Con la scoperta di alcuni megaliti vicino una località chiamata Nardodipace, possiamo iniziare il nostro viaggio per affrontare una questione mai molto approfondita, i primi abitatori della Calabria.
Vi ricordo che con questo nome in tempi molto antichi però si indicava la penisola salentina, terra dei Messapi, alcuni gruppi dei quali, chiamati Calabri, si spostarono nella regione, assumendo il nome di Calabria in maniera definitiva in epoca bizantina, dopo essere stata, nella sua estremità meridionale, chiamtaa Italia.
Gli Italioti o gli Itali, non furono i soli abitanti del luogo, perché in diversi periodi, momenti, questa terra fu invasa dai Siculi, dai Morgeti, dai Tirreni, Oschi, Opici, Iapigi, Enotri, Caoni, Bruzi, Ausoni, Aurunci, e altri..
I megaliti, potrebbero ricollegarci proprio alla civiltà degli Aurunci?
Chi erano?
Un antico popolo iperboreo che, secondo alcuni studiosi, forse invase la Britannia portando con sé il culto stellare di Stonehenge (Beinstein, Pietra del Signore), e che si sarebbe stanziato, in epoche preistoriche, in diverse località del mediterraneo.
A Nardodipace come a Malta avrebbe lasciato la sua impronta megalitica…
Dietro il mito locale del culto della Pietra del Signore, come anche in quello più fiabesco della chioccia dai pulcini d’oro, dei sacrifici umani, in particolare di neonati, e di tesori custoditi da demoni terioformi, si nasconderebbe l’occulta origine architettonica di strutture sepolcrali o di culto che potevano rappresentare delle mistiche soglie verso dimensioni ignote.
Tali strutture granitiche dette “a porta”, costituite da due pilastri sormontati da un’architrave, che molto ricordano i dolmen eretti dai Celti, cioè le mura megalitiche della civiltà micenea o dell’omerica Troia ( e forse di Templi di altre civiltà note), sono una chiara testimonianza di una cultura che aveva conoscenze avanzate nella lavorazione della pietra e degli incastri litici.
Cos’è la Pietra del Signore?
E’ una pietra che pesa circa 200 tonnellate ed i pilastri rocciosi sono alti circa 6 metri.
Una presenza che ben rappresenta quelle popolazioni che oltre cinquemila anni fa, si insediarono in un’area che va da Nardodipace a Stilo, da Serra San Bruno alla Ferdinandea, in una zona chiamata Piana di ciano. (questa parte si può rivedere, magari indicando in generale questa zona solo come Piana di Ciano).
Le domande sono tante, che si sia trattato di mura di cinta per proteggere una comunità o forse di edifici di culto, il mistero della loro presenza non si altera e rimane vivo. Tutte le ipotesi e le suggestioni che si mescolano agli interrogativi vengono inseriti nell’immaginario collettivo, nei miti, nei racconti fiabeschi. Dietro la cultura solare legata all’antica scienza della stirpe auruncica, oppure ausonica, che ha lasciato delle tracce megalitiche, si celebrerebbero forse i segreti più remoti della cività degli antichi Sumeri. (Shumer da Schem-ur, il popolo dello Schem, la pietra celeste).
Chi erano questi uomini?
Questa stirpe iperborea, apparsa sulla terra in epoca neolitica, era la depositaria della gnosi sapienziale e della sacra scienza che dalla Mesopotamia giunse fino al sud Italia.
Tant’è vero che l’anagramma dello stesso nome di Calabria, Air Balak, significa appunto Asia Superiore, ovvero Stirpe Iperborea.
Chi erano gli Aurunci e gli Ausoni?
Si definivano figli del sole, e che avrebbero invaso la Bretannia con il loro culto, attraversarono anche il filone mitologico di Brettium, e che coniugarono il loro sangue con la dinastia di Enea ed Ascanio che si vantava di essere stata generata dal lampo e dal tuono, come il figlio mostruoso di Vulcano, Broteo.
