi di occidentale!

Forse semplicemente un libro strano in quanto non avevo mai letto niente scritto da un Giapponese, eppure...

Yukio Mishima è morto, non oggi, sia chiaro, ma il 25 novembre 1970... suicida!
Perché, vi chiederete? 
Per la Patria, diremo noi... per il Giappone, disse lui!

Le sue ultime parole, prima del suicidio rituale, furono:

"Noi ora testimonieremo a tutti voi l'esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà, non è la democrazia. E' il Giappone. Il Paese della nostra amata storia, delle nostre tradizioni: il Giappone. Non c'è nessuno tra voi disposto a morire per scagliarsi contro la Costituzione che ha disossato la nostra patria? Se esiste, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso questa azione nell'ardente speranza che voi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate ritornare ad essere veri uomini, veri guerrieri."

Ecco, ecco le ultime parole di un uomo, un intellettuale, un patriota... 

Potrete chiedervi perché abbia scritto queste poche righe, senza scrivere una sola riga sul libro... la risposta è la solita, perché il libro è tutto da leggere, se volete sapere di cosa parla... 
tutto da scoprire, pagina dopo pagina, fino alla fine...


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 12 febbraio 2012

Amore amando

Tu non trovi incredibile
Sto scrivendo versi d’amore
Dopo più di vent’anni
Tu sai che il miracolo
È stato possibile
Vivendo la stessa strada
Ardua salita talvolta
Scoscesa o in discesa
Mai piatto andare di giorni.

Tu ascolta ancora una volta
La stretta della mia mano
Fredda di inverni e di montagne
Debole di fatica e di viaggi
Ma che non ti lascia andare
Neanche un istante
Perché è libera e dolce.

Tu guarda il mio sguardo
Quando si posa sulle tue forme
Quando ride del tuo riso
E si riempie come in un mare
Delle tue lacrime più amare.
Allora sarà amore amando
Che spinge le spalle e la testa
Oltre il difficile ostacolo
Che si para davanti.

Tu ricorda tutto il tempo
E buttalo via perché lo stesso
Sarà domani farsi presente
E continuare vivendo
Non stretti o vicini
L’uno all’altra perché
Non ce n’è bisogno.
è bisogno.
osa sola.tempo
a
lia.i
endo
agli
Noi siamo una cosa sola.

Giuseppe Marchi

sabato 11 febbraio 2012

A mio zio Umberto...

Voglio ricordarti così, zio...
Con il sorriso sulle labbra,
anche se la malattia ti lasciava poco spazio per sorridere.

Voglio ricordarti così, zio...
come quando ci portavi al mare,
ed in macchina ascoltavamo Celentano.

Voglio ricordarti così, zio...
soddisfatto per la tua famiglia,
che ti amerà per sempre.

Voglio ricordarti così, zio...
come quando rientravi tardi a casa
e nonna Cenza lì ad aspettarti.

Voglio ricordarti così, zio...
con un fumetto di Tex Willer in mano
e tante idee in testa.

Voglio ricordarti così, zio...
andando al monte in trattore
a festeggiare San Mauro con gli amici.

Voglio ricordarti,
e ti ricorderò sempre...
grazie per tutto, zio...

Tuo nipote Alessandro

Mio fratello



Sulle punte più alte
Quando muove gli alberi
Al profilo disegnato della strada
Il vento è mio fratello

Nel vicolo che ingoia la via
Quando è solo la riga bianca
A illuminare la notte
Il buio è mio fratello

Le strie lucide delle lacrime
Il sangue fermo in mezzo al cuore
Senza cammino da scegliere
Il dolore è mio fratello

Apro l’ombrello sotto questa pioggia
Ma sono lapilli e lava
Un ombra nera proietta l’anima
Il cielo è mio fratello

Davanti casa mia da quarant’anni
Saluto lo stesso bambino che adesso
E’ l’uomo che posso chiamare di notte
Se crolla la casa o brucia la strada
Quell’amico è mio fratello.


Giuseppe Marchi

venerdì 10 febbraio 2012

Dal "Catalogo delle lingue conosciute e notizia della loro affinità e diversità... " un testo sul Giudice Barisone

Ecco un interessante testo, catalogato come "Linguaggio Sardo dell'anno 1182", tratto dal libro "Catalogo delle lingue conosciute e notizia della loro affinità, e diversità" scritto dall'Abate Don Lorenzo Hervas e pubblicato nel 1784.

E' un atto del Giudice d'Arborea Barisone...

Ego Judice Barasune podestando totu Logu d'Arbarae simul cum Mugere mia Donna Algaburga Regina de Logu, & Archiepiscopu Comita de Lacon, & d'essos Piscobos meos... & totus fideles meos, & Clerigos, & Laigos de Logu d'Arbarae cum Curiae consiliu, & cum mia boluntate fago guista carta a Sanctu Nigola... pro causa de regnu inne pargent sas domos, & isas domestigas, & ipsas binias, et issos saltos... pradus de Cavallos ca causa de regnu las castigent... cherant piscare... et d'essa piscadura d'essus a rius de Kirras, como au cat aver dane, como innanti... de Curadores, & de homines bonos sanctos, d'essa terras mea & c.

Il significato credo sia:

Io Giudice Barisone, regnando su tutte le terre d'Arborea assieme a mia moglie Donna Algaburga regina delle terre d'Arborea, e all'arcivescovo Comita di Lacon e dei miei vescovi e tutti i miei fedeli e clerici e laici della terra d'Arborea dietro consiglio della Curia e di mia volontà emetto questo documento a favore di San Nicola...

del restante testo non riesco a capire il senso generale, forse manca qualche parte o più semplicemente sono io che devo studiarlo meglio!

