Traduttore automatico - Read this site in another language

Visualizzazione post con etichetta racconti brevi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta racconti brevi. Mostra tutti i post

domenica 27 marzo 2016

Pitchfork

Chi sono io?

Quando mi guardo allo specchio vedo solo l'immagine sbiadita di me stessa, come l'ombra di una donna in una notte di luna piena o un fantasma in un maniero medievale.
Eppure, mi dico, sono sempre io, o ciò che resta di me.

Cosa ho fatto?

Ripenso agli anni passati e ancora non capisco, non riesco a comprendere in cosa ho sbagliato. Ombre nere ricoprono il mio viso e lo nascondono alla vista del mondo.

Sarebbe potuto essere tutto diverso, ma evidentemente questo è il mio destino. Portare nel mio cuore un simile peso fino alla morte.

Ricordo ogni istante le immagini dei corpi straziati, il sangue rosso scuro colare lungo i corpi, l'odore forte del sangue rappreso mi torna prepotentemente alla mente. Non riesco a non pensarci. E' quasi una tortura. Non passa istante che io non ricordi quei volti, contorti dalla sofferenza, urlanti di dolore. 
Poi un velo nero si posa sui miei occhi e non vedo più niente, forse svengo anche io, forse il mio cervello si rifiuta di continuare a vedere, a sentire...

Ogni volta mi risveglio in un posto differente. 
La prima volta mi svegliai nella cantina della nonna. L'odore nauseabondo mi colpì come uno schiaffo sul viso. Avevo le mani appiccicose, quasi nere. Ai miei piedi una pozza di sangue rappreso. Mio nonno mi prese in braccio senza dire una sola parola e mi portò in cucina. La nonna aveva preparato una tinozza di acqua calda e, dopo avermi spogliato e gettati via i vestiti, mi ci immerse completamente. 
L'acqua era calda e l'odore del sapone mi destò del tutto.

"Pichfork, pichfork"
urlavano gli altri bambini, girandomi attorno.
"Pichfork, pichfork"
mi schernivano ogni giorno. Poi decisi di non andare più a scuola. Non mi volevano e io non volevo loro. 
I nonni non l'avevano presa bene. Quelle poche ore in cui io stavo a scuola a loro servivano per ritemprarsi. Avevano una certa età e dovevano prendersi cura di me. Certo, mi volevano bene, ma comunque erano anziani, molto anziani, e di li a poco se ne andarono anche loro, come avevano fatto il papà e la mamma...

Avevo dodici anni, credo, e la vita divenne dura. Non era facile vivere da soli ma ci feci presto l'abitudine.

A tredici anni tornai a scuola.
Avevo sempre studiato per conto mio per cui la cosa non mi pesò per niente. Volevo riprovare, volevo vedere se gli altri avevano dimenticato. Speravo che il mio destino potesse cambiare, ma mi sbagliavo.
Passò solo qualche giorno, prima che qualcuno si ricordasse del mio soprannome. "Pichfork, pichfork", li sentivo dire tra loro sorridendo, mentre gli passavo vicino, quando entravo in classe, quando mi chiamava la maestra. Sempre la stessa storia.

Dovevano farla finita!

Un giorno persi la pazienza e cominciai a urlare. Poi mi misi le mani sulle orecchie e scappai fuori dalla classe. Non tornai mai più.

La casa dei nonni era poco fuori dal paese e io continuavo a viverci da sola.
Ero in grado di cucinare, accudivo il bestiame, raccoglievo le uova. L'orto mi dava ciò che serviva per vivere e il prete del paese mi mandava spesso la sua perpetua per aiutarmi.
Ero isolata dal paese ma allo stesso tempo ne ero parte integrante.

Domani compirò diciotto anni.
Mi preparo per l'evento con perizia maniacale.
Tutto deve essere perfetto. Non ho più parenti, non ho amici. Il parroco ha smesso da qualche anno di mandarmi la sua perpetua. Quella donna è sparita da tempo e nessuno sa che fine abbia fatto. Ma io ormai sono grande e non ho più alcun bisogno di essere aiutata. Ora so chi sono e cosa devo fare.
Domani è la mia festa. Meglio andare a dormire presto, domani sarà una lunga giornata.

Mi alzo presto la mattina, mi vesto con il vestito migliore che possiedo. Sui capelli metto una rosa rossa, nata nell'orto. Una spina mi graffia la fronte ed una goccia di sangue cola sul viso, lungo la guancia, fino al collo.
Prendo il forcone dal granaio e lo stringo tra le mani.