I Brezi o i Bruzi
Questi, costituivano una popolazione che si stabilì intorno al IV sec. a. C. nella zona più meridionale della penisola, arroccandosi sulle montagne, in quanto le coste erano occupate dalle colonie megalo-elleniche. Combatterono contro Alessandro d’Epiro e successivamente contro Agatocle di Siracusa, riuscendo così ad ottenere l’indipendenza.
Il loro centro più importante sembra fosse Numestro, l’attuale Nicastro. Appartenevano alle genti lucane; i greci li chiamavano brittici, mentre i latini li dileggiavano con il termine di bruttii, o bruttates. Ma la voce Brezia o Brittia deriverebbe dal celtico Bret, foresta, o meglio dal caldeo brot, resina, ovvero ancora dal siriano brut, pasta resinosa. Ma anche la voce Calabria potrebbe derivare dall’ebraico caleb, che significa resina, in quanto il suo suolo era ricoperto da fittissime foreste di piante resinose. E calabri vennero definiti gli appartenenti ad uno dei due gruppi in cui si divideva il popolo dei Messapi, di origine greca.
Secondo un’ipotesi tanto affascinante quanto però non supportata da prove scientifiche, i culti post-diluviani, da alcuni definiti venusiani, dei popoli aramaici, discendenti di Noè e di Aschenez, sarebbero stati comuni sia ai greci della Megalo Ellade che ai Celti. Per cui la mistica della venus Genetrix, la madre di Enea, e della regia stirpe Beinstein, avrebbe avuto una sua continuazione proprio nel meridione d’Italia nei normanni e nei Veblinghen, attraverso la genealogia dei principi bizantini Puoti, discendenti di Davide ed aventi per stemma araldico proprio il suo leone.
Le testimonianze megalitiche post-diluviane sarebbero per lo più una sorta di drammatizzazione planimetrica di costellazioni in cui è simbolicamente dischiusa la soglia del mito. Queste architetture celano una conoscenza indubbiamente superiore per l’epoca neolitica, quale quella che solo una stirpe eletta poteva custodire sulla terra.
Quella gnosi fu racchiusa nel sigillo della sacra Scienza, dapprima dai Sumeri, in seguito da quanti vennero ad ereditare la custodia dei culti misterici e della luce della civiltà, dagli antichi egizi ai greci, dai Celti ai Romani, e così via di seguito. Le pietre giganti, lavorate da mani umane, riporterebbero così alla dinastia trascendente dei Veiblinghen, e le Pietre del Signore altro non sarebbero che una manifestazione del culto divino e della stirpe reale.
Il termine Veib, con cui era indicata anche l’antica Vibo, rinominata poi Monteleone, richiama anche il mito del Monte di Venere, di quella Venus Genetrix, fattrice della stirpe divina dei regnanti, implicitamente stigmatizzata dalla chioccia dalle uova d’oro di Teodolinda di Bisanzio. La mitologia classica ci narra di Ausonio, figlio di Ulisse e di Calipso, (la ninfa dai bei ricci), che sarebbe stato il capostipite di una tribù meridionale degli Umbri, gli Ausoni, che per un certo periodo avrebbero dato il loro nome all’intera penisola, detta pertanto Ausonia, ed ancora al mare che bagna la costa calabra. Nell’età del ferro abitavano il Sannio, ed i latini li definivano Osci, cioè operosi mentre i greci li chiamavano Opici e li ritenevano Osci che si erano riuniti ai Sanniti, anche se in origine doveva trattarsi di gente di lingua indoeuropea, affine agli Ausoni, algi Etruschi, ai Latini ed ai Siculi.
