lunedì 17 marzo 2014

I custodi della storia (Cap. II) - Il viaggio

Anno del signore 1290, 2 gennaio.
 
Era una fredda giornata d'inverno quando Nicola e Lazzaro lasciarono Assisi alla volta di Genova dove li attendeva una nave per la Sardegna. Da li sarebbero partiti poco dopo alla ricerca di una terra lontana e sconosciuta, nel lontano ovest, sanza sapere se sarebbero mai tornati a casa.
Nicola, il più anziano, aveva compiuto da poco quarant'anni anche se non li dimostrava. Portava i capelli tagliati corti e una folta barba nera incorniciava la sua faccia squadrata e dalla pelle abbronzata. Il naso aquilino gli dava un'aria nobile e forte. Era nato ad Assisi quarto figlio di una famiglia di ricchi commercianti ma era entrato in convento già all'età di dodici anni dove aveva preso gli ordini minori.
Lazzaro ne aveva dieci in meno di anni, anche lui era nato ad Assisi ma apparteneva ad una famiglia povera. Era alto poco più di Nicola ma di corporatura più esile. Di carattere calmo ma fermo nelle decisioni, si era subito trovato bene con Nicola che considerava un po' come un fratello maggiore. Il padre era stato soldato di ventura ed era morto in una scaramuccia con alcuni commilitoni. I frati lo avevano accolto con amore dopo la morte della madre quando aveva appena compiuto otto anni.
Entrambi vestivano il saio scuro dei francescani, portavano ai piedi dei vecchi sandali aperti e intorno al collo il Tau, la croce di Francesco, il fondatore del loro Ordine. Nella povera bisaccia di cuoio custodivano i loro tesori, alcuni testi di preghiere, un antico diario di viaggio, alcune mappe e l'occorrente per scrivere e disegnare.
Avevano discusso a lungo del viaggio col loro fratello Giovanni. Era stato Giovanni a raccontargli della mappa e della possibilità di raggiungere il lontano Oriente viaggiando verso Occidente. Giovanni era stato il loro insegnante di Latino e greco antico e le sue conoscenze dei classici erano enormi. Spesso, durante il lavoro, gli raccontava le storie che aveva letto tanti anni prima con una tale disinvoltura che il tempo passava senza che neppure se ne accorgessero. Nicola e Lazzaro ci avevano pensato tante volte a quel fantastico viaggio verso oriente e ora ora che lui era morto non avevano più nessuno che li trattenesse.
Guidati dalla fede nel loro Signore e dalla Regola che li avrebbe aiutati a sopportare un così lungo viaggio partirono sicuri di riuscire dove altri avevano fallito.
Sapevano bene a cosa andavano incontro, o forse era l'esatto contrario a spingerli, l'incoscienza, ma erano pronti a mettere a rischio le loro vite per conquistare nuove terre alla fede.
Il loro successo sarebbe stato il successo di fratello Giovanni. Dio li avrebbe guidati e soccorsi.
Non erano soli nell'impresa. Con loro viaggiavano i giovani rampolli di alcune famiglie liguri, Ugolino Vivaldi e Vadino, Guido e Teodisio della famiglia Doria. Quattro giovani avventurieri che avevano fondato una società con l'intento di raggiungere le Indie e tentare così la fortuna.
Per il viaggio allestirono due navi, la Sant'Antonio e l'Allegranza, dando fondo ai risparmi accumulati dalle loro famiglie e con la loro ciurma costituita da marinai, pirati redenti e semplici mozzi, partirono alla ricerca di fortuna, alla volta di una terra misteriosa e ricchissima di cui avevano sentito parlare nelle antiche storie che si tramandavano in famiglia.
Il viaggio sarebbe stato lungo e difficile ma così è la vita.
Solo sei persone sapevano approssimativamente cosa li attendeva. Ne avevano discusso a lungo coi tre frati prima di farsi convincere ad investire tutte le loro fortune in una impresa che poteva significare la fortuna di tutti come la morte.
Durante la preparazione del viaggio avevano pianificato tutto per stare in mare tre mesi di seguito prima di fare scalo. I genovesi avevano conosciuto i tre frati durante un viaggio di lavoro ad Assisi. Avevano cenato nella stessa osteria e bevuto vino rosso alla stessa tavola fino a che non avevano sentito parlare fratello Giovanni che raccontava di una sua lettura in cui era descritto un viaggio in una terra lontanissima e immensa ad ovest della Spagna, oltre l'Oceano. Giovanni assicurava che nel libro che aveva letto alcuni anni prima vi era una mappa e lui era certo di averla vista. Gliela avrebbe mostrata alla prima occasione dato che il libro sicuramente si trovava ancora nella biblioteca della famiglia del fondatore dell'Ordine. I genovesi avendo sentito Giovanni parlare di questa terra lontana, avevano loro offerto da bere e cominciarono a far domande. Giovanni era sempre felice di avere attorno giovani vogliosi di ascoltarlo raccontare le storie da lui lette e non aveva lesinato in particolari. Raccontò di una terra straniera, il cui ricordo era perduto nel tempo, una terra immensa che si estendeva da un estremo all'altro del mondo e che millenni prima era stata raggiunta dai viaggiatori che partirono dalle coste del mediterraneo.
Così avevano stretto amicizia ed era nata l'idea del viaggio.
Ci volle del tempo prima che la mappa fosse ritrovata e che i preparativi per il viaggio fossero completati. Una brutta polmonite si portò via fratello Giovanni che non poté assistere alla partenza dei suoi giovani confratelli.
Nicola e Lazzaro partirono da Genova in una giornata di primavera, costeggiando la Corsica, diretti verso Castelgenovese, castello e porto del nord Sardegna appartenente alla famiglia Doria. Da lì, dopo aver fatto rifornimento di viveri e acqua, sarebbero ripartiti dieci giorni dopo alla volta delle colonne d'Ercole.
Il tempo era buono e non ci sarebbero state più soste, fino all'arrivo in Africa sulla costa Atlantica, dove avrebbero fatto scalo all'altezza del fiume Geba. Il viaggio durò trentadue giorni durante i quali i marinai oltre al loro lavoro alle vele passavano il tempo a pescare per integrare il cibo della cambusa con del pesce fresco. Un giorno un forte temporale rischiò di mandare a picco l'Allegranza ma proprio quando la situazione si era fatta più critica il temporale cessò e il tempo cambiò con insolita velocità. I due frati furono visti pregare in ginocchio per la salvezza delle anime con le braccia rivolte al cielo, incuranti della pioggia e dei fulmini, e questo era stato sufficiente per indurre i marinai a credere che lo scampato pericolo fosse opera della loro intercessione verso dio.