Il paese è a pochi minuti dalla casa. 
E' ancora presto e non incontro nessuno per strada. 
Mi fermo alla prima casa e busso alla porta. 
"Chi è a quest'ora del mattino?"
Urla una voce per niente gentile dall'interno. Riconosco la voce, è la maestra. Non mi ha mai difeso quando gli altri mi chiamavano Pichfork. 
Si apre la porta e me la ritrovo davanti. E' un po ingrassata ma non fatico a riconoscerla...
"Pichfork, sei tu? Cosa..."

Non le lascio il tempo di finire la frase, le infilo il forcone nelle budella, dal basso verso l'alto, e spingo con tutte le forze... fiotti di sangue mi colano sulle mani. Lei non parla più. 
Uno sguardo stupito si trasforma in smorfia di dolore. Solo pochi secondi di agonia e poi si accascia a terra. Devo aver raggiunto il cuore, penso... devo fare più attenzione la prossima volta.

Pochi passi mi separano dalla seconda casa. E' la casa del prete. 
Non busso, passo dal retro, come ho fatto tante volte. So dove si trova la chiave. La prendo ed entro, in punta di piedi. Il sangue comincia a rapprendersi sulle mani e sul vestito ma non ci faccio caso.
Entro nella sua stanza. E' ancora a letto. Mi avvicino in silenzio e lo bacio sulle labbra. Lui si sveglia e mi guarda compiaciuto, chissà cosa pensava... sollevo il forcone e glielo infilo nel collo. Non una sillaba... un fiotto di sangue nero gli esce dalla bocca e mi sporca il vestito nuovo.
Lo lascio li, agonizzante, con le mani al collo e una smorfia di orrore sul viso... non merita neppure un ultimo sguardo.

La giornata è ancora lunga e ho tanto da fare, non posso certo perdere troppo tempo se voglio fare pulizia...

Da allora molti anni sono passati eppure non ho mai dimenticato. Dopo quel diciottesimo compleanno sono sempre stata rinchiusa.
All'ospedale mi hanno riempito di medicine. I primi anni mi tenevano legata al letto. Poi, col tempo, hanno capito che non ero più pericolosa degli altri e mi facevano uscire a prendere aria nel giardino.
Ora i tempi sono cambiati e mi dicono che sono guarita e posso andare via. Posso tornare a casa. Come se ce l'avessi una casa. 

Domani è il grande giorno. Sarò libera.
Esco per l'ultima volta in giardino a vedere le rose. Ne taglio una, rossa come il sangue. Senza badarci me la infilo tra i capelli. Una spina mi graffia leggermente ed una goccia di sangue cola lungo la guancia.
Mi giro per rientrare e, poggiato al muro, vedo un forcone, forse dimenticato dal giardiniere...

"Dottore, è sicuro che io sia guarita?"
Le parole mi escono dalla bocca con sicurezza. Il dottore si gira e mi guarda con un sorriso... 
Il forcone penetra sotto il mento e fiotti di sangue ricoprono ancora una volta le mie mani...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


domenica 28 settembre 2014

Racconti Borgeani e altro... il mio nuovo libro

Cari amici lettori, ben ritrovati.

Con questo mio nuovo libro di racconti brevi voglio festeggiare la mia scoperta di un grandescrittore: Jorges Luis Borges (1899-1986).



Argentino di nascita, fu scrittore, poeta, saggista, traduttore, docente universitario e direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires.

Lo spunto mi è giunto dalla lettura di un fumetto, un numero di Martin Mystere in cui la storia era incentrata proprio sul nostro Borges.

Così dopo una breve ricerca nella biblioteca ho iniziato la lettura di Finzioni nella edizione Einaudi del 1978.

Vi chiederete cosa penso del libro e perché ve ne parlo.
Vi rispondo che non lo so!
E' la prima volta che mi imbatto in storie simili e dire che di libri ne ho letti tanti e di tutti i generi!

Eppure, in questi racconti c'è qualcosa di strano.

Il tempo, lo spazio, gli intrecci delle storie, sono particolari, difficili da seguire. Ogni racconto sembra scritto tenendo a riferimento l'idea del labirinto, della stanza degli specchi, del tempo avvolto su se stesso. Il risultato è che i racconti in alcuni tratti non sembrano dei racconti, in altri punti appaiono invece troppo fantasiosi.

In attesa di capire se il libro mi è piaciuto, sono andato avanti con la lettura di altri suoi libri, tra cui una collezione di racconti brevi dal titolo “Il manoscritto di Brodie”. Undici racconti brevi, parte ambientati nella Buenos Aires di inizio novecento, parte invece derivanti dalle innumerevoli conoscenze letterarie di Borges.

Tra i racconti posso dire che il primo, l'intrusa, e l'ultimo, il manoscritto di Brodie, sono i più interessanti anche se completamente differenti come genere. Il manoscritto di Brodie in particolare sembra rifarsi a tradizioni antiche di cui possono ritrovarsi tracce nel saggio di Frazer, il ramo d'oro. Eppure anche gli altri meritano di essere letti con attenzione sia per la costruzione, sia per le idee di fondo, non comuni tra gli autori di racconti. Ma i racconti che troverete in questo libro prendono ispirazione da un altro testo, un saggio breve dal titolo “Manuale di zoologia fantastica” scritto da Borges e da Margarita Guerrero. Nel saggio ho trovato nomi di animali fantastici e le loro brevi descrizioni. A questi “mostri” del passato mi sono ispirato per quasi tutti i racconti che leggerete.
Alcune volte dal libro ho preso solo il nome, in altri casi anche alcune caratteristiche peculiari dei mostri descritti, in alcuni casi, forse, nient'altro che l'ispirazione. Una parte dei racconti infine è stata selezionata tra quelli che hanno avuto più lettori sul mio blog in internet.

Mi chiedo se ne è valsa la pena scrivere questo quinto libro.
E' meglio che a giudicare siate voi ma, vi prego, non siate troppo cattivi.

Buona lettura.

Anteprima disponibile al seguente LINK da cui è anche possibile ordinarlo, per chi ancora ama la carta!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 19 aprile 2014

Bahamuth

La notte stellata del deserto era fredda. Di giorno il sole ti cuoce il cervello, di notte il freddo ti spacca la pelle.
Tutti i giorni di tutti i tempi.
 
- Mettiti un po di grasso di cammello su quelle ferite, Amir. Disse Hamed al nipote che intirizziva sotto la coperta, accovacciato vicino al fuoco.
 
- Nonno, quante volte devo dirti che non serve a niente! Sono medico, lo sai, mi occorre solo riposo e un po di cicatrizzante, ma qui nel deserto non se ne trova!
 
- Fidati di me, fidati di Bahamuth! Metti il grasso e guarirai. Insistette il nonno senza guardare in faccia il nipote.
 
- Ma figurati. Mi verrà qualche infezione!
 
- Perchè ti comporti così? Eppure ti abbiamo sempre spiegato le cose, le tradizioni della nostra famiglia sono antiche. Perchè non credi? E mentre parlava un'ombra scura velava i suoi occhi. Era vecchio ed aveva sempre rispettato le tradizioni e si era sempre trovato bene. Perchè questo nipote, il suo preferito, si comportava come un miscredente?
 
- La nostra famiglia, la nostra famiglia, sempre la stessa storia - aggiunse il giovane stizzito - tradizioni! Ma ti rendi conto di quello che dici? Oggigiorno non vale più niente la tradizione. In chi dovrei credere, in Bahamuth? Ma per piacere! Si voltò dall'altra parte per non vedere le lacrime sugli occhi del vecchio. Sapeva di averlo offeso, ma lui era diverso, non credeva in tutte queste fantasticherie. Aveva studiato, lui.
 
- Uno di questi giorni Bahamuth verrà a trovarti e dovrai ricrederti. - Il tono era perentorio e non ammetteva replica. Il vecchio si girò di spalle e si mise a dormire.
 
La notte stellata avanzava e solo lo strisciare di un serpente sulla sabbia o la debole luce dell'est lasciava pensare alla sua fine. Poi un rumore lo destò.
 
- Chi é? C'è qualcuno? Disse il giovane alzandosi di scatto e afferrando il fucile da caccia preoccupato. - Vieni fuori, chiunque tu sia. - Disse alzando la voce per svegliare il nonno che però non sembrava accorgersi di niente.
 
- Metti via quell'arma, non serve. 
 
 La voce proveniva dalle sue spalle. Era forte e cavernosa, quasi irreale. Come se a pronunciarla non fossero state labbra umane ma le profondità del cielo.
 
- Ho detto di mettere giù quell'arma, non serve.
 
L'arma gli cadde dalle mani, senza che potesse far niente per trattenerla. Qualcosa più forte della sua volontà aveva loro comandato di aprirsi ed esse avevano ubbidito.
 
- Chi sei? E cosa vuoi da noi? Le parole tradivano la sua paura, o forse era il freddo. Le labbra tremavano. Gli occhi cercarono di mettere a fuoco un'immagine sfocata di fronte a lui ma senza riuscirci.
 
- Chi sono io? Chi sei tu per dubitare! - Le parole furono pronunciate con calma ma senza in alcun modo simulare la loro potenza. Erano parole potenti pronunciate da chi era abituato a far uso di tutta la sua forza. - Chi sei tu, piccolo uomo, per dire a tuo nonno in chi o in cosa deve o non deve credere?
 
- Ma...
 
- Zitto! - le labbra gli si chiusero come sigillate dalla colla - Non è ancora il tuo momento. 
 
- Hamed, svegliati! - Disse ora con gentilezza - E' arrivato il tuo momento, andiamo.
 
Hamed si svegliò e lo guardò fisso, stupito ma felice.
 
- Bahamuth, sei tu?
 
- Si, andiamo. - Disse tendendogli la mano.
 
- Posso salutare il mio ragazzo? Vedo che è qui anche lui...
 
- Si, puoi. - Rispose Bahamuth.
 
- Addio figliolo. Decidi tu in cosa credere, decidi tu cosa fare da ora in poi, non ci sarò più io a farti da guida. Ma ricorda sempre che Dio creò la Terra per noi uomini. La poggiò sopra un Angelo e l'angelo su una montagna di rubino. Ma la montagna non aveva sostegno così creò un toro con quattromila occhi, nasi, bocche, lingue e zampe. Il toro non aveva sostegno così creò un pesce, chiamato Bahamuth. E il pesce lo mise nell'acqua e l'acqua nell'oscurità e così il mondo può continuare ad esistere per sempre.
 
- Nonno...
 
Il sole era alto in cielo quando  Amir si destò.
Si alzò, si spalmò il grasso di cammello sulle ferite e cominciò a scavare una fossa nella sabbia del deserto, dove avrebbe deposto suo nonno...
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 17 aprile 2014

Anfesibena

Vivo!

Era vivo, senza sapere perché, senza conoscere il significato della parola. Anche perché i serpenti non parlano. Ma l'essere appena nato non sapeva cosa fosse.

Non sapeva neanche di essere vivo se non fosse perché fino ad un istante prima semplicemente non esisteva.

-Che strana sensazione! Pensò.

Tutto era nuovo e bello, anche se il sentirsi vivo significava soffrire.


Non si trovava a proprio agio con il suo corpo, non lo conosceva. Non sapeva come usarlo, non sapeva a cosa servisse un corpo coì lungo, una pelle così squamosa. Non riusciva a capire perché esisteva, dove si trovava, cosa doveva fare. Sentiva solo una strana sensazione, qualcosa che veniva dal centro del suo corpo. Fame!

Ecco, la sensazione divenne qualcosa di più definito. Era fame. Non mangiava da quando? Forse non aveva mai mangiato prima. Cibo. Dove trovare cibo? La domanda si formava chiaramente nella sua testa... teste! Ecco, andiamo di là... pensò ancora una volta. No, di la... c'è cibo, molto cibo. Lo sentiva da destra, lo sentiva da sinistra. A chi dar retta?

Il corpo sinuoso cominciò a muoversi strisciando sulla terra arida sotto di lui. Il segno del suo passaggio impresso nella polvere era ben evidente.

Il cibo era sempre più vicino e l'essere continuava ad avanzare velocemente, trascinato dal suo istinto di sopravvivenza. Lui non sapeva cosa fosse, ma il suo corpo voleva sopravvivere.

Era appena nato eppure era grande e forte. Sentiva i suoi muscoli tesi fino allo spasimo. Sentiva i suoi pensieri accumularsi alle estremità del suo corpo, vedeva tutto. Davanti e dietro, anche se tutto era molto confuso.

Ricordava... o forse pensava di ricordare qualcosa del suo passato, forse del passato di un altro essere, enorme, crudele, che gli aveva dato la vita.

Medusa si chiamava, ora era Anfesibena, ed era affamato.

Il cibo era sempre più vicino, ne percepiva la presenza attraverso particelle infinitesimali presenti nell'aria. Udiva anche il suo respiro, sempre più forte, sempre più vicino.

Avrebbe spalancato le sue bocche e ingoiato quell'essere intero, ancora pochi istanti e si sarebbe nutrito per la prima volta. L'unico della sua specie.

-Che bestia è mai questa?

Udì le parole distintamente nelle sue due teste, non ne capì il significato ma sentiva il senso di repulsione con cui erano state pronunciate. Sentiva la paura di chi le pronunciava, il ribrezzo. Poi più niente.

-Papà, guarda, un serpente con due teste! Il bambino mostrava orgoglioso la sua preda. Il serpente, con la schiena spezzata nel centro del suo corpo, pendeva, con le sue due teste esangui, dal lungo bastone.


Il bambino sorrideva soddisfatto, aveva catturato la sua prima preda, aveva ucciso per la prima volta!

-Che bella sensazione! Pensò...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 2 marzo 2014

Il manoscritto di Brodie, di Jorge Luis Borges

Di Borges ho già letto Finzioni, e in quell'occasione avevo annunciato la necessità di approfondire la conoscenza per poter azzardare un giudizio difficile. 
Vi dico subito che il giudizio ancora non c'è, nonostante la lettura di questa collezione di racconti brevi.
Il manoscritto di Brodie presenta undici racconti brevi, parte ambientati nella Buenos Aires di inizio novecento, parte invece derivanti dalle innumerevoli conoscenze letterarie di Borges.
Ricordo che  Jorges Luis Borges (1899-1986), argentino di nascita, fu scrittore, poeta, saggista, traduttore, docente universitario e direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires.
Tra i racconti posso dire che il primo, l'intrusa e l'ultimo, il manoscritto di Brodie, sono i più interessanti anche se completamente differenti come genere. Il manoscritto di Brodie in particolare sembra rifarsi a tradizioni antiche di cui possono ritrovarsi tracce nel saggio di Frazer, il ramo d'oro.
Eppure anche gli altri meritano di essere letti con attenzione sia per la costruzione, sia per le idde di fondo, non comuni tra gli autori di racconti.
Ancora non esprimo un giudizio, come ho già detto o forse il giudizio già è stato emesso dato che ho intenzione di leggere ancora qualcosa di questo autore.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 6 febbraio 2014

La fuga...

Mi avvicinai alla riva incuriosito dal mulinello di uccelli marini.
Si muovevano sinuosamente, creando disegni bianchi su sfondo azzurro. Il mare in lontananza si perdeva nel cielo senza soluzione di continuità.
Il rumore delle onde sulla spiaggia e della risacca copriva le voci dei pochi villeggianti; una famiglia con tre bambini consumava il suo pranzo al sacco in un riparo naturale, sotto una roccia che per metà si gettava a strapiombo nelle acque azzurrine, dando sicuro riparo a saraghi e ricci di mare.
Il vento soffiava forte sollevando onde spumeggianti che si infrangevano rumorosamente sugli scogli.
Alla mia destra una lunga striscia di sabbia rossastra, risultato dell'erosione millenaria del granito, offriva una vista splendida e dava risalto alle acque verde smeraldo della spiaggia gallurese.
Amavo questa atmosfera, amavo quella solitudine quasi totale. Così distante dal caos interminabile di Roma. Erano anni ormai che almeno una volta al mese prendevo l'aereo da Ciampino e mi precipitavo nel mio angolo di paradiso, anche solo per un giorno. Mi rilassava, mi faceva dimenticare tutta la fatica del lavoro, cancellava gli effetti devastanti del traffico, portava via lo stress come una mareggiata cncella le orme dalla sabbia...
Gli uccelli marini continuavano nella loro danza festante. Il loro andirivieni, accompagnato dallo stridulo rumoreggiare era un calmante naturale. Mi sedevo sulla spiaggia, mi toglievo le scarpe e restavo li, seduto, a fissare le onde, come un bambino estasiato. Alle mie spalle delle piccole dune di sabbia e alghe offrivano riparo nelle giornate più ventose e nascondevano alla vista le coppiette di innamorati. Poco più in la, sulle collinette ricche di macchia mediterranea si intravvedevano le case bianche coi tetti di tegole rosse tipiche della zona.
Non avevo mai parlato con nessuno del mio segreto, non volevo condividerlo con nessuno.
Semplicemente ed egoisticamente volevo tenerlo tutto per me, il mio angolo di paradiso!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 24 gennaio 2014

Licaone... empio sovrano d'Arcadia!


"... si narra che i Giganti aspirarono ad impadronirsi del regno celeste e che ammucchiarono i monti innalzandoli fino alle stelle..."1.


I Giganti. Esseri mitologici o realtà?

Questo era il titolo della conferenza che avrei dovuto tenere il prossimo sabato all'Accademia delle Scienze.

Ovidio diceva che la stirpe umana nacque dalla terra bagnata dal sangue dei giganti, schiacciati sotto le montagne che loro stessi avevano sollevato. Per questo motivo la stirpe umana era così cattiva, crudele e assetata di sangue che: “divenne sprezzante degli dei e avidissima di strage spietata e violenta".

Così Giove, proseguiva Ovidio, "quando vide tali scelleratezze dall'alto dei cieli se ne dolse e, ripensando ai ributtanti banchetti della reggia di Licaone, imbanditi di recente e per questo non ancora divulgati concepisce nell'animo un'ira tremenda e degna di lui e convoca un concilio..."

Stupidaggini per creduloni, tutte queste storie, però ottime per introdurre l'argomento della conferenza ovvero l'esposizione degli ultimi ritrovamenti avvenuti durante gli scavi di una antica città ritrovata ai piedi del monte Olimpo. Città ancora senza nome, almeno per ora.

"Pensate forse, o dei superni, che essi non corrano pericoli?

Dal momento che Licaone, noto per la sua ferocia, ha teso insidie a me, che pure sono armato del fulmine e tengo voi sotto il mio potere?"

Così Giove apostrofava gli dei prima della punizione.

Per gli uomini fu l'inizio della fine, fu il Diluvio. E questa città sembrava proprio distrutta dal Diluvio, quello di Noè del Vecchio Testamento, che il Censorino chiama Diluvio di Ogigia, avvenuto probabilmente intorno al 2376 a.C.

Mi tornavano in mente brani del discorso che avevo scritto per l'apertura della conferenza.

Poi, in diretta dal luogo degli scavi, si sarebbe proceduto all'apertura di uno splendido sarcofago in marmo e oro, ultimo ritrovato. Il sarcofago risaliva almeno al 2000 a.C. e dalle incisioni rinvenute sembrava proprio contenere i resti di Licaone, l'empio sovrano d'Arcadia.

La procedura di apertura avrebbe richiesto circa due ore durante le quali io avrei intrattenuto il pubblico con la storia di Licaone.

E' arrivato il momento di capire di cosa è accusato Licaone per aver provocato l'ira degli Dei: in un immaginario tribunale chiamiamo così a testimoniare Giove:

"L'ignominia del tempo era giunta alle nostre orecchie, augurandomi che essa non fosse vera, scendo dal sommo Olimpo e, pur dio, esploro le terre sotto sembianza umana. Sarebbe lungo descrivere quanta malvagità abbia trovato in ogni luogo: la cattiva fama era inferiore al vero".

Giove attraversò la terra di Arcadia.

Mandò un segno per annunciare il suo arrivo e il popolo cominciò a pregare ma non Licaone che al contrario deride chi prega!

Empio com'era, non contento di deridere gli uomini, decide di mettere alla prova il re degli dei.

"Proverò di sapere, con un esperimento palese, se sia un dio o un uomo".

Questo pensa Licaone, e si prepara ad uccidere il Padre degli dei nel sonno. Ma la sua crudeltà non ha limiti e così decide di servire al suo ospite cibo umano quindi, sgozzato con la spada un ostaggio mandato dai Molossi, getta nell'acqua bollente parte delle membra e parte le abbrustolisce al fuoco.

Giove, quando gli venne servito il banchetto, riconobbe Licaone colpevole e fece crollare la sua casa. Licaone scappò e raggiunta la campagna

"comincia ad ululare e invano tenta di parlare; la bocca raccoglie da lui stesso la rabbia e sfoga la brama della strage, per lui abituale, sugli armenti, e ancora oggi gode del sangue. La veste si muta in un vello, le braccia in zampe; diventa lupo e mantiene le tracce dell'antico aspetto; identico il colore grigiastro, identica la ferocia del volto; guizzano minacciosi gli stessi occhi, immutata l'aria di crudeltà".

Questa è la punizione di Giove per Licaone, ma è solo l'inizio. Giove e il consiglio degli dei si apprestano infatti a distruggere la stirpe umana con i fulmini ma poi cambia idea e opta per "distruggere la stirpe dei mortali con un'inondazione e mandare un diluvio da ogni parte del cielo".

Il Diluvio distrusse la stirpe umana e il ricordo viene conservato sotto forma di racconto morale nella cultura greca antica.

Naturalmente a questo punto avrei dovuto passare la linea al responsabile degli scavi per procedere all'apertura del sarcofago, sperando che oltre alle ossa, probabilmente ridotte in polvere, ci fosse qualche tesoro la qual cosa avrebbe sicuramente fruttato maggior notorietà e chissà quante conferenze in giro per il mondo!

Ancora due giorni al grande momento. Ma per ora solo seccature burocratiche da adempiere per l'apertura del sarcofago e stupide email cui rispondere. Meglio rientrare a casa visto come s'era messo il cielo. Non vorrei che venisse giù un altro diluvio mentre sono per strada, pensai.
- Certo che la gente non ragiona proprio. Siamo nel 2014 dopo Cristo è c'è ancora chi crede nelle favole!

Senza volerlo, mentre leggevo l'ultima email, avevo parlato a voce alta. Ma che dire di fronte a simili assurdità?
- Un rispettabile professore Universitario!
Ecco cosa mi mandava ancora di più in bestia. Un Professore Universitario, membro dell'Accademia delle Scienze, mi invitava a fare attenzione all'apertura del sarcofago perché vi era una antico sortilegio collegato che sicuramente era ancora efficace nonostante il tempo passato, e mi invitava a mettere in campo un contro incantesimo trovato in non si sa bene quale libro, per evitare al mondo una nuova e più terribile punizione.

Avrei potuto capire se una cosa del genere fosse arrivata da un sacerdote di una setta esoterica, ma da un Professore Universitario era una cosa inconcepibile!

Non meritava neppure risposta.
Con un gesto nervoso etichettai l'email come spam e inserii il mittente tra gli indesiderati. Almeno non avrei più dovuto leggere le sue stupidaggini.

Andai a dormire tardi, come ormai era abitudine negli ultimi mesi. Afferrai un libro dalla libreria con l'intenzione di leggere qualche pagina per conciliare il sonno, senza fare troppa attenzione al titolo e mi infilai tra le coperte.

Aprii il libro in una pagina a caso, senza neanche guardare la copertina e cominciai a leggere:

Si narra che gli antichi Arcadi venerassero Pan, dio delle greggi; egli era sopratutto presente sui monti d'Arcadia”

- Ecco, lo sapevo, tra tanti libri che possiedo, proprio Ovidio dovevo prendere stasera!

Ne sarà testimone il Foloe, lo attestano le onde dello Stinfalo e il Ladone che con le sue veloci acque corre al mare e le alture del bosco di Nonacris cinte di pini, e l'albero Cillene e le cime nevose della Parrasia. Là Pan era nume tutelare di armenti e cavalle e riceveva offerte votive per non distruggere le greggi. Un solo giorno al mese avrebbe mangiato a sazietà nutrendosi del loro sangue...”

Ma no, Ovidio non diceva questo! E poi Pan era un protettore, non un demone sanguinario. Vediamo chi ha scritto simili stupidaggini...

Solo in quell'istante, rigirando il libro tra le mani, mi resi conto che si trattava di un libro antico che non avevo mai notato prima. Non era la prima volta che mi capitava. Spesso compravo pacchi di libri ai mercatini, li lasciavo sul tavolo del salotto ancora incartati e impolverati. Poi la mia domestica li puliva e li riponeva in ordine sulla libreria. Così doveva essere accaduto anche per questo volume.

Dalla prima pagina si capiva che era stato stampato a Torino nel 1647, il titolo recitava “Ovidio ritrovato, opera completa, tradotta dal Signor Marchese de Mourillac, esperto di lingue antiche”. Mai sentito prima...

Aprii nuovamente il libro qualche pagina più avanti e continuai a leggere incuriosito.

Chi aveva allora supposto l'esistenza delle Iadi o delle Pleiadi, le figlie di Atlante dalle forti spalle?

O dei due poli, sotto la volta celeste? E che vi fossero le due Orse: la prima, Cinosura è usata dai fenici per orientarsi; la seconda, Elice, dai greci. Chi l'avrebbe mai immaginato?

E che i cavalli di Febe in un solo mese percorressero le stesse costellazioni che il fratello, Febo, impiegava un anno intero?

