domenica 27 ottobre 2013

L'Italia nel Dittamondo di Faccio degli Uberti

Un altro brano dal Dittamondo.
In questo si parla dell'Italia e dei suoi primi abitatori... l'autore parla con Roma del passato!

"Nel tempo che nel mondo la mia spera
apparve in prima qui dove noi stiamo,
dopo il Diluvio ancor poca gente era.

Noè, che si può dire un altro Adamo,
navigando per mar giunse al mio lito,
come piacque a colui, ch'io credo ed amo;
e tanto gli fu dolce questo sito,
che per riposo alla sua fine il prese,
con darmi più del suo, ch'io non ti addito.

Giano appresso a dominarmi intese,
e costui mi adornò d'una corona,
insieme con Iafet e con Camese.

Italo poi un'altra me ne dona.

Si fé Saturno, che di Creti venne,
lo qual molto onorò la mia persona.

Ercole, quel che nelle braccia tenne
Pallante, per lo suo valor, non meno
che gli altri, fece ciò che si convenne.

Evandro con gli Arcadii ricco e pieno,
una ne fabbrico nel nome mio,
maggiore assai che gli altri non mi feno.

Roma, Aventino, e Glauco non oblio,
i quai men fenno tre, tal che ciascuna
per sua beltà in gran pregio salio.

E sì m'era allor dolce la fortuna,
che da Oriente a me venne il re Tibri,
al quale piacendo ancor, me ne fè una.

Ma perché d'ogni dubbi ti delibri,
e sappi ragionar, se mai t'affronti
con gente a cui diletti legger libri,
piacemi ancor che più chiaro ti conti.

Sappi, queste corone ch'io ti dico,
mi fur donate dentro a sette monti.

Ma qui ritorno a giano mio antico,
del qual ti ho detto, che dopo Noè
gli piacque il luogo dove i' mi nutrico.

De' Latin fu costui il primo re,
pien di scienza e cotanta virtute,
che di molte gran cose al mondo fè."

La storia continua e dopo Giano si parla degli altri re che fecero l'Italia, ma per oggi è sufficiente, chi vuole può proseguir da se, leggendo il Dittamondo da Google Libri!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

La Sardegna nel Dittamondo di Faccio degli Uberti

Faccio (o Fazio) degli Uberti fu un poeta didascalico fiorentino del 1300 (1305-1367) vissuto quasi da profugo tra una corte e l'altra del nord Italia.
Autore, fra l'altro, di un'opera didascalica chiamata "Dittamondo", in cui racconta il suo personale viaggio nel mondo conosciuto compiuto in compagnia di un geografo antico, Solino (III sec. d. C.).
Lascio a chi ha voglia e tempo il piacere di leggere tutto il libro alla ricerca, magari, di notizie curiose sul proprio paese di origine e mi concentro su ciò che Faccio dice della mia Isola, la Sardegna, riportandovi di seguito ciò che egli scrisse:

"Molto sarebbe l'Isola benigna
più che non è, se per alcun mal vento
che soffia ivi, non la fesse maligna.

Ivi son vene, che fan molto argento,
li si vede gran quantità di sale,
ivi son bagni sani com'unguento.

Non la vidd'io, ma ben l'udio da tale,
a cui do fe, che v'era una fontana,
ch'à ritrovar i furti molto vale.

Un'erba v'è spiacevole e villana,
la qual gustata senza fallo uccide,
et così come è rea è molto strana,
che in forma propria d'huomo quando ride
gli cambia il volto, e scuopre alcuanto i denti,
si fa morto già mai non si vide.

Securi son da lupi, e da serpenti,
la sua lunghezza par da cento miglia,
e tanto più quanto son venti, e venti.

Io viddi, che mi parve meraviglia
una gente ch'alcuno non l'intende,
né essi sanno quel ch'altri bisbiglia.

Vero è, che s'altri di lor cose prende,
per darne cambio, in questo modo fanno,
ch'una ne toglie, et un'altra ne rende.

Quel che sia Cresime, e Battesimo non sanno,
le Barbace gliè detto è in lor paese,
in secura montagna e forte stanno.

Quest'Isola dal Sardo il nome prese,
la qual per se fu nominata assai
ma più per buon padre onde discese.

Un picciol animal quivi trovai,
gli abitanti lo chiaman Solefuggi,
perché al sol fugge quando può più mai.

