la mia lontananza da queste pagine vi avrà forse fatto pensare di esservi finalmente liberati di me, ma aihmè, non è così!
In questi tempi mi sono dedicato come non mai alla ricerca e nel corso dei miei approfondimenti storici mi sono imbattuto in un autore antico fenicio chiamato Moco o Mosco o simili nomi. Approfondendo le mie conoscenze su questo autore, che sembra sia esistito ed abbia operato prima della guerra di Troia, mi sono imbattuto sempre per caso in un articolo pubblicato sulla Revue des deux mondes su un'opera di Filone di Biblo, la supposta traduzione in greco della storia della fenicia. In questo articolo del 1836 si parla delle colonne dell'ercole fenicio, Mélicerte in Francese, ovvero Melqart.
Nell'articolo, che ho appena terminato di tradurre dal francese (che per il poco tempo a disposizione non è certo ben fatta), si parla anche delle colonne d'Ercole e di un viaggio compiuto da Mélicerte nel Mediterraneo, viaggio che lo ha portato a toccare varie isole e ad arrivare fino a Tartesso. Nell'articolo si parla inoltre delle colonie e fondazioni dei fenici e con sorpresa ho notato che la Sardegna, citata con un altro nome (Gadyla) aveva una sola piccola città fondata dai fenici, posta tra la Sardegna e la Corsica. Tale città non è nominata ma credo si tratti di Porto Torres in quanto già in altri testi ho visto che la fondazione dei Porto Torres è fatta risalire al 1700 a.C. circa e che vi si trovava, nei pressi, un altare dedicato ad Ercole.
Ammesso e non concesso che ciò che si racconta sia vero e non un falso come da alcuni sospettato, cosa può significare la quasi totale mancanza di informazioni sulle città della Sardegna di supposta origine fenicia?
Vi sono dubbi sulla autenticità di questo testo e esistono dubbi anche sulla reale esistenza di Filone di Biblo ma, se il documento di cui parla la Revue des deux mondes è reale e se Filone ha effettivamente tradotto la storia della fenicia secondo Sanchuniathon, allora sembra che i fenici non siano arrivati in Sardegna in tempi molto antichi, forse sono stati solo i Cartaginesi a cercare di stabilirvi dei porti (ad eccezione di Porto Torres)!
Credo che la cosa meriti maggior attenzione per cui vi invito tutti a leggere con attenzione il testo che segue e lasciare i vostri commenti.
Perdonate la traduzione veloce, mi rendo conto che in certi punti lascia un po a desiderare ma ho preferito dare a tutti la possibilità di approfondire, io mi dedicherò a fare lo stesso e a migliorare la traduzione con calma questa estate.
Ho trovato anche un altro riferimento alla questione in una rivista italiana del 1836 (Ricoglitore italiano e straniero), ma ancora non l'ho letto completamente per cui per ora non ne parlo.
Vi lascio dunque a questa interessantissima lettura sull'origine dei fenici, buona lettura.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
Sulla
scoperta d'un manoscritto contenente la traduzione di Sanchuniathon,
di Filone di Biblos.
(Revue des
deux mondes. Sept. 1836, tomo 7, pag. 543-564)
“Se la storia antica,
disse uno storico saggio1
ha subito una perdita sensibile ed in nessun modo recuperabile, è
soprattutto a causa della scomparse degli scritti che trattavano
della costituzione delle imprese e delle opere dei Fenici. Più
questo popolo ha influito sullo sviluppo dell'umanità per le sue
invenzioni, per aver stabilito le sue numerose colonie e per il suo
commercio immenso, tanto più si sente la mancanza che la perdita di
questi scritti ha lasciato nei fasti del genere umano.
Tuttavia, malgrado questa
assenza totale di documenti originali, il venerabile professore di
Gottingua, non avendo come soccorso che pochi dati sparsi tra la
Bibbia e gli autori greci e latini, ma guidato da quella coscienza
intima che egli ha della vita dei popoli dell'antichità, è riuscito
a farci conoscere la situazione politica, costituzione, le colonie
fenicie e le rotte che seguiva nel suo immenso commercio, tanto per
terra che per mare. Ma che talvolta (de fois) si rammaricava, nel suo
libro, di non avere sotto gli occhi le storie di Dius e di Menandro
d'Epheso2
di cui Giuseppe ci ha conservato alcuni frammenti, e soprattutto la
storia della Fenicia scritta da Sanchuniathon, di cui Eusebio, nella
sua Preparazione evangelica, ha citato dei lunghi frammenti che,
disgraziatamente, non contengono che la parte cosmogonica dell'opera.
Così egli ha dovuto apprendere con vivissima gioia, ma senza dubbio
misto con qualche incertezza, la notizia annunciata da circa sei mesi
dai giornali, che la traduzione greca di Sanchuniathon, a cura di
Filone di Biblo, era stata ritrovata in un convento portoghese. La
sua gioua e la sua incertezza, sono condivise da tutti gli amici
dell'antichità, ma lo scoraggiamento ha subito seguito la speranza
quando si è visto che questo annuncio non fu seguito da alcun altro
documento, sia sullo stato del manoscritto, sia sul contenuto, sia
sul suo futuro editore. Questo terribile silenzio è stato rotto,
infine, dalla pubblicazione di un volantino annunciato quale
precursore del testo greco di Filone, e dal titolo: “Analisi della
storia primitiva dei Fenici secondo Sanchuniathon, fatta sul
manoscritto recentemente ritrovato della traduzione completa di
Filone”; con delle osservazioni di Wagenfeld. Questo volantino
apparso presso Hahn, ad hannover, contiene inoltre un facsimile del
manoscritto e un proemio del dottor G.F. Grotefend, direttore del
Liceo di Hannover, conosciuto da lungo tempo nel mondo dei saggi per
importanti lavori coi quali si è librato sulle iscrizioni di
Persepoli e su quelle della Licia.
Cosa dobbiamo pensare di
questa pubblicazione? Dobbiamo guardarla come una mistificazione o
come un documento serio? Il nome di
Grotefend, se non se ne è abusato, come si è abusato questo inverno
del nome di Herschell, non consente ancora di vedere in
questa brochure l'opera di un falsario? La germania non è la
classica terra di questo tipo di soperchierie di cui l'Italia ha dato
così tanti funesti esempi. La buana fede, meglio, il candore
germanico, non ammette ancora una tale supposizione.
Il fac simile del manoscritto unito alla brochure, è realizzato
con una scrittura molto antica, che mostra la mano non di un greco,
ma di un uomo dell'occidente; un falsario non avrebbe scelto
preferibilmente un carattere di questo genere che avrebbe potuto
tradirlo. Dirò di più, un mistificatore il cui scopo sarebbe stato
principalmente quello di ottenere una vendita a prezzo elevato,
avrebbe cercato di comporre un libro più divertente,
avrebbe messo più episodi romanzeschi; difficilmente si inventa la
storia completa di un popolo come quello dei fenici, che, ad ogni
passo è esposto a tradirci. Ora dobbiamo convenire seguendo
l'analisi di Sanchuniathon, la semplicità e la verità della
narrazione, le sue coincidenze con la Bibbia, la molteplicità di
dettagli, la semplicità con cui i nomi propri si possono spiegare
con l'ebraico, tutto sembra annunciare una composizione originale.
Per finire, ma questo argomento lo introduco non senza qualche
forzatura, l'autore, che fissa l'esistenza di Sanchunuathon al VI
sec. A.C., non ha tralasciato di inserire nel suo libro la storia
della fondazione di Cartagine e soprattutto il racconto dell'assedio
di Tiro da parte di Nabuchodonosor, tanto che si ferma al nono
secolo, limitandosi ad indicare gli storici che hanno raccontato gli
avvenimenti posteriori. Non si può usare come argomento negativo
l'epoca tardiva della scoperta, altrimenti si dovrebbe negare
l'esistenza della Repubblica di Cicerone, delle Istituzioni di Gaio,
della Cronaca di Eusebio, delle diverse opere di Lido e così via.