Per Aristotele Oschi o Opici, Aurunci ed Ausoni erano la medesima popolazione. La voce Opici o Opigia, deriva dal greco Ops, terra, che per i Romani era la divinità consorte del dio Saturno. Le altre etimologie si riferiscono ad Ofs, che invece significa serpente, e ci rammenta i culti ofidiani descritti nella Bibbia ed ancora presenti nel centro-Italia ( esempio Cucullo), mentre nell’etimo, penke, riconduce alla pece, la pasta resinosa più volte citata.
Gli Aurunci sarebbero emigrati in parte nel Lazio, in parte in Campania, dove vengono ricordati dall’etimo della città di Sessa Aurunca. Nel V sec. a. C., dal Gargano discesero i lapigi provenienti dall’Illiria e dall’Epiro, ed in Calabria si confusero con i Messapi di origine ellenica.
Gli itali o Italioti, invece appartenevano ad un unico ceppo, che secondo Aristotele, traeva la sua etimologia dal nome del re degli Enotri, Italo, il quale civilizzò il suo popolo, fornendogli ordini e leggi, facendolo uscire dal selvaggio mondo dei boschi incolti, ed istruendolo nell’arte dell’agricoltura. Pertanto viene considerato il primo re dell’Italia di allora.
Secondo Antioco Siracusano, però, la parola Italia apparve per la prima volta in un trattato di pace con i Tarantini. Il nome deriverebbe da Vitelia o Vitola, per via di un episodio, relativa ad una delle dodici fatiche di Ercole. L’eroe vi avrebbe smarrito uno dei vitelli degli armenti di Gerione, in greco anche chiamato Italos, che, come sostiene Varrone nel “de Re Rustica”, vuol dire toro.
Ercole, poi, nell’idioma egizio, corrisponde a Con, il nome stesso di quella misteriosa popolazione, i Caoni, della quale sarebbe potuto essere identificato come un progenitore. Per altri invece, l’eroe eponimo sarebbe potuto essere Caone, figlio di Priamo ed Ecuba, nonché fratello dell’indovino Eleno, il quale avrebbe generato quelle genti provenienti dall’Epiro nord-occidentale, e precisamente da quella regione che da loro era detta Caonia,. I greci li definivano Xaones ed i latini Chaones, ma il loro nome deriverebbe da Kon, valente, robusto, da Kannen o da Kama, valore, potere.
Molto più complicato e contorto il loro legame con i lucani (Lu-Caoni) e con gli Enotri. I quali ultimi discendevano dal figlio di Cillene e di Licaone (Li-Caone), il re d’Arcadia, Enotrio, che era venuto ad occupare l’estremità della penisola. Inizialmente si stabilirono nella fascia che unisce il Golfo di Squillace a quello di S.Eufemia. L’etimologia greca riconduce al vino, quella ebraica alla pece.
Per altri autori, l’etimo Italia è da considerare una derivazione dal fenicio Itar, pece, per via della ricchezza delle foreste che ricoprivano le cime del pollino, della Sila, delle Serre e dell’Aspromonte e che fornivano ai Romani la resina per calata fare le navi della loro flotta.
Gli Itali occuparono in un primo tempo solo una piccola parte della regione. I Romani estesero il territorio della cosiddetta Italia sino a comprenderla per intero. Nel III a.C. racchiudeva tutta la parte peninsulare dell’Arno sino allo Stretto di Messina, e nel 42 a. C. arrivò a designare tutta la penisola di qua delle Alpi.
I Morgeti, origini.
Appartenevano ad un’antica popolazione che, dapprima coabitò con i Siculi nella parte meridionale del Bruzio, e che poi trasmigrò in Sicilia, lasciando nella provincia più meridionale il toponimo di San Giorgio Morgeto. I Siculi di stirpe indoeuropea, si erano stabiliti in Lucania ed in Calabria nel II millennio a. C.
Avendo invaso le terre degli Oschi e degli Aurunci, ne vennero scacciati, sospinti verso il mare e costretti all’attraversamento dello Stretto, procurando il nome all’isola dirimpettaia.