E poniam che fra lor serpi non bruggi,
pur nondimeno à la natura piace
che da se stessa alcun verme lo fuggi.

Sassari, Buosa, Callari, e Stampace,
Arestan, Villa Nuova, et la Lighiera,
che le sue parti più dentro al mar giace.

Quest'Isola, secondo che si avera,
Genova, et Pisa, al Saracin la tolse,
laqual sentiron con l'haver, che v'era,
el mobil tutto à Genovesi tolse,
et la Terra a Pisani, et furon quivi
infin che Raganesi ne gli spolse.

Et più in giù,
parlar'uddimo, e ragionar all'hora,
che v'è un bagno, il quale ripara,
et salda ogni osso rotto in poco d'hora."

Ecco, il testo è finito, se volete leggerlo dall'originale lo trovate nel Dittamondo al libro III, canto dodicesimo.

Un saluto e a presto,

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 19 ottobre 2013

Sull'apertura del Mediterraneo secondo Gian Francesco Masdeu Barcellonese

Pubblicata a Firenze nel 1787, la "Storia critica di Spagna", riporta per il piacere degli appassionati di antichità del mondo tantissime notizie sui fenici, sulle colonne d'ercole e Tartesso.
Tra le notizie curiose vi è anche il ricordo dell'apertura del Mediterraneo a causa di un terremoto, notizia che ho già trovato in altre occasioni ma che merita tutta l'attenzione del caso viste le eventuali implicazioni sul passato sviluppo della civiltà umana ed europea in particolare.
Ma vediamo cosa dice il nostro autore (Tomo I, parte II, XXIV), mentre parla delle Colonne d'Ercole:

"Fu antica tradizione, che i suddetti monti di Abila e di Calpe, ultimi termini dell'Africa e Europa, fossero anticamente congiunti insieme, e che Ercole Fenice vi aprisse quella foce, per cui comunica l'Oceano con il Mediterraneo. Questa impresa, che sarebbe stata gloriosissima, da Plinio, e da Pomponio Mela, è stata tenuta per favolosa. Nondimeno Strabone, ed altri scrittori, l'hanno accennato, che l'apertura, che non facesse Ercole, potè veramente essere stata fatta dalla vemenza d'un terremoto, dalla forza d'una straordinaria marea, o da qualche altro simile sconvolgimento della Natura.
Alcuni dotti Ispagnuoli hanno abbracciato questo secondo sistema: e il Ferreras, avendo attribuito quest'accidente a quella gran siccità, di cui parlai nella Spagna Favolosa, ne stabilisce l'epoca negli anni 2.302 del mondo che corrispondono secondo la sua cronologia agli anni 1.698 prima di Cristo.
Ciò che sembra indubitabile si è, che lo stretto Gaditano coll'andar dei secoli si è andato successivamente slargando. Il geografo Scilace, vissuto cinquecent'anni prima dell'era cristiana, gli dà mezzo miglio solo di larghezza, Eustemone del secolo IV, quattro miglia scarse; Turranio Gracile, tragico spagnolo, anteriore di un secolo alla venuta di Cristo, cinque miglia; Tito Livio del secolo primo cristiano, sette miglia; Vittore Vitense del secolo V, dodici miglia; gli odierni Spagniuoli vi trovano nella minor distanza quattordici miglia di larghezza."

La distanza minima tra le due coste, oggigiorno, è di circa quattordici chilometri per cui sembra essersi stretto, probabilmente dipende dal differente livello del mare.