Erano le dieci del mattino quando il nostromo avvisò il capitano che erano arrivati a Geba. Un fiume di acqua dolce e fango si inoltrava per miglia e miglia prima di disperdersi nell'acqua azzurra dell'oceano, segnalando ai marinai esperti la sua inconfondibile presenza.
Gettarono le ancore a circa mezzo miglio dalla riva fangosa poco oltre la foce del fiume. Un gruppo di selvaggi aveva acceso un fuoco per segnalare un approdo sicuro e l'intenzione di scambiare le proprie merci, principalmente frutta e acqua, con i marinai. Era una pratica comune lungo le coste dell'Africa. Spesso i marinai lasciavano le loro mercanzie sulla riva dove in precedenza gli abitanti della zona avevano lasciato le loro merci e lo scambio avveniva sulla fiducia. Altre volte era possibile scendere a terra e trattare con i commercianti del luogo.
La sosta fu breve e tranquilla. I marinai sbarcarono per fare rifornimento nel vicino villaggio. Comprarono cibo fresco per altri tre mesi di viaggio in alto mare e cinque giorni dopo già si ripartiva. La sera prima di partire tre marinai scesero a terra mezzi ubriachi e allontanatisi nella giungla all'inseguimento di una specie di maiale selvatico non tornarono più indietro.
La mattina dopo, all'alba, il convoglio prese il largo con tre marinai in meno, diretto senza alcun tentennamento ad ovest.
La costa si allontanava velocemente. Le due imbarcazioni avanzavano velocemente nell'oceano spinte da un vento forte e regolare. I primi giorni di viaggio il tempo si mantenne buono anche se il vento aumentava costantemente la sua forza.
Il quarto giorno di navigazione, poco prima di mezzogiorno, il cielo cominciò a farsi scuro e all'orizzonte si profilava un grosso temporale. Le onde cominciarono a crescere di altezza fino a raggiungere i dieci metri di altezza. I galeoni, grandi e sicuri fino a quel momento, sembravano diventati dei gusci di noce in balia del mare. Incapaci di qualsiasi manovra i marinai della Sant'Antonio ammainarono le vele sperando che questo li aiutasse a resistere al vento e alla forza delle gigantesche onde. L'Allegranza invece volse la prua verso est per aggirare il temporale con l'unico risultato di venire trascinata lontano dalla Sant'Antonio. Dopo pochi minuti le due navi si persero di vista. Per tre giorni e tre notti gli uomini dell'Allegranza restarono in balia della burrasca cercando di lottare per sottrarre la nave alla furia del mare e dei venti. Il temporale infuriava tutto intorno a loro e la nave cigolava sinistramente sotto i possenti colpi delle onde, diffondendo sinistri presagi tra gli uomini spossati e scoraggiati. Il quarto giorno il vento era calato leggermente e le nuvole si erano aperte ad ovest lasciando intravvedere un lembo di cielo azzurro in lontananza.
La Sant'Antonio era stata più fortunata.
Il temporale non li aveva risucchiati al suo interno ma li aveva sospinti indietro, verso le coste dell'Africa lasciate qualche giorno prima. Sfortunatamente il galeone aveva subito danni all'albero maestro e non era più in condizione di percorrere un lungo viaggio. I marinai erano troppo sfiduciati per proseguire e due giorni dopo approdarono a poca distanza dal fiume Geba dove cominciarono immediatamente i lavori di riparazione, sperando di rivedere di li a poco i compagni della Allegranza. Le cose sarebbero andate diversamente, ma nessuno poteva saperlo.
Il mare aveva deciso diversamente.
Sarebbero passati quarantasei giorni prima che l'Allegranza e il suo equipaggio potesse vedere in lontananza una scura linea di costa e i due gruppi non si sarebbero mai più rivisti.
A bordo dell'Allegranza il Capitano Ugolino Vivaldi e il nostromo Vadino Doria, accompagnati da frate Nicola proseguirono il viaggio verso ovest.
Prima di lasciare le coste dell'Africa Nicola e Lorenzo si erano salutati augurandosi di potersi riabbracciare presto. Ognuno di loro portava con se una copia della mappa. Il viaggio era stato lungo e faticoso ma niente in confronto a ciò che li aspettava.
Dopo il temporale che li aveva separati dalla Sant'Antonio il viaggio proseguì per venti giorni senza particolari problemi. Il ventunesimo giorno dalla fine del temporale alcuni giovani marinai poco abituati alle privazioni avevano cercato di convincere gli altri a tornare indietro. Il Capitano Vivaldi li aveva sentiti confabulare tra loro e lamentarsi con il resto della ciurma. Li aveva affrontati di petto, minacciandoli di buttarli a mare se non avessero smesso immediatamente.
Uno dei tre estratto il coltello e aveva provato a saltargli addosso ma era stato troppo lento, il Capitano l'aveva passato a fil di spada sul ponte della nave per poi buttarlo ai pesci, ancora vivo.
- Volete seguire il vostro amico?
Disse torvo ai due mozzi che lo guardavano con il terrore negli occhi.
- Liberi di scegliere. O proseguite con me o potete buttarvi in acqua. Potrete proseguire a nuoto verso la costa se ne avete la forza, oppure più probabilmente, finirete nella pancia di qualche grosso pescecane come quelli che potete vedere banchettare la sotto. La spuma dell'acqua, bianca fino a qualche istante prima, era diventata rossa del sangue del loro compagno le cui parti si contendevano tra grossi squali dalle enormi pinne grige.
Che scegliessero liberamente la loro sorte.
A malincuore i due giovani ripresero il lavoro dietro stretta sorveglianza del nostromo e dei marinai più anziani, più abituati alla dura disciplina di bordo.
- Siete stati incoscienti e fortunati voi due. Due anni fa il capitano della nave sulla quale ero imbarcato per molto meno ha fatto impiccare un mozzo all'albero maestro! - Disse uno degli anziani ai giovani, guardandoli di sottecchi.
- Finitela di lamentarvi o vi abbandoneremo, vi siete imbarcati volontariamente e non si torna indietro fino a che non lo deciderà il Capitano. E poi sarebbe da stupidi morire adesso che il viaggio è quasi giunto alla fine.
In effetti i più esperti avevano già notato i segni distintivi della presenza di una terra non troppo lontana. Da due giorni il numero degli uccelli acquatici era aumentato e le acque diventavano a tratti più chiare. Rami e foglie si intravvedevano in superficie, trascinati dalla corrente, segno inconfondibile della presenza di una terra non troppo lontana. Qualche giorno di navigazione al massimo e la terra sarebbe stata avvistata.