I Siculi erano considerati Tirreni ed in un una delle favole di Igino, come nelle Metamorfosi di Ovidio, si racconta di uno scherzo perpetrato da alcuni marinai Tirreni a Bacco ubriaco ed appisolato sulle rive del mare calabro. La furia del dio deriso li costrinse a buttarsi in acqua, perché sulla spiaggia si erano radunate le feroci belve del suo seguito. Il mar Tirreno trarrebbe tale definizione da questo episodio. Ma per i Greci, sostanzialmente, i Tirreni corrispondevano agli Etruschi ed erano molto presumibilmente dei Pelasgi provenienti dalla Lidia, l’antica regione dell’Asia minore.
Dionigi d’Alicarnasso racconta che gruppi di Arcadi guidati da Enotrio e da Paucenzio, sarebbero approdati sulle rive dello Ionio, già prima della guerra di Troia. Altre possibili origini degli Enotri riporterebbero alla Tessaglia, o all’Argolide, all’Etipia o, più in generale, all’Africa, oppure al popolo dei Sabini. Ferecide difatti era del parere che gli Enotri fossero di origine pelasgica, la cui etimologia riconduce a Phaleg, dispersione, cioè erranti, o emigrati.
I pelasgi, del resto, vengono ritenuti certamente i primi ed i più antichi abitanti della Calabria. In quanto sarebbero approdati sul nostro litorale subito dopo il diluvio di Deucalione, ben tre secoli avanti la distruzione di troia. Venivano dall’oriente, dalle zone centrali dell’Asia o dai golfi arabico e persico per alcuni, per altri nella direzione opposta, per altri ancora discendevano da settentrione, la regione iperborea, ma c’è chi propende ad accomunarli ai Celti o agli Sciti, che parlavano una lingua derivata dal sanscrito. Il loro capostipite, la mitologia classica lo identifica in Pelasgo, re d’Arcadia, il quale generò il Licaone, fondatore di Licosura, che sarebbe stata la prima città del mondo. Licaone, tra i suoi numerosi figli avrebbe avuto anche Megisto e Callisto, la più grande e la più bella, connesse con il tema mitologico di Artemide Brauronia, divinità degli orsi, essendo state trasferite entrambe queste denominazioni alle costellazioni dell’Orsa Maggiore e Minore.
Artemide Brauronia veniva venerata sotto l’aspetto di Orsa, quale progenitrice degli Arcadi, i quali pretendevano di discendere da un accoppiamento della vergine con lo stesso Giove. Ovidio narra comunque di come il sommo Dio si fosse invaghito della bellezza di Callisto, identificabile con la stessa Artemide, e di come lei fosse piuttosto ritrosa alle sue profferte d’amore. Per ingannarla, l’astuta divinità dell’Olimpo, lei si sarebbe avvicinato sotto le spoglie femminili della dea, la quale era adusa a dedicarle carezze piuttosto approfondite. Ma la vera virago, poiché impersona la natura incontaminata, vergine per antonomasia, proprio a causa di questa imprudenza e del relativo contagio sessuale, la allontanò dal suo seguito.
Nel bosco Callisto partorì Arcade, e quindi Giunone, per gelosia, trasformò la puerpera in Orsa. Arcade, maggiorenne la cacciò, ma nel momento di sopprimerne le forme bestiali, venne tramutato nella costellazione di Boote. Giunone fece in modo che la rivale non venisse mai accolta da Oceano e Teti. E difatti l’Orsa Maggiore, che si trova in posizione polare, non conosce tramonti, come conferma Omero nell’Odissea: “… e l’Orsa, che detta è pure il carro, e là si gira, guardando in Orione, e sola nel liquido Oceàn sdegna lavarsi”.
Il mito, anche in questo caso, adombra il distacco che sarebbe avvenuto in tempi, di cui si è persa memoria, tra la regione iperborea e l’area mediterranea.
Fabio Storino