"Queste riflessioni fatte dopo il Florez dal Chiarissimo Lopez de Ayala nella sua storia di Gibilterra, gli resero probabile l'antica comunicazione dell'Africa con la Spagna, e la rottura poi succedutane per qualche accidente.
Io rilevo, dagli antichi autori, che lo stretto Gaditano una volta non solamente era men largo d'adesso, ma ancora men lungo.
Se da' tempi di Strabone e di Solino ha acquistata doppia larghezza, ha parimente acquistata doppia lunghezza. Descrivendolo essi lungo sol quindici miglia, mentre al presente ne ha più di trenta.
Dunque le due lingue di terra, l'Africana e la Spagnuola, quanto più si avvicinavano fra loro, tanto erano più strette e sottili. Possiamo con buona ragione immaginare che la terra, che separava l'Oceano dal Mediterraneo, fosse primitivamente uno spazio di cinque miglia, e forse non tanto. Non dovea poi quel terreno esser molto alto, giacché il successivo allargamento dello stretto, operato a poco a poco dalla forza dell'onde e delle maree, è segno evidente, che le due montagne di Abila e di Calpe, quanto più l'una all'altra si avvicinavano, tanto più andavano in declinazione formando falda e pianura.
Queste riflessioni non sol mi presentano possibile e facile la rottura dello stretto cagionata da qualche rivoluzione naturale ma mi rendon credibile ancora la tradizione antica che ne attribuiva ai Fenici l'aprimento. In una lingua di terra, o piana o poco montuosa, e di sole cinque miglia di larghezza, o forse meno, non era molto difficile aprire un canale di poca profondità, quanta bastasse perché le acque potessero superarlo, colla speranza che lo stesso mare dipoi dovesse per se medesimo andarlo sempre più affondando.
Il canale, progettato da Sesostri per congiungere il Nilo col Mar Rosso, era ben più difficile e faticoso del Gaditano, dovendo aver una lunghezza molto maggiore senza paragone: e pur fu cominciato da quel Re Egiziano, continuato da Dario Re de' Persi e terminato dal primo Tolomeo. Perché dunque non potrà darsi fede alla tradizione del canal Gaditano fatto dai Fenici? Questi eran ricchi e potenti, per testimonianza di tutti gli antichi scrittori crebbero smisuratamente in potere ed in ricchezza fin dal primo loro arrivo in Ispagna: dunque avean danaro e capitali per eseguire il gran progetto. Erano uomini ingegnosi ed industriosi, avvezzi a imprese grandi, e a superare i maggiori ostacoli; dunque non doveano atterirsi per la difficoltà dell'opra. Erano amantissimi della navigazione e trasportati pel commercio: dunque volentieri doveano intraprendere un lavoro che non avea altro oggetto che quel medesimo della loro passione. Apriron, come poi si dirà, per l'Andaluzzia molti altri canali: era dunque in voga, presso loro il sistema di aprir nuove strade, e nuove comunicazioni alle acque per facilitare il commercio, ed avean pratica in quel genere di lavori.
Io non arrossisco di richiamare a vita l'antica tradizione, a cui ordinariamente i severi scrittori di Spagna si vergognano di dar fede."

Ecco, qui mi fermo, non perché il testo non presenti più interesse ma perché vorrei che tutti riflettessimo su quanto letto.
Se fosse vero infatti la storia dell'Europa andrebbe riscritta.

Se volete leggere anche voi il testo potete trovarlo su Google books all'indirizzo: storia critica di Spagna...

Oppure precedenti interventi sullo stesso argomento:
- Dialogo dei massimi sistemi: sull'apertura dello stretto di Gibilterra
- Questioni Naturali (Seneca)



Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 13 ottobre 2013

Roma: musei Capitolini


Dobbiamo ringraziare Papa Sisto IV se possiamo ammirare le opere d'arte oggi conservate ai musei Capitolini. Fu lui infatti che nel 1471 diede inizio alla collezione.
Con il passare deglia anni furono in tanti a collaborare ad arricchire il museo che oggi possiede opere stupende che coprono diversi millenni di storia.
Ogni angolo del museo è una sorpresa...
 







Distribuito su due palazzi, Palazzo dei Conservatori e Palazzo Clementino-Caffarelli, si affaccia sulla splendida piazza del Campidoglio con al centro la statua equestre dell'Imperatore Marco Aurelio (in copia, l'originale è all'interno del museo).
Dal Tabularium è possibile ammirare i resti dei Fori Imperiali.
 







La testa di Medusa, opera di Gian Lorenzo Bernini, affascina ancora oggi, come un tempo doveva fare la regina delle Gorgoni con chi la guardava! Non è difficile restare pietrificati di fronte alla maestria del suo creatore...


La Lupa, simbolo di Roma... e inizio della sua storia!

 



 
L'Imperatore Commodo, che nella sua crudeltà, riuscì a farsi maledire dal popolo romano, vestito da Ercole...
 



Marco Aurelio, l'originale...





E poi la pinacoteca...








Dalla terrazza panoramica Roma da sfoggio di sè...


 

 
 
... in tutto il suo splendore!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO