Il
nuraghe vicino a casa mia era un ottimo nascondiglio.
L'aria
al suo interno era sempre fresca, il buio profondo accoglieva gli
ospiti non appena si varcava la soglia, proiettandoli in un mondo
antico e ancora sconosciuto.
Ogni
volta che vi entravo mi sembrava che il tempo si fermasse. Respiravo
lentamente addossato alle rocce fredde, ascoltando il battito del
cuore, osservando protetto dal buio, che nessuno venisse a cercarmi.
Ero
sempre stato ossessionato dal mistero rappresentato da quegli enormi
torrioni di roccia costruiti con blocchi appena sbozzati.
Non
ne avevo paura, anzi, tra le rocce mi sentivo a mio agio, mi
trasmettevano una sensazione di sicurezza e forza che aveva del
soprannaturale.
I
miei compagni di gioco correvano per i campi, frugavano tra i
cespugli, giravano attorno al nuraghe ma raramente vi si
addentravano, forse spaventati dal buio, forse dall'odore penetrante
del muschio che indipendentemente dalla stagione era sempre presente
al suo interno.
Il
nuraghe era un nascondiglio perfetto e al suo interno, appiattito
contro le spesse pareti, mi sentivo perfettamente a mio agio, come se
vi fossi nato.
Uno
dei miei preferiti era il nuraghe “Is paras”, così chiamato
perché nell'ottocento era appartenuto ai padri scolopi. Si trovava a
poche centinai di metri dalla scuola media e io vi andavo spesso a
giocare con i miei fratelli o con gli amici.
Vi
giravo attorno come per controllare che niente fosse cambiato
dall'ultima visita e poi mi arrampicavo lungo le mura per raggiungere
la sommità. Non era difficile salire anche perché qualcuno aveva
inserito dei ferri tra le rocce che permettevano di salire
agevolmente, anche se occorreva fare attenzione perché se si cadeva
si rischiava un volo di diversi metri con atterraggio sulle rocce.
Arrivato in cima mi sedevo su uno dei grossi massi e restavo a
pensare, cingendo le ginocchia con le braccia, insensibile al vento
freddo che non più ostacolato dalla vegetazione mi colpiva la
faccia. Immaginavo guerrieri antichi dalle forme più strane che
protetti dalle mura lanciavano frecce dalla punta di pietra verso
aggressori stranieri che avanzavano veloci. I guerrieri nuragici
indossavano corte tuniche e elmi cornuti. Braccia e gambe erano
protette da placche di cuoio, come nelle riproduzioni dei bronzetti
ritrovati nei nuraghi e spesso raffigurati nei libri di storia presi
in prestito dalla biblioteca. Altre volte raggiungevo la mia
postazione di osservazione portando con me un vecchio album da
disegno e disegnavo il paesaggio circostante.
Nel
mio disegno solitamente le colline, ciuffi d'erba e vecchie querce da
sughero circondavano l'elemento principale, il nuraghe alto e
maestoso, che si stagliava contro il cielo al tramonto. Oppure salivo
e scendevo per la stretta scala in pietra, ricavata all'interno delle
mura facendo attenzione a non mettere un piede in fallo per evitare
brutte cadute. Quelle pietre enormi utilizzate per costruire mura
spesse anche cinque metri mi proteggevano da tutto e da tutti e
sicuramente avevano svolto lo stesso compito nei confronti delle
antiche popolazioni.
-Alessandro,
noi rientriamo a casa! Mi urlavano gli amici stanchi di aspettare,
allontanandosi di corsa verso il paese. Solo allora mi destavo dai
miei pensieri e li raggiungevo per continuare a giocare con loro a
pallone lungo la strada.
Quello
era il mio mondo o forse lo è ancora, ed io lo vivevo intensamente e
senza preoccupazioni. Come era bello essere ragazzo!
Col
tempo lasciai perdere il gioco ma continuai a visitare i nuraghi,
alla ricerca di ricordi dell'antichità. Chissà quanti avevano
abitato quelle torri, vi avevano vissuto e vi erano morti.
Ne
visitai tantissimi, più e più volte, girando la Sardegna in lungo e
in largo sempre alla ricerca di un punto di vista nuovo che mi
permettesse di avvicinarmi maggiormente ai segreti che ai miei occhi,
da chissà quanti millenni, essi custodivano.
Poi
un giorno mi risvegliai cresciuto e a malincuore lasciai la mia terra
per andare a studiare in Continente.
Era
una cosa ancora molto frequente per noi sardi.
Arrivati
ad una certa età l'isola sembra farsi stretta, troppo piccola per la
voglia di scoprire il mondo, troppo povera per chi vuole costruirsi
un futuro e una famiglia.
Così
un giorno si acquista un biglietto di sola andata e ci si lascia
dietro i parenti, il paese, gli amici, la ragazzetta e tutte le
fantasie accumulate negli anni su quelle fantastiche costruzioni
tronco coniche per partire alla ricerca di qualcosa che nella maggior
parte dei casi non arriverà mai: un pizzico di fortuna!
Molti
di questi giovani un giorno faranno ritorno nella loro terra,
acquisteranno una casa in un paese di mille abitanti e vi passeranno
gli ultimi anni della loro vita, spesso soli e dimenticati.
Ma
non io, questa cosa non l'avevo mai messa tra le opzioni possibili.
Io avrei fatto una vita diversa, mi sarei realizzato, sarei diventato
un archeologo o giornalista (o forse scrittore) e sarei tornato in
Sardegna di tanto in tanto per vedere i miei parenti nel piccolo
paese di Gesico, nella Trexenta del Campidano, in provincia di
Cagliari o a Isili per trovare gli amici e magari entrare ancora una
volta nel nuraghe della mia gioventù.
Solo
buoni propositi, forse sogni di un ragazzo la cui vita era ancora
tutta da scrivere!
Partii
per Milano dove avrei frequentato l'Università degli Studi, avrei
seguito un percorso che mi consentisse di approfondire la storia, la
mia materia preferita e le lingue antiche.
Avevo
vinto una borsa di studio, l'impegno alle scuole superiori mi
consentì di iscrivermi gratuitamente al primo anno di corso. Avevo
diritto all'alloggio e alla mensa e con i risparmi che avevo messo da
parte lavorando durante l'estate la vita non sarebbe stata male
almeno per i primi tempi.
Comunque,
arrivato a Milano mi resi conto che la vita era più cara di quanto
potesse apparirmi da ragazzo, quando le spese sono sostenute dai
genitori. Così, per cercare di vivere un po' meglio senza gravare
sulle loro spalle mi trovai un lavoretto che mi portava via poco
tempo e mi consentiva di studiare. Solo alcune ore al giorno ma
andava bene così.
Appena
arrivato all'università avevo notato un cartello appeso al cancello
di un ricco condominio, “cercasi portiere”, diceva. Sembrava
proprio il lavoro adatto a me. Mi presentai all'amministratore, un
vecchio avvocato piegato in due dagli anni e con indosso un
impeccabile completo nero d'altri tempi che mi interrogò come fossi
stato un ragazzino delle elementari. Le domande vertevano sulle mie
origini, la famiglia, la mia presenza a Milano e sul perché volevo
lavorare. Risposi a tutto senza esitazione e così superai il
colloquio. Cominciai a lavorare prima ancora di iniziare a
frequentare i corsi all'università. Un vero colpo di fortuna!
Milano
era una città caotica.
Passare
da un paese di poco più di mille abitanti dove tutti si conoscono ad
una metropoli di quelle dimensioni era stato scioccante ma mi abituai
velocemente. Imparai subito a muovermi con la metropolitana e
cominciai a girare a piedi per visitare i luoghi più suggestivi. La
mia prima volta in centro fu indimenticabile.