Un saluto e a presto,

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 2 febbraio 2012

LA BABELE AFGHANA

Parlando con il collega e amico Rugolo della babele linguistica dell’Afghanistan, mi è stato rivolto l’invito a scrivere due righe senza pretesa, invito che raccolgo volentieri.
Jaish-e-Italia o Armii-e-Italio? 
Queste frasi apparentemente dissimili sono il nostro punto di partenza. Vogliono dire la stessa cosa, ossia Esercito Italiano, ma una è in arabo e l’altra in persiano. Il cittadino italiano generico medio fa fatica a capire che c’è una differenza tra i due popoli, differenza complicata dal fatto che viene usato lo stesso alfabeto per scrivere (e da destra a sinistra), ma questa differenza è cruciale: se si scrive sulla fiancata dei mezzi una frase in arabo, essa andrà bene in Iraq e in Libano, ma è estremamente scorretta in Afghanistan e, a parer mio, offensiva.
Ma quali e quante lingue si parlano in Afghanistan? 
Una risposta scientifica non potrà mai essere data, perché la varietà di lingue, dialetti e cadenze è pari solo al sub-continente indiano.  Tuttavia un modo per fare chiarezza c’è e si basa sull’antropologia e sulla storia.
Fughiamo subito il dubbio del nostro cittadino: la maggior parte degli afghani è indoeuropea e non araba. Si, proprio gli stessi indoeuropei che popolano la gran parte dell’Europa (il cittadino italiano più accorto si sarebbe dovuto accorgere della somiglianza di Armii con Armata, Armija, Army etc) .
In effetti, una tesi ardita di Felice Vinci (Omero nel Baltico) ipotizza un’antica migrazione dei Baltici fino al Mediterraneo (da cui la civiltà achea ed il mito di Troia), Sarmazia, Scizia e Battriana, citando popoli alti e biondi dagli occhi azzurri che compaiono improvvisamente in Asia centrale e i cui fonemi ancora resistono nelle culture indiane, ma questo affascinante campo di ricerca esula dai nostri scopi.
Dunque chi popola oggi l’Afghanistan? 
Le statistiche (ah, le scienze esatte!) ci dicono:
-          42%       Pashtun
-          27%       Tagiki
-          9%         Hazara
-          9%         Uzbeki
-          13%       altri gruppi.
I Pashtun erano antichi principi indù (si, proprio così!) di stirpe indoeuropea, alla conversione all’Islam diventano in parte nomadi e popolano a macchia di leopardo  la nazione. Parlano una lingua iranica, che si scrive in maniera simile al Dari, cioè con l’alfabeto arabo (e 4 consonanti in più), ma dalla quale si differenzia sostanzialmente nella pronuncia. E’ parlata principalmente nel sud del paese e nelle aree di confine del Pakistan. Ecco perché qualcuno parla di Pashtun-istan ad indicare le regioni etnicamente Pashtun. Il Pashtu è la madrelingua per il 35% della popolazione afghana.
I Tagiki sono gli eredi della tradizione persiana sassanide, che ha istituito le odierne basi e regole grammaticali del persiano e si identificano con quella cultura/retaggio storico (non con la politica o i dogmi religiosi, essendo i tagiki per la maggior parte sunniti a differenza degli iraniani sciiti). Il Farsi ed il Dari, volendo approssimare, sono nient’altro che la lingua persiana chiamata in maniera diversa per opportunità politiche o pratiche. Il Dari (o Afghan Persian, o Eastern Farsi) è la lingua commerciale dell’Aghanistan (amministrativa, dei contratti, delle scritture contabili etc), si scrive con l’alfabeto arabo e possiede 12 consonanti in più rispetto a quella lingua (ricchezze e sfarzi del passato di Herat, capitale dell’impero timuride!). Il 50% della popolazione parla Farsi/Dari.
Gli Hàzara, che vivono nel centro del Paese, scontano l’odio delle altre etnie per essersi fusi coi mongoli invasori.  Essi erano contadini buddisti (i Buddah di Bamyan) prima dell’invasione di C’inghiz-chan (Gengis Khan) del 12°secolo. L’Hazaragi è una lingua farsi, mutuata dalla pronuncia mongolide e ristrutturata sulla grammatica turca (indoeuropeo e polisillabiche ural-altaiche agglutinanti, per chi volesse dilettarsi…).  Sono sciiti tutelati dall’attuale governo iraniano.
Gli Uzbeki, che vivono nel nord, sono i discendenti dei conquistatori turchi. L’uzbeko, ceppo etnico altaico, ha modificato la propria lingua sulla base turca, ed è oggi affine ai popoli turcomanni (turco, azero, turcomanno, etc). Viene parlato dall’11% della popolazione afghana principalmente nel nord. Curiosamente, durante l’epoca sovietica, veniva scritto con l’alfabeto cirillico (eccezioni incredibili che solo in Asia succedono!).
Si vede bene che le percentuali etniche non coincidono con quelle delle lingue parlate. La spiegazione è che alcune frange  di popolazione, per esempio etnicamente pashtun, si esprime in un'altra lingua, per esempio Dari.
Mi fermo qui, come si vede la torre di Babele è una leggenda con un fondamento di realtà! 
Questi incroci di popolazioni e di lingue, queste fusioni di culture diverse e questi ibridi estremamente particolari mi evocano sempre scenari affascinanti e storie incredibili.
In fondo l’Asia è anche questo.
Khoda Hafiz (arrivederci).    

Livio CIANCARELLA