Non si tratta, d'altronde, della prima menzione che si fa d'un
manoscritto di Sanchuniaton. Beck in una nota sulla Biblioteca greca
di Fabricius, afferma che esiste un frammento inedito di questo
autore presso la biblioteca Medicea a Firenze; egli aggiunge che un
terzo frammento è stato raccolto in oriente da Peiresc che lo ha
portato a Roma an padre Kircher ma che quest'utimo si rifiutò di
pubblicarlo. Infine Leon Allatius ha, se non mi inganno, detto di
aver visto con i suoi propri occhi un manoscritto di Filone di Biblo
in un monastero nei pressi di Roma.
Il solo argomento negativo che ha qualche senso è l'assenza di
qualunque informazione precisa sul manoscritto che si pretende sia
stato scoperto nella penisola spagnola. Ma se è vero, come si dice,
che questo libro proviene da un convento portoghese che fu
saccheggiato ai tempi della spedizione di don Pedro contro suo
fratello, e che è stato portato in germania da un ufficiale di
Hannover, si può capire perchè si esiti a citare i nomi propri.
Opinioni molto differenti sono già state emesse su questa scoperta.
Noi sappiamo, dall'Athenaeum del 25 luglio scorso, che il saggio
Gesenius, il più celebre di tutti gli studiosi ebrei della germania,
Gesenius, che ci promette la spiegazione prossima delle iscrizioni
fenicie rispettate dal tempo, si è pronunciato in favore
dell'autenticità del manoscritto del quale il signor Wagenfend ha
appena pubblicato l'analisi. E' anche vero che secondo lo stesso
giornale il signor Wilken, lo storico delle crociate, si è
pronunciato in senso negativo, ma qualunque sia il rispetto che
merita l'opinione del signor Wilken, in questa materia quella del
signor Gesenius dovrebbe sorpassarla.
Noi dobbiamo aggiungere che, se dobbiamo credere all'articolo
dell'Athenaeum, il signor Grotefend ha pubblicato la seguente nota
sul libro del signor Wagenfeld: “Per prevenire l'intenzione laddove
si potrebbe fare (...) di tradurre quest'opera in altre lingue, io
credo che sia mio dovere il dichiarare pubblicamente e senza perder
tempo, che dopo le informazioni raccolte fino ad ora, io sono
moralmente convinto che l'estratto di Sanchuniathon non è altro che
un ingegnoso falso. E io faccio questa dichiarazione senza attendere
alcuna ricerca che richiederebbe troppo tempo; perché, anche
supponendo che alla fine il risultato dimostrasse che questa
dichiarazione non sia fondata, la stessa sarà sufficiente sin da ora
per impegnare il signor Wagenfeld a difendere il suo onore dando
prova della sua onestà".
Ma, a primo acchitto, questa nota difficilmente può essere opera del signor Grotefend.
Come! O egli è stato crudelmente falsificato, oppure si è
slealmente abusato del suo nome ed egli si limita a qualificare
l'opera come "ingegnosa finzione"; e questa dichiarazione
per parte sua non ha altro scopo che di impedire la traduzione della
brochure in altre lingue straniere! Ma, nell'uno o nell'altro caso,
chi non avrebbe cominciato per schiacciare il falsario sotto il peso
della giusta indignazione, senza preoccuparsi se delle traduzioni in
altre lingue avrebbero potuto contribuire a propagare l'errore? Se la
nota sull' Athenaeum è del signor Grotefend, potrebbe darsi che sia
stata snaturata dal traduttore inglese, sia involontariamente, sia a
causa di un interesse personale, queste erano le riflessioni che
suggerivano all'autore di questo articolo una tale complicazione di
incidenti e di dubbi, quando ha ricevuto la lettera seguente del
signor Grotefend, al quale si era indirizzato per eliminare le
proprie incertezze. (Hannover, 18.8.1836)
___Signore,
poco tempo dopo aver raccomandato ai saggi l'analisi della
traduzione di Sanchuniathon a cura di Filone di Biblo, che si
pretende aver scoperto recentemente, mi sono convinto che l'autore di
questa analisi non è che un mistificatoree mi sono ritrovato nella
necessità di esprimere pubblicamente i miei dubbi sulla autenticità
della sua scoperta. E' vero che esistono tanti motivi a sostegno
dell'autenticità dell'opera che gli uomini più attenti possono
difficilmente trovare materia per dubitare. Ma come tutto ciò che è
apparso su questo soggetto al pubblico dal signor Wagenfeld, un
insigne mistificatore, e siccome nessuno fino ad ora ha potuto
esaminare il manoscritto, si è autorizzati a dubitare della sua
autenticità, se non del tutto, almeno su molti dettagli. Si è
d'altronde ancor più lontani dall'attendersi una simile soperchieria
da parte di un giovane uomo candidato in teologia e filosofia a
Brema, che l'amore per la verità è il tratto caratteristico dei
tedeschi. Ma purtroppo il signor Wagenfeld ha così poco amore per la
verità che mi sono visto obbligato a rompere tutte le relazioni con
lui. I dubbi che ho espresso sui giornali non avevano altro scopo che
il metterlo con le spalle al muro, al fine di arrivare almeno a
qualche certezza. Questo ha avuto come risultato di costringerlo a
trattare con la libreria Schunemann, a Brema, per la stampa
dell'originale greco. Ma disgraziatamente si dubita ugualmente
dell'autenticità di questo originale. Ed anche ammettendo che questo
testo greco abbia avuto per base un antico manoscritto non è
possibile prendere per argento sonante ciò che viene da un uomo
che, come il signor Wagenfeld, è noto che per il piacere di
imbrogliare il pubblico, non teme di far ricorso all'impostura.
Ricevete, signore, eccetera... G.F.Grotefend.
____
Si può notare, da questa lettera, che tutti i dubbi sono lontani
dall'essere sciolti, ma questo prova che il signor Grotefend è
sicuramente l'autore della prefazione che precede l'analisi in
questione e che non conoscendo i motivi poco onorevoli che hanno
spinto il signor Wagenfeld ad abusare della sua buona fede e di
quella del pubblico, egli ha creduto inizialmente alla autenticità
dell'opera. Ma che non si rimproveri frettolosamente il rispettabile
Direttore del Liceo di Hannover di aver dato credito a questo lavoro,
perchè realizzato con tanta abilità e sapere che potrebbe ingannare
l'occhio più esercitato. Come credere che un giovane uomo, che ha
appena lasciato i banchi dell'Università abbia già acquisito tanta
conoscenza al punto di far rivivere un antico popolo e una storia
coerente e probabile?
Come credere, soprattuto, che per soddisfare una fantasia così
bizzarra e inspiegabile, questo giovane uomo al suo debutto
compromette tutto il suo avvenire per esporsi per sempre al disprezzo
dei suoi concittadini?
Tutti gli altri saggi, a parte il signor Grotefend, che senza
conoscere il carattere del giovane studioso, ricevettero la
comunicazione del suo libro, si sarebbero appassionati alla scoperta
perchè, lo ripeto, niente è più verosimile di questo racconto. Noi
faremo giudicare al pubblico, ponendo sotto i suoi occhi alcuni
estratti di questa brochure, che meriterà sempre di essere
considerata come un prodotto sia curioso sia interessante, qualunque
possa essere in definitiva l'opinione a cui si giungerà sul conto
del suo autore. Noi cominceremo dalla storia mitica di Mèlicerte
ovvero Melqart, l'ercole di Tiro (Livio, II, 9-15).
Questo mito è raccontato seguendo i canti sacri che Sanchuniathon
sentì a Tiro, nella sua infanzia, e il cui senso meraviglioso
dovette fare una forte impressione sul suo spirito. L'idea alla base
di questo mito é che non ci si può elevare a divinità se non
conseguendo un grande e nobile scopo attraverso tutti i pericoli e
superando tutte le fatiche. Mèlicerte si propose una meta lontana,
sull'altra costa del mare tempestoso, al confine della terra (cap.
10). Questa meta è degna d'un dio: colui che la raggiungerà
s'innalzerà verso la divinità.
Mélicerte arriva in effetti a Tartessus, i suoi contemporanei
attoniti, gli dedicarono dei templi e degli altari e lo invocarono
come facevano con Kronos e con gli altri dei. Del resto é
incontestabile che questo mito riaffermi ancora di più dei ricordi
storici, come per esempio la nozione di una grande quantità di
metalli preziosi in Spagna.
L'autore comincia con il raccontarci una avventura amorosa della
gioventù di Mélicerte e la fine tragica di questo amore. I figli di
Démaroon, Mélicerte e Isroas,
dopo una spedizione contro i giganti, spartendosi il bottino
conquistato al nemico si disputarono il possesso di Déisone3
giovane figlia delle montagne, di rara bellezza, di cui Isroas si era
impadronitò. Mélicerte propose di rimettere la scelta alla giovane,
Isroas acconsentì e Déiasone scelse Mélicerte, perché lui era più
bello di Isroas4
che era brutto. Mélicerte dunque celebra la sua sposa con dei canti
che si erano conservati fino ai tempi di Sanchuniathon e che venivano
cantati alla festa di questo eroe.
Ma Isroas venne per togliere con la forza Déisone e
assediò la torre di Mélicerte. Invano quest'ultimo tentò di
riappacificarlo.
"L'avvoltoio uccide l'avvoltoio e il cedro di
montagna capovolge suo fratello nella sua caduta. Ma perchè tu
desideri il combattimento, perchè tu vuoi la guerra contro tuo
fratello? Tu conosci il mio coraggio, io non vorrei mai incontrarti
in combattimento. Non siamo noi, o fratello mio, due torrenti che si
slanciano nella stessa valle? Perché tu cerchi il combattimento
contro di me, Isroas?"
Quando Isroas si rese conto che non poteva inpadronirsi
della giovane ragazza, la colpì da lontano con una freccia, affinché
suo fratello non potesse gioirne. Mélicerte accorre e la trova
morta. La piangerà tre giorni e chiese dunque ai Cabires dei
vascelli con i quali, alla testa dei suoi numerosi compagni, fece
rotta verso Cittium, i cui abitanti erano allora in guerra contro i
montanari. Aiutati da Mélicerte i Cittiens riportarono la vittoria
e, a riconoscimento di questo servizio, essi volevano che l'eroe
diventasse loro re. Ma lui parte per la costa situata di fronte a
Cittium, dove dimorava il fratello di suo padre, chiamato Jurus. Il
racconto dell'intervista di Mélicerte con il vegliardo cieco è
molto toccante. In quel luogo egli si ferma per qualche tempo,perchè
il mare è tempestoso e i venti soffiano con violenza. Jurus,
sentendo arrivare la sua fine, da la sua benedizione a Mélicerte,
secondo un'antica usanza orientale, lo esorta a proseguire il suo
viaggio e gli predice l'avvenire:
"Tu trionferai sul mare sconosciuto e primo tra i
mortali vedrai i confini della terra. Tu diverrai così grande che
Kronos e gli altri dei ti guarderanno come un loro pari".
Jurus morì, Mélicerte lo seppellì e lo pianse tre
giorni. il quarto giorno si rialzò, si purificò e si imbarcò con i
suoi compagni per proseguire il suo viaggio. Ma una violenta tempesta
lo fece errare a lungo sul mare. Infine essi entrarono in una baia ma
siccome trovarono un gran numero di bassifondi fecero naufragio e
alcuni uomini dell'equipaggio morirono. Tuttavia la maggior parte si
salvò e raggiunse la riva. Di primo acchitto essi pensarono di
costruirsi un nuovo vascello su questa spiaggia ma furono costretti a
rinunciare perchè le foreste del paese non offrivano loro i
materiali da costruzione ed anche perchè in quei paraggi gli scogli
e i bassifondi rendevano la navigazione molto pericolosa. Essi
decisero dunque di risalire la costa fino a che trovassero un porto
sicuro e dei materiali utilizzabili.
Questo naufragio dovrebbe aver avuto luogo sulla
costa occidentale dell'Italia perchè la contrada dove arrivarono i
viaggiatori si chiamava Ersiphonie5.
Essi si stabilirono ai piedi di una montagna che
chiamarono Liban6
e risulta, dalla comparazione con altri passaggi, che sotto il nome
di Ersiphonié s'intende le coste della Liguria e con quello di Liban
le Alpi. C'era anche un cammino che conduceva al di là della
montagna, lungo le coste del mare. Mélicerte, che aveva appreso che
questa montagna era sacra e che vi risiedevano gli dei, mandò avanti
lungo il cammino indicato i suoi compagni e lui stesso scalò la
montagna per sacrificare e pregare. Similmente nella leggenda ebraica
il popolo resta nella pianura e solo Mosè salì nella sommità della
montagna per mettersi in contatto con la divinità.
Un altro punto di comparazione si presenta nell'una e
nell'altra tradizione; in quanto il soggiorno di Mélicerte sulla
montagna fu di quaranta giorni, come quello di Mosè (vedere Esodo
XXXIV, 28).
L'eroe fenicio sopravvisse ad un incontro
ravvicinato con la divinità quindi ridiscese appresso ai suoi
compagni che durante questo tempo avevano costruito un vascello sulla
riva di un grande fiume. Questo fiume non potrebbe esser altro che il
Rodano in quanto si dice che Mélicerte prima di ritrovare i suoi
compagni, dovette discendere per cinque giorni dirigendosi ad ovest.
Qui l'autore aggiunge alcuni dettagli sulla montagna sacra, Mélicerte
è il solo mortale che ha scalato questo picco inaccessibile in
quanto, al di là delle difficoltà di una natura selvaggia, una tale
impresa presentava delle difficoltà che dovevano scoraggiare i più
audaci. In effetti nelle paludi e nei luoghi che circondavano la
montagna si trovavano dei dragoni di una grandezza smisurata che
afferravano chiunque s'avvicinasse per divorarlo e nelle foreste
vicine, in mezzo agli alberi, si vedevano dei fantasmi spaventosi. La
parte di mezzo della montagna è avvolta dalle nebbie e da nuvole. Al
di sopra delle nuvole si innalza la cima più alta, coperta di nevi
eterne. Li si trova la dimora degli dei, inaccessibile a tutti i
mortali. Mélicerte si rimette in mare con il suo nuovo vascello ed
approda in un'isola in cui si trovavano numerose mandrie di buoi.
Egli desiderava procurarsi alcuni capi di bestiame in quanto si
trovava in grande affanno. Ma l'avaro ed inospitale Obybacros7
a cui appartenevano quelle mandrie rifiutò di accogliere le sue
preghiere e Mélicerte si vide costretto a ricorrere alla violenza
per allontanarlo. Durante quel periodo i suoi compagni prendevano
tranquillamente tutto il bestiame di cui avevano bisogno e
opprimevano Obybacros con le loro canzonature, che da lontano sfogava
il suo furore con orribili ingiurie. E' inutile far notare la
conformità perfetta che esiste tra questa tradizione e quella in cui
i greci raccontano del furto dei buoi di Gerione commesso da Ercole.
Quest'ultimo ha preso evidentemente vita presso i fenici e i greci
non hanno fatto altro che abbellirlo ed attribuirlo al loro Ercole8.
Del resto i fenici ed i greci sono concordi sul luogo della scena,
che gli uni e gli altri posizionano nelle isole baleari. Così
Mélicerte era giunto sulle coste della Spagna. Partito da questi
luoghi egli fece naufragio sulle coste di un'isola vicina.
Quest'isola era ricoperta di foreste e, siccome Mélicerte era
malato, nessuno osava penetrare in questo bosco profondo per
cacciare, perchè tutti erano spaventati dai terribili suoni che
provenivano da quei luoghi, simili al ruggire d'un leone temibile.
Essi si dovettero accontentare di conchiglie e pesci che si trovavano
in abbondanza sul posto. Resosi conto della paura dei suoi compagni
Mélicerte sente rianimarsi il suo ardore cavalleresco e malato
com'era, non trovando alcuno che lo volesse accompagnare , si
avventurò da solo in mezzo alla foresta. Ben presto, nel mezzo del
bosco più fitto, scorse la femmina di una grande bestia che era
addormentata. Al rumore dei passi dell'eroe questa si risvegliò e
gli ordinò di avvicinarsi. Lui obbedì ma, prodigio! Le gambe di
questa femmina terminavano a coda di serpente. Mélicerte che non
conosceva paura avanzò intrepido per conoscere la sua volontà. Lei
gli disse di essere una delle serve di LE'IATHANA9,
la regina dei serpenti, e lo invita a seguirla. Mèlicerte acconsente
e trova in una caverna la regina attorniata dai suoi seguaci, tutti
simili a lei. La regina gli racconta di essere stata cacciata dai
suoi territori da Masisabas10,
che la tiene in questi luoghi grazie ai suoi incantesimi. Ma
aggiunse, ti ho scelto per vendicarmi, perchè vedo che tu sei un
uomo di cuore. Vai dunque, tu lo incontrerai a Tartessus, ai confini
del mondo e quando sotto i tuoi colpi lo abbatterai, troverai per
ricompensa nella sua dimora delle immense ricchezze. Così disse e,
congedandolo, gli diede una bottiglia che conteneva un veleno
mortale. Intingendo le sue carni in questo veleno non poteva fallire
nel dare la morte al suo nemico. Mèlicerte allora si premurò di
riguadagnare la riva dove raccontò ai suoi compagni i prodigi di cui
era stato testimone e l'accoglienza ricevuta. I suoi compagni erano
meravigliati dal suo racconto e si affrettarono nel riparare la nave.
Dopo diversi giorni essi fecero rotta verso ovest e approdarono
infine sulla terra ferma. Essi sbarcarono e videro all'interno del
paese di Tartessus una cittadella che, secondo la descrizione di
Léiathana non poteva essere che la dimora di Masisabas. Costui, che
aveva visto da lontano il vascello approssimarsi alla costa, non
attese che gli stranieri lo attaccassero e accorse verso la riva per
ingaggiare il combattimento. Egli era di taglia smisurata e
sorpassava Mèlicerte di una testa; le sue armi brillanti, la sua
forza prodigiosa, tutto ciò sembrava far dubitare della vittoria
dell'eroe fenicio. Un incidente inatteso rese la posizione di
Mélicerte ancora più difficile perchè mentre egli marciava
incontro al suo nemico il suo arco, teso con troppa forza, si ruppe e
cos' si vide impossibilitato a far uso del veleno che Léiathana gli
aveva donato. La tradizione ha senza dubbio aggiunto questo episodio
per mostrare in quale modo un eroe, con la sua sola forza e senza
alcun aiuto può portare a compimento qualunque impresa. Da quella
distanza Mélicerte lanciò un giavellotto contro il suo nemico con
tanto vigore da passarlo da parte a partee da appenderlo ad un albero
li vicino. La vittoria di Mélicerte è assicurata, si avvicina a
Masisabas e gli taglia la testa. Subito dopo segue l'elencazione dei
tesori che il vincitore trovò nella cittadella conquistata e che
consisteva in molto oro e in cumuli enormi d'argento11.
All'udire di questa impresa gloriosa gli abitanti delle contrade
vicine accorsero per rendere omaggio all'eroe e testimoniargli la
propria riconoscenza. Gli portarono anche una enorme quantità di
metallo prezioso in regalo. Mèlicerte apprese da loro che li vicino
finiva il mare e vi si trovava uno stretto che conduceva nell'oceano.
A questa notizia egli risalì subito sulla nave e seguendo la
direzione indicata arrivò, il giorno stesso, allo stretto. Siccome
era già tardi decise di non discendere a terra se non il giorno
dopo. Gli abitanti delle coste vedendo sospesa alla prua della nave
la testa di Masisabas che fino ad allora avevano considerato
invincibile, cantarono le lodi e il coraggio di Mélicerte e lo
accolsero con gioia. Così Mélicerte aveva infine raggiunto lo scopo
che si era proposto da così tanto: "Fu il primo ad arrivare ai
confini della terra. Prima tra tutti i Sidoni e Tiri, penetrò nelle
distese deserte dell'oceano. Così ricevette la ricompensa che gli
era stata promessa".
Agli occhi degli abitanti, razza grezza e selvaggia,
tutto in questi stranieri era oggetto di ammirazione, la loro nave, i
costumi, gli utensili. Essi vivevano di pesca e di caccia e avevano,
cosa che è vera, delle barche ma molto piccole e grossolanamente
costruite. Non indossavano vesti e si coprivano con pelli di animali
perchè non conoscevano ne l'arte del tessere ne alcun'altra arte.
Tutti i loro mobili erano lavorati grossolanamente e con estrema
semplicità. Gli stranieri al contrario avevano una grande nave, dei
bei vestiti, dei mobili eleganti. Per queste circostanze e
soprattutto per le grandi imprese che aveva compiuto essi riconobbero
che Mélicerte era un dio. Essi guardavano anche i suoi compagni come
degli dei, ma come dei inferiori.
Poi Sanchuniathon racconta della costruzione delle due
colonne ad opera di Mélicerte, il suo regno a Tartessus e la sua
apoteosi. Sull'una e sull'altra riva dello stretto si trovava una
montagna in cima alle quali egli elevò le colonne. Queste due
colonne si vedono ancor oggi e devono il loro nome a Mélicerte.
Tutti sanno che la leggenda dell'Ercole greco si è
appropriata di questa spedizione ma siccome nei tempi di molto
posteriori, in cui anche i greci si addentrarono per queste contrade,
le antiche colonne di Mélicerte erano sparite da lungo tempo e
l'Ercole greco elevò le montagne di Gibilterra e di Ceuta a
monumento delle sue esplorazioni, da allora non si è più smesso di
chiamarle colonne d'Ercole.
Mélicerte si stabilì in questa contrada e si sforzò
di iniziare gli abitanti alla civiltà orientale. Prima di tutto
costruì una fortezza e una città. Gli abitanti di Tartesso
riconoscenti gli dedicarono dei templi nella città e nelle contrade
circostanti dove le sue immagini, in argento puro, erano oggetti di
culto religioso. Un giorno, infine, che egli era partito per la
caccia senza seguito, non fece più ritorno e non si riuscì mai a
ritrovare nè il suo corpo nè la tomba perchè, secondo le opinioni
dell'antico oriente, il luogo della tomba degli uomini che come
Mélicerte sono stati ammessi alla frequentazione della divinità,
resta per sempre sconosciuto. E' per questo che mai nessuno ha visto
la tomba di Mosè (Deuteronomio. XXXIV,6).
Dopo la scomparsa di Mélicerte quelli tra i suoi
compagni che erano sopravvissuti, decisero di far conoscere alla loro
patria i risultati delle loro spedizioni e scelsero per questa
missione gli uomini non sposati perchè molti tra loro avevano
sposato delle donne del paese. Dopo molte fatiche e pericoli gli
inviati arrivarono infine presso la madre patria e costruirono nello
stesso luogo dal quale erano partiti, un tempio un tempio in onore di
Mélicerte. "Questo tempio si vede ancora nella vecchia città
dei Tiri". La stessa città di Tiro fu costruita più tardi in
quello stesso posto.