Sbucai
fuori dalla metroproprio
ai piedi della Galleria Vittorio Emanuele II, che con il suo
imponente Arco Trionfale ti fa sentire una formica! Che mente doveva
essere il suo architetto, Giuseppe Mengoni; che abilità gli artisti
che vi lasciarono la loro impronta a metà Ottocento.
Impiegarono due anniper congiungere Piazza del Duomo e Piazza
della Scala. Epoi finalmentel'inaugurazione alla presenza
del Re! Il loro lavoro era tutt'ora ammirabile. Mi chiedo se
oggi esistano ancora simili ingegni.
Ricordo
che mi voltai d'istinto e sulla mia sinistra comparve il Duomo. Come
descriverlo? Era una costruzione maestosa per le dimensioni e la
ricchezza delle decorazioni. Restai senza parole e vi girai intorno
con il naso all'insù rischiando in diverse occasioni di andare a
sbattere contro alcuni turisti che come me ammiravano il duomo.
Appresi
poi che la costruzione ebbe inizio nel 1386, come ricordava la targa
della posa della prima pietra, su impulso dell'Arcivescovo Antonio de
Saluzzi e del Duca della Città, Gian Galeazzo Visconti e terminò
cinque secoli più tardi per volere di Napoleone. Più grande del
Duomo di Milano c'era solo San Pietro, la Cattedrale di Siviglia
eSaintPaul a Londra.
All'interno
mi persi. L'oscurità del luogo mi intimoriva! O forse era lo spazio
immenso che mi sovrastava a darmi le vertigini.
Le
vetrate, enormi, stupende, lasciavano filtrare pochissima luce che
rendeva appena apprezzabile la maestosità della costruzione e le
opere che conteneva. Sopra il Duomo, protetta dalle guglie della
Cattedrale, la Madonnina realizzata da Giuseppe Perego e messa in
opera nel 1774, diventata simbolo di Milano.
Uscii
dal Duomo impressionato dalle dimensioni e passeggiai a lungo per le
vie attorno.
Una
delle cose che notai subito fu l'immagine di un serpente che ingoia
un bambino. La si trovava ovunque, dipinta o scolpita su stemmi in
pietra nei grandi palazzi lungo le vie di Milano.
Cosa
poteva significare, mi chiedevo? Era il simbolo del casato dei
Visconti – scoprii poi – e simboleggiava potenza ed eternità
della stirpe. Eraun simbolo particolare e inquietante che mi metteva
a disagio.
Apoche
centinaia di metri dall'uscita della galleria Vittorio Emanuele II si
apriva piazza della Scala conal centro la statua dedicata a Leonardo
da Vinci. Avevo sempre provato una grande ammirazione per il grande
scienziato toscano e mi fermai qualche istante a riposare nella
panchina ai suoi piedi.
Mi
guardai attorno e cominciai a percorrere la strada che portava in
direzione del Castello che si intravvede in lontananza, appartenuto
prima ai Visconti e poi agli Sforza. Visitai il castello
impressionato dalle dimensioni. Conoscevo bene l'immagine per averla
vista tante volte impresso sul francobollo marroncino da dieci lire
ma dal vivo era tutta un'altra cosa. Il castello più grande che
avevo visitato in precedenza era quello di Sanluri ma non si poteva
fare nessun paragone. Quella sera, al mio rientro in stanza, passai
delle ore a studiare la guida di Milano che avevo acquistato la
mattina per cercare di capire ciò che avevo visto e di conoscere la
storia della città che mi avrebbe ospitato per i prossimi anni. Era
tutto così grande intorno a me che i nuraghi in un attimo erano
diventati minuscoli.
L'idea
che tra loro e la Milano che mi circondava erano passati almeno
tremila anni non mi passava minimamente per la mente.
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al capitolo II: Il
viaggio
Alessandro
Giovanni Paolo RUGOLO
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