Il due luglio dell'anno del signore 1292 il marinaio di guardia urlò con quanto fiato aveva in corpo:
- Terra! Terra!
Il Capitano si diresse immediatamente a prua per osservare l'orizzonte. Alzò la mano destra all'altezza della fronte per proteggersi gli occhi dal sole e confermò la scoperta con un cenno del capo.
Di fronte a loro si stagliava la costa di una terra sconosciuta, solo accennata con una linea nera sulla mappa dei due francescani.
Il Capitano Ugolino Vivaldi accompagnato dall'amico e nostromo Vadino Doria, da fratello Nicola e dai centododici marinai superstiti si trovarono di fronte quella linea scura di terra che si estendeva a perdita d'occhio all'orizzonte.
Ancora un giorno di viaggio e sarebbero finalmente sbarcati.
Il tre luglio il Capitano mise piede sulla terra ferma prendendone possesso in nome del Comune di Genova. Fratello Nicola ne era testimone di fronte a Dio ma non era più tanto sicuro di aver fatto la cosa giusta.
La morte del giovane marinaio l'aveva colpito profondamente. Non avrebbe mai pensato che il Capitano Vivaldi, quel giovane simpatico conosciuto nella taverna di Assisi, avrebbe potuto uccidere. Forse avevano sbagliato tutto – pensò – non era questo che immaginava prima di partire. Avevano messo in conto sofferenze e privazioni ma non gli omicidi. Se aveva ucciso un suo uomo senza batter ciglio, cosa avrebbe potuto fare ad uno sconosciuto? Ma oramai era tardi per tornare indietro, occorreva riporre le speranze nelle mani del Signore.
Appena messo piede sulla spiaggia si gettò a terra in ginocchio e pregò dio padre perché proteggesse la sua anima.

Vai al cap. III: Un'occasione mancata.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

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