Nell'ultimo capitolo di questo libro, l'autore
descrive le statue del dio e le feste che venivano celebrate in suo
onore, il giorno prima della partenza, da coloro che si recavano a
Tartesso.
Certamente sarà difficile dare un colore più naturale
a questo simbolo così interessante del progresso della navigazione e
del commercio dei fenici. Non vi é minor verità nel racconto del
viaggio di scoperta che il re di Tiro, Joram o Hiram, contemporaneo
di Salomone, fece eseguire dalla sua flotta che arrivò fino
all'isola di Ceylon:
Gli Etiopi12
spiegarono a Joram che verso il mezzogiorno si trovavano molte ricche
e vaste contrade, che la popolazione era immensa, i prodotti vari e
notevoli, che queste consistevano in oro, argento, perle e pietre
preziose, in legni d'ebano, avorio, scimmie, pappagalli, pavoni
ecc... Che tutti questi prodotti si trovavano nel Chersoneso più
lontano verso oriente, là dove gli uomini vedono il sole sorgere
dalle onde del mare. Joram inviò dunque una rappresentanza a
Natambalos, re di Babilonia, cui fece dire: "Io ho saputo che il
paese degli Etiopi è vasto e popoloso e che da Babilonia ci si può
arrivare facilmente, non così è da Tiro. Se tu consenti a fornire
ai miei rappresentanti i vascelli necessari per questo viaggio io ti
invierò cento mantelli di porpora". Il re si mostrò disposto
ad acconsentire, ma ritirò la promessa quando i mercanti etiopi che
si trovavano a Babilonia preoccupati per il commercio, l'ebbero
minacciato di abbandonare la città, se egli avesse dato i vascelli
ai Tiri. Allora Joram offrì al re degli ebrei, Irenius (Salomone),
di fornirgli tutta la legna necessaria per la costruzione di un nuovo
palazzo se egli consentisse a cedergli un porto sul mare d'Etiopia, e
Ireneo gli concesse la città e il porto di Eilotha (Elath).
Nonostante nei pressi di questo luogo vi fossero delle immense
foreste di palme, purtroppo non vi si trovava legno da costruzione,
così Joram si vide costretto a farvo portare, con ottomila cammelli,
ciò di cui avava bisogno. Venne costruita una flotta di dieci
vascelli, della quale Kedar, Jamine e Kotilos ottennero il comando.
Lankapatus13,
l'unico dei tre etiopi sopravvissuto, desiderando rivedere la sua
patria, s'imbarco con loro e la flotta alzò le vele. Il mare
d'Eilotha fu ben presto superato ma delle tempeste non consentirono
di attraversare lo stretto per entrare in alto mare. Essi decisero
dunque di sbarcare in un'isola per attendere la fine del cattivo
tempo. Durante il loro soggiorno in quest'isola, seminarono del
frumento in una zona favorevole e raccolsero una messe abbondante.
Poi essi superarono lo stretto, si diressero a Est e incontrarono,
molto tempo dopo aver lasciato l'Arabia, dei vascelli babilonesi che
rientravano dall'Ethiopia nella loro patria. Il giorno seguente i
fenici intravvidero il paese degli ethiopi, deserto e sabbioso sulla
riva ma erto di montagne nell'interno. Per dieci giorni essi
costeggiarono questa costa inospitale, facendo sempre vela a est e
raggiunsero infine il punto dove questa si dirige verso sud, a una
distanza infinita, ricoperta di città popolose. Gli etiophi
possedevano anche dei vascelli e si davano alla navigazione, ma i
loro bastimenti non erano equipaggiati per la guerra e l'uso della
vela gli era sconosciuto. I Tiri proseguirono lungo la loro rotta per
trentasei giorni e arrivarono infine sull'isola di Rachius. Essi
accostarono su una riva bassa e coperta di alberi enormi, ma durante
la notte un vento impetuoso li allontanò e corsero un grande
pericolo fino al momento in cui si trovavano in un ormeggio sicuro.
All'interno del paese si trovavano molti villaggi molto popolosi e,
quando i fenici avanzarono nell'interno, furono circondati dagli
indigeni che accorsero in gran numero e li condussero dal governatore
della provincia. Costui li accolse sontuosamente per sette giorni.
Nel mentre inviò un messaggero al re della contrada per informarlo
dell'arrivo di stranieri e domandare disposizioni. Il settimo giorno
il messaggero tornò e il giorno seguente il governatore condusse i
Tiri dal re, che abitava nella grande città di Rochapatta,
all'interno dell'isola. La marcia era aperta da una truppa di
dorifori (lancieri) che il re aveva inviato per scortare gli
stranieri e per allontanare, con il rumore delle loro armi, gli
elefanti di cui questo paese abbonda e che rendevano questo viaggio
molto pericoloso. Di seguito venivano i Tiri i cui capi, Kedar,
Kotilos e Jamine venivano trasportati con delle lettighe, quindi vi
erano gli abitanti del villaggio che portavano i doni destinati al
loro sovrano. Veniva infine il governatore, montato su un elefante e
circondato dalla sua guardia. Durante il viaggio arrivarono al
margine di un fiume in cui si trovava un gran numero di coccodrilli
che divorarono uno degli uomini della scorta. Al termine del terzo
giorno essi videro davanti a loro la città di Rochapatta, circondata
da alte montagne. Nel momento in cui si avvicinarono alla città una
moltitudine innumerabile gli andò incontro, alcuni montavano
elefanti, altri su asini, altri ancora su portantine, ma la maggior
parte erano a piedi. Là essi furono ricevuti da un ufficiale che li
condusse per il grande e splendido castello del re e chiuse le porte
alle loro spalle, affinchè la folla dei curiosi non potesse entrare
appresso al corteo. Quindi egli li presentò al re Rachius che era
seduto su di un tappeto prezioso. I Tiri gli offrirono i loro regali
che consistevano in cavalli, in stoffe di porpora e in seggi di legno
di cedro. Il re da parte sua gli fece avere delle perle, dell'oro,
duemila zanne di elefante e una grande quantità di cannella. In più
gli offrì ospitalità per trenta giorni. Alcuni Tiri morirono
sull'isola, uno di loro per malattia, gli altri colpiti dagli dei.
Un Tiro, avendo trovato dello sterco di cervo, tracciò
alcuni segni sulla sabbia e invitò uno dei suoi compagni, che si
trovava vicino, a giocare con lui. L'altro cercò vanamente dello
sterco di cammello, in quanto non esistono cammelli sull'isola, e per
sostituirlo prese dello sterco di vacca che tagliò a pezzi, poi si
piazzò di fronte al suo compagno poggiò il pezzo di sterco tra i
segni tracciati sulla sabbia e il gioco cominciò. Un sacerdote che
passava di là li invitò a cessare questo gioco in quanto lo sterco
di vacca era sacro in quel paese, ma i Tiri risero di quella
ingiunzione e continuarono a giocare. Il sacerdote si allontanò ma
alcuni istanti dopo i due giocatori caddero morti, tra il terrore di
chi essisteva. Uno dei due morti era nato a Gerusalemme.
La grande isola di Rachius è circondata dal mare ad
eccezione del nord dove essa comunica con il continente di fronte
attraverso un istmo. Baaut, di cui si vedono ancora le impronte
impresse sulla montagna, ha creato quest'isola impastando il fango
primitivo. E' da Baaut14
che discende il gran re.
L'isola ha una larghezza di sei giorni di marcia e più
di 12 di lunghezza. I prodotti sono preziosi e vari. Il mare fornisce
con abbondanza agli abitanti della costa pesci di gusto gradevole e
la selvaggina abbonda nelle montagne. La cannella è molto forte e
gli elefanti che si incontrano sull'isola sono i più grandi che
esistono. Nei fiumi si trova dell'oro e pietre preziose e sul bordo
del mare le perle.
Quattro re regnano sul paese, ma essi sono sottomessi
ad un re supremo al quale essi inviano come tributo della cannella.
Essi non gli donano oro perchè il re ne possedeva in grande
quantità. Il primo re ha i suoi possedimenti a sud, nella parte in
cui si trovano gli elefanti che vi si possono catturare in gran
numero
Tutti questi dettagli Joram, al ritorno dei vascelli,
fece incidere su di una colonna, che per suo ordine venne eretta sul
pavimento del tempio di Mélicerte. Risponde al vero che questa
colonna sia stata rovesciata dal terremoto che si è verificato un
anno fa ma questa non è stata infranta e vi si può ancora leggere
l'iscrizione.
Noi crediamo dover riferire qui che un saggio
indianista, a cui abbiamo sottoposto questo estratto, non ha notato
alcunchè che possa denotare una falsificazione. Non possiamo che
avere la stessa opinione sull'ottavo libro che contiene un censimento
delle forze militari di Tiro e dei paesi frequentati dai loro
vascelli.
Ottavo libro
Periplo di Joram
I. Redazione del periplo (cap. 1 e 2).
"Questo è il periplo del quale Joram, re di Tiro,
ha ordinato la redazione a Joram, sacerdote di Mélicerte, e che ha
voluto che si incidesse su una colonna elevata nel vestibolo del
tempio di questo dio. Egli ha ordinato allo scriba Sydyk di farne
quattro copie da inviare agli abitanti di Sidone, Biblo, Aradus e
Béryte".
Ma pressochè tutte queste copie andarono perdute e noi
abbiamo visto anche che la colonna è andata distrutta. Un solo
esemplare fu conservato nel tempio di Baaltis a Biblos, l'autore che
ne ha riportato i termini che vi erano scritti. L'inizio era così
concepito:
"Joram, figlio di Bartophas, re di Tiro, ha fatto
chiamare davanti a se Joram, figlio di Madynus, verso il tempo dei
primi fichi, e gli ha detto: prendi il tuo libro e redigi il catalogo
di tutti gli stati, di tutte le isole, di tutti i paesi barbari,
delle loro forze, delle loro triremi, dei loro navigli e dei loro
carri; poichè le nostre
triremi, navigando verso l'isola di Rachias, hanno raggiunto i
confini della terra ad est cosicchè noi conosciamo i paesi più
lontani e i loro abitanti e che noi sappiamo ciò che ignoravano i
nostri padri, essi che navigarono verso le isole e verso l'occidente
senza conoscere le contrade orientali che a noi sono oggi note.
Scrivi tutto là affinchè il ricordo si trasmetta ai nostri
discendenti. Quando il re ebbe detto queste parole io mi prostrai e
m'allontanai per redigere questo scritto..."
II. Possedimenti dei Tiri sul continente (Cap. 3-8)
I Tiri e Sidone (Cap. 3-4)
Similmente a tutti gli altri re, il re di Tiro è il
più potente, allo stesso modo la città di Tiro è la più grande e
la più ricca di tutte le città. E' in essa che sono state inventate
tutte le arti. E' proprio in questa contrada che i compagni di Usous
hanno costriuto per primi un vascello per sottrarsi all'inseguimento
di Hypsouranios; sono gli abitanti del paese che per primi si
dedicarono all'agricoltura e ad altri lavori.
L'armata del re si compone di sessantamila combattenti,
cento triremi ed una quantità innumerabile di vascelli da trasporto.
Ci sono inoltre mille dorifori coperti di armature dorate e ottanta
carri da guerra. Il tempio di Mélicerte e la città tutta è stata
costruita dai compagni di questo dio al loro ritorno da Tartesso. Nei
pressi di Tiro si trovano le città di Hysora, Maene, Silype,
Bethobarkas (che si chiama anche Bethataba) e Ramasé. La città dei
Sidoni è anch'essa molto ricca. Le sue forze di terra consistono in
centomila combattenti, mille dorifori e venti carri, le sue fore
navali sono composte da sessanta triremi. Al territorio dei sidoni
appartengono anche le città di Monychus, Jauphe, Moyra, Dibon
(soggiorno dei figli del re), Nebra e Soate.
II Biblos, Aradus, Béryte (Cap. 5-7)
L'armata degli abitanti di Biblos consiste in ventimila
combattenti, duemila dorifori e venti carri. Essi hanno inoltre
ottantacinque galere. Nella loro città si trovano i templi di
Kronos, fondatore della città, di Baaltis e di altri dei. Nei pressi
di Biblos si trovano le città di Asmania, di Jasude, di Nebite e di
Nebra (città differenta da quella dei Sidoni).
Gli abitanti di Aradus hanno una armata di ottomila
uomini, più mille dorifori, cinquecento arcieri, venti carri da
guerra e cinquanta triremi. Le città del del loro territorio sono:
Arboze, Kasauron, Itynna, Delibas e Asypotia. Tra Delibas e Itynna si
trovano le Misybata15,
pietre profetiche innalzate dal dio Ouranos. Gli abitanti di Béryte
possono mettere in piedi diecimila combattenti, mille dorifori e
quaranta carri da guerra. La loro marina si compone di trenta galere.
La loro città è stata costruita da Eliun, che le ha dato il nome
della sua donna, Béryte. Si ammirano soprattutto i templi di Pontus
e Astarte'. Le città abitate dai Beriti sono: Arbe, Isbas, Sydrobal
e Bethastaroth. Sul cammino che conduce a Byblos, nei pressi della
città di Sydrobal, s'innalzano le rovine della torre degli egiziani
che, guidati da Pasurgus, cercarono di conquistare la contrada. Una
vergine, Adramot16,
li sconfisse e distrusse il loro rifugio.
III Le montagne. (Cap. 8)
Le forze degli abitanti delle montagne ammontano a
trentaduemila uomini, dei quali duemila arcieri. Essi non possiedono
ne città ne vascelli ne carri da guerra e abitano in numerosi
villaggi. E' presso di loro, nei villaggi di Gabara, di Oryx e di
Gadra, che si trovano i Bétyles17,
che sono anche questi degli oracoli stabiliti da Ouranos. I più
celebri sono sulla sommità del monte Zetunus, che è ricoperto
d'olivi, e lungo la strada che conduce dalla montagna a Tiro. Sulla
montagna che c'è di fronte si trova il villaggio di Momigura, nel
quale si trova una fortezza con delle trincee ed una guarnigione.
III Enumerazione delle forze di Tiro (Cap. 9)
Tutte queste città, questi villaggi, queste montagne,
sono tributarie del re Joram: e quando questo principe si prepara
alla guerra egli raduna a Tiro tutte le forze militari di cui
dispone, cioè: seicentoottomila combattenti, centottanta carri,
seimila dorifori, duemilacinquecento arcieri e trecentoventicinque
triremi. Se la guerra dovesse aver luogo sul mare gli abitanti delle
isole e delle colonie gli inviano il loro contingente che consiste in
settantamila soldati, duemilaseicento arcieri e trecentottanta
vascelli da trasporto.
IV. Possedimenti dei tiri oltre il mare (Cap. 10-14)
La prima delle isole è Cittium (Cipro). E' fertile e
ben popolata. L'interno dell'isola è abitato da barbari empi e rozzi
che assomigliano per i costumi e per la lingua alle genti del monte
Libano. Lungo le coste ricche di approdi si trovano delle città, dei
villaggi e delle fortezze costruite dai nostri antenati. La città di
Cittium, fondata da Demaroon, possiede una armata di diecimila
uomini, sessanta galere e cinquecento arcieri; ma non possiede carri
il cui uso è sconosciuto nell'isola. Nella stassa contrada si
trovano anche le città di Lydana e Gola, oltre ai tanti villaggi.
L'isola contiene anche la città di Masuda18,
che fu fondata dal Sidone Bimalus, capace di equipaggiare quattromila
uomini e venti galere. Nei pressi di questa città, in cima ad una
montagna, si trova un grande altare, dedicato a Kronos il quale,
brillando ogni giorno d'una luce vivida, può essere visto dai
navigatori anche con tempo piovoso.
Navigando verso occidente si incontra l'isola di Rodi
che, in caso di guerra, può fornire tremila uomini e dieci vascelli.
I Sidoni, in tempi molto remoti, vi hanno fondato una città, ma la
infertilità del suolo ha costretto gli abitanti ad abbandonarla e da
allora essi vivono dispersi in numerosi villaggi.
La costa opposta è al contrario fertile e molto
popolosa. Ci si trovano tre insediamenti di Sidoni, uno di Aradi e
quattro dei Tiri. I nomi delle città sidoniane sono Machira, Supha,
Zoara; il nome dell'insediamento di Adado è Sale; quelli delle
colonie Tire sono Ozyne, Bethomalkrot, Masaba e Casra. Gli abitanti
di Machira hanno un'armata di cinquemila uomini e venti vascelli.
Quelli di Supha possono armare duemila uomini e dieci vascelli,
quelli di Zoara mille uomini e dieci vascelli. Gli abitanti di Sale,
per parte loro, hanno millecinquecento guerrieri e una flotta di otto
vascelli. Infine gli abitanti di Ozyne possono mettere in piedi
duemila uomini; quelli di Bethomalkrot mille e duecento, quelli di
Masaba cinquecento e quelli di Casra ottocento. Le quattro città
riunite assieme possiedono quindici vascelli.
I Machiri, i Suphéens e gli Ozyneensi fanno spesso
vela verso le isole e i distretti situati ad occidente per combattere
i barbari di questi paesi, che si dedicano alla pirateria e hanno dei
vascelli simili ai nostri.
L'isola di Cerates (Creta) ha una estensione
considerevole. I Sidoni vi hanno fondato la città di Mapiza e i Tiri
un insediamento chiamato Mapristor19,
"perchè i Tiri vi hanno un porto". Mapiza fornisce tremila
combattenti, quindici vascelli e cento arcieri, Mapristor
quattrocento uomini e sei vascelli.
Nella montagna abitavano i Gerates, oggigiorno
soggiogati ma che, oltremodo temibili sul mare, hanno fondato degli
insediamenti nei paesi di Gaza.
Gadira, città ricca e popolosa, è una colonia di
Mapiza. Vi si trova un tempio di Astarte circondato da mura, ciò che
ha dato alla città il nome che porta20.
La città ha settemila combattenti, duecento arcieri e una flotta di
trenta galere. Sulla costa opposta i Gadiriani hanno popolato molti
villaggi e dei castelli. Se partendo da quest'isola si naviga verso
ovest in quattro giorni e con vento favorevole si arriva all'isola di
Mazaurisa, anch'essa molto popolosa. I Tiri e i Sidoni vi abitano sei
città, Nasbos, la città di Mélicerte, Jamnia, Jitron, Malkuba,
Ophala e Moraba e molti villaggi. Queste colonie fornivano undicimila
uomini e una flotta di trentotto vascelli21.
Da moraba si arriva a Mylité22,
dove non si trova nessuna città ma solo dei villaggi. L'isola mette
in piedi duemila combattenti e può armare quindici vascelli. Essa è
ricoperta di altari consacrati ad Astarte Mylite.
Da là si arriva velocemente a Maphile, colonia
popolata dagli Aradi, dai Bibli e da altri ancora. Nei tempi più
antichi vi erano cinque colonie, che i selvaggi indigeni distrussero;
gli abitanti di queste cinque città si riunirono in questo punto e
vi costruirono una città. Le loro forze consistevano in quattromila
combattenti e trentasei vascelli. Questo insediamento si trova sul
paese di Tenga, contrada vasta ma praticamente deserta perchè povera
d'acqua e bruciata dal sole. Navigando a nord di Mazaurisa si arriva
in Ersephonie, dove si trovano quattro colonie, le cui armate
ammontano a dodicimila uomini e venticinque vascelli.Questa forza
imponente data all'epoca in cui, durante una guerra contro i
Tartessi, i Sidoni inviarono dei rinforzi. Non c'è niente da temere
dagli indigeni perchè sono poco numerosi e pacifici. In questo paese
si trovai il monte Libnas, consacrato a Mélicerte, che vi ha
lasciato l'impronta dei suoi piedi. nei pressi d'Ersephonie si
trovano le due isole di Kiton e Gadyla23
separate da uno stretto sul quale si trova una piccola città. Da là
si arriva in dieci giorni a Tartesso, passando presso l'isola deserta
di Léiathana e di Obibacros.
Dunque, se si riunissero tutte le forze di terra e di
mare del re Joram, si troverà che la sua armata consiste di
venticinque miriadi di combattenti in armi e la sua flotta in
seicentoquarantatre vascelli. Egli possiede inoltre centottanta carri
da guerra e immensi tesori perchè, se in tempo di guerra le città
gli inviano truppe ausiliarie, in tempo di pace gli pagano un
tributo.
IV Tartesso e gli Imyrchakines (Cap. 15)
I Tartessi, discendenti di Mélicerte, sono alleati dei
Tiri ed abitano ad occidente. Il loro principe è Nausitanus, figlio
di Charon, che è molto potente e possiede molte galere e altri
vascelli. Questo popolo abita cinque grandi città e molti villaggi.
Le contrade vicine sono ricche di fiumi, le montagne sono piene di
ricche miniere d'oro e d'argento, soprattutto nei villaggi di Ardiabe
e Ophile.
Tartesso si trova sullo stretto e sull'Oceano. L'Oceano
settentrionale non è navigabile a causa del sollevamento delle
maree, quello del sud perchè le coste sono deserte. Là vi si trova
il promontorio di Tiborsypha. Le contrade più lontane di questo
oceano sono le Imyrchakines, cioè le isole di Hyresa, Hirisima,
Mazaurisa e Igydula che erano molto popolate in principio ma che sono
state quasi interamente spopolate a causa di una peste. Queste si
trovano a dieci giorni di viaggio dal promontorio di Tiborsypha24.
VI - Il sud, il nord e l'est della terra.
(Cap. 16)
Nei pressi dei Tiri abitano i Cerati, gli Ebrei, gli
Egiziani, gli Arabi, i Damasceni e gli Hamathéens, alleati di Joram.
In Egitto si trova il Nilo. Risalendolo, in sette giorni, si arriva
alla capitale dove si trova un gran numero di schiavi etiopi evenuti
dalle contrade meridionali. Essi hanno la pelle nera, ma per i loro
costumi e il loro modo d'essere assomigliano molto agli Egiziani.
Gli etiopi abitano le contrade più meridionali della
terra. Al nord abitano gli Armeni, i Frigi e i Lidi; ancora più a
nord i Cambri, gli Amydones e i Titani.
I Titani sono una razza molto selvaggia e seminuda che
va alla ricerca, in Media, di cavalli bianchi che trattano come degli
dei. Essi abitano nei dintorni di un grande lago e si trovano a venti
giorni di marcia dai Medi.
Verso il levante abitano i Babilonesi, i Medi e gli
Etiopi. La città di Babilonia è grande e popolosa. La Media nutre
numerose mandrie di cavalli bianchi. Il paese degli Etiopi è
sabbioso e arido sulle coste, montagnoso nell'interno. Il paese più
remoto ad Oriente è il Chersoneso di Rachius, dove sono arrivate le
triremi di Joram.
Citiamo ancora qualche canto nazionale che si trova
riportato nell'opera.
Sicuramente vi è una poesia molto bella e una serie
d'immagini degne della Bibbia nel canto funebre su alcuni guerrieri
Tiri morti a Tartesso, che il signor Grotefend paragona al famoso
cantico di Ezechiele:
Il mare ti ha rigettato sulla riva
come una perla brillante,
dove sei nato, nel cielo, astro luminoso?
Il continente brilla del tuo chiarore
e il mare riflette la tua bellezza.
O regina dei flutti, quando vedi il tuo popolo navigare
tu ti rallegri come una madre felice
alla vista dei suoi figli.
Ma guarda lontano
e delle lacrime scenderanno sulle tue guance
e bagneranno il suolo
e il mare risuonerà dei tuoi canti tristi.
Perchè le tue triremi
sono state distrutte a Tartesso
e i più coraggiosi dei tuoi figli
distesi morti su una riva lontana
sono preda degli avvoltoi e dei pesci.
Non vi è minor grandezza in questo canto di un re di
Hamalh bandito dai suoi territori:
Ammisus mi ha cacciato dalla città
i miei servi mi hanno schiacciato sotto le loro
canzonature
ma io farò fustigare i miei servi
e io ucciderò Ammisus.
Un tempo riposavo sulla porpora di Tiro
e il mio cuscino era fatto di seta Babilonese.
Ma voi credete che io tremi
perchè l'oscurità discende sulla foresta
e perchè la tempesta passa attraverso gli alberi
come fosse un leone ruggente?
Credete voi che io mi spaventi
per l'aspetto delle rocce
che brillano al chiarore della luna
e dei pallidi fantasmi
che sorgono da qualche zolla di terra?
Il leone è forse senza coraggio nella sua oscura tana?
Avete mai visto il cinghiale prender paura?
Il cinghiale selvaggio
percorre senza paura u sentieri di montagnardse il
ruggito del leone fa tremare i suoi nemici.
Dopo la lettura di questi diversi estratti si capirà
perchè alcuni uomini quali Gesenius e Grotefend abbiano creduto
all'autenticità del libro dal quale noi abbiamo attinto. L'opinione
del signor Grotefend è cambiata, è vero, ma i suoi dubbi attuali
sembrano piuttosto dovuti alle informazioni che gli sono giunte sul
carattere del signor Wagenfeld che sulla sua opera.
D'accordo, la lettera del signor Grotefend non prova
che la falsificazione sia completa, perchè sembra egli credere
all'esistenza di un manoscritto che il signor Wagenfeld avrebbe
alterato.
La pubblicazione del testo greco che è stata
formalmente promessa fornirà armi sicure alla criticae se, in
definitiva, si avrà nel signor Wagenfeld un successore di Annio da
Viterbo e di Ligorio, non ci si potrà astenere dal dispiacersi che
con tanta conoscenza, con un tale sentimento delle cose antiche, con
una immaginazione così poetica e feconda, egli abbia compromesso il
suo avvenire letterario rendendosi colpevole di una soperchieria che
non potrà in nessun modo nuocere a coloro che ha ingannato, ma che
avrà per sempre influenzato il suo carattere e il suo onore.
Ph. Le Bas.
______
Io non aggiungo altro se non che sarebbe bello leggere il manoscritto per intero, io per ora non l'ho trovato, ma la ricerca continua e spero che presto possa dare i suoi frutti!
Alla prossima,
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
1M.Heeren,
Idées sur la politique et le commerce des peuples de l'antiquité.
Tomo II, pag 2.
2Menandro
d'Efeso, storico greco del II sec. a.C. citato da Giuseppe Flavio
come autore della storia di Tiro.
3In
ebraico DECHEN= fertilità. W.
4In
ebraico Ich roa= l'uomo della malvagità, l'uomo della bruttezza.
5in
ebrico Erets tsafon, la terra del nord, relativamente alla Sicilia e
all'Africa, nome che gli avrebbero dato i coloni in quanto per loro
le coste della Liguria erano ciò che si trovava più a nord. W.
6In
ebraico Lebanon=montagne di neve, Alpi. W.
7In
ebraico: Abi Bakar=padre del bestiame.
8Pure
Giustino (XLIV,4,15) dice che Ercole è originario d'Asia. Herculem
ex Asia. W.
9In
ebraico Livythan=ricurvo, sinuoso. Espressione usata parlando di
mostri di grandi dimensioni, coccodrilli e serpenti.
10O
Masisabal la freccia di Baal. W.
11Le
ricchezze della Spagna in metalli prezioni erano celebri
nell'antichità. Giustino (lib. XLIV, 1,6) ne parla.
12Si
tratta di tre giocolieri indiani che si trovavano da lungo tempo
presso la corte del re di Sidone. Il signor Grotefend pensa che per
Etiopi si debba intendere gli abitanti di Ceylon.
13In
sanscrito Lankapati, il signore di Lanka, Ceylon.
14Si
è pensato che il nome Baaut sia stato usato qui per designare Budda
e da ciò si è creduto avere prova contro l'autenticità del lavoro
del signor Wagenfeld. Ma, da una parte, non è dimostrato che il
culto di Budda non esistesse a Ceylon nel X° secolo a.C.,
dall'altra parte niente dimostra che qui Baaut stia per Budda. Baaut
è il nome che i fenici davano al Chaos. Aver visto le tracce dei
passi di Baaut in un luogo, potrebbe significare riconoscere le
tracce di una fondazione primitiva. Ritrovare le tracce di un dio
negli anfratti inaccessibili è un'idea religiosa comune a tutti i
popoli e di cui noi abbiamo visto più alti esempi. Del resto queste
pretese tracce di Baaut si chiamano, oggigiorno, piedi d'Adamo.
16Filone
in altri punti dà al nome Adramot la forma grecizzata Adramusa. In
arabo Hadhramaut.
17I
bétyles sono delle pietre arrotondate a cui si attribuiva una virtù
profetica. Se ne parla nella genesi XXIV, 18 e seguenti.
18Il
signor Grotefend crede di vedere in Masuda il nome Amathonte
(Amathus).
19In
ebraico Mifrats Tor, il porto di Tiro. W.
20
Γάδειραν γὰρ τεῖχος λέγουσιν,
aiuta Filone. In ebraico Ghedera. W. Il signor Grotefend nella sua
prefazione pensa si tratti di Cythète.
21Mazaurisa
è la Sicilia, paese (in arabo Mesr) del fuoco (in ebraico Ech).
Essa era così chiamata a causa del suo vulcano. W. In quanto ai sei
insediamenti fondati dai Tiri e dai Sidoni in Sicilia, il signor
Grotefend rinvia a Tucidide, lib. IV, cap. II.
22Malta
secondo Grotefend.
23la
Corsica e la Sardegna.
A me questo nome sembra strano in quanto
da altre letture mi risulta che per i Cartaginesi la Sardegna fosse
conosciuta col nome di Munivia. A.Rugolo
24Il
nome di Imyrchakines si spiega con l'ebraico: Iimrakhokim, isole
lontane. Si tratta evidentemente delle Canarie.
Io sto cercando i frammenti ritrovati della Phoinikika di Filone di Biblo(s) che è difficile reperire, riguardo alla mitologia fenicia della Creazione.
RispondiEliminaInteressante vedere come nella mitologia assiro/babilonese, fenicia ma anche nella cultura semitica in generale, sia difficile concepire l'idea di nulla in senso assoluto pre-creativo: tutti parlano di caos che attraverso un processo inverso di riordino e separazione (acque del cielo e della terra) da parte delle Divinità si giunga alla creazione.