Liberi e inosservati correvano gli astri durante l'anno, ritenuti quasi da tutti potenti divinità. Non tutti gli antichi conoscevano i percorsi delle stelle nel cielo, non tutti adoravano come dei ciò che non era altro che Terra, Luna o Sole. Per i Maghi Caldei queste cose erano chiare, il percorso delle stelle parlava loro, mostrando pericoli imminenti e lontani. Spiegando le leggi della Natura. Ponendo l'Astro al centro del mondo e dispiegando le ali di Morte...”

Chiunque fosse questo Marchese de Mourillac, doveva avere una fervida fantasia, oppure doveva aver trovato una versione dei Fasti di Ovidio sconosciuta al mondo intiero. La teoria eliocentrica non era certo nuova. Ai tempi di Ovidio diversi autori ne avevano già parlato in precedenza ma non avevo mai letto che i Caldei la conoscessero.

          “gli dei superni, sterilizzavano la Terra dalla peste dell'Uomo, per mezzo del fuoco o dell'acqua. Oppure, in casi speciali, per il tramite dello spirito Pan, capace di incarnarsi nel corpo di un uomo terribile. L'ultimo della sua specie fu Licaone, re possente d'Arcadia. Non resuscitate la sua anima, non disturbate il suo riposo...”

Questa è proprio forte! Meglio lasciar perdere questo libro. Domani sarà una giornata lunga e devo essere ben sveglio.

La notte passò con tranquillità nonostante il temporale non accennasse a placarsi. Era già da due giorni che la pioggia veniva giù senza interruzione e in tv non facevano altro che parlare di incidenti, frane e fiumi che avevano raggiunto gli argini. Mi alzai per accostare le tende, i lampi continuavano a illuminare a giorno la città, inconsapevoli del fatto che il servizio meteo avesse previsto miglioramenti su tutta la regione per l'indomani.

Mi alzai, feci una doccia calda e andai a lavorare presto.

A pranzo avevo un appuntamento di lavoro con il responsabile delle riprese video dell'Accademia delle Scienze. Volevo essere sicuro che tutto fosse pronto per la sera. Alle 18.00 si cominciava e non potevo permettermi errori. Dopo il panino e il caffè infilai la mano nella borsa per cercare l'agenda in cui avevo preso alcuni appunti nei giorni precedenti. Con mio stupore estrassi il libro di Ovidio che avevo letto la sera prima. Sicuramente l'avrò infilato in borsa questa mattina senza accorgermene, pensai.

Dopo pranzo avevo una riunione con il responsabile dell'accoglienza degli ospiti e poi feci una visita veloce nella sala. Tutto sembrava in ordine, non restava che aspettare le 18.00.

Il temporale sembrava non dar tregua.

Il cielo era nero e solo i lampi, di tanto in tanto, illuminavano le nuvole. Un brutto temporale, pensai. Sarebbe passato prima o poi.

Potevo riposare una mezz'ora. Ne sentivo proprio la necessità.

Mi sedetti nella poltrona del mio ufficio e presi il libro che avevo nella borsa, volevo dare un altro sguardo all'introduzione. Chissà che non ci fosse qualche notizia interessante sull'autore.

- Come si chiamava? de Mourillac, se non ricordo male!

Nell'introduzione non si diceva altro sull'autore. I soliti ringraziamenti al re di Spagna e alla sua gentile consorte, tipico dei libri di quel periodo, una pagina in cui vi era l'autorizzazione ecclesiastica alla pubblicazione e niente di più. Doveva trattarsi di una edizione economica, o magari pirata, a bassa tiratura.

La copertina era anonima, in cartone rivestito di tessuto verde. Molto consumato. Rilegato a mano senza troppa attenzione. Le pagine erano di carta molto grossa e alcune erano incollate dall'umidità e dal tempo.

Dal mio terminale potevo accedere ai testi delle principali biblioteche del mondo, una ricerca su questo de Mourillac mi avrebbe forse dato qualche informazione in più sulla strana edizione di Ovidio che mi trovavo tra le mani.

O almeno così pensavo. Il motore di ricerca non restituì nessuna informazione. Il Marchese de Mourillac semplicemente non esisteva, almeno non come autore di testi del 1600.

Aprii nuovamente a caso e lessi:

Per molti anni durò tale stato del cielo, finché il dio più antico fu deposto dal suo regno. La Terra allora partorì con dolore i Giganti dalle forti membra, terribili mostri, che avrebbero osato assalire il regno di Giove, in cielo.

Lì fece col il ferro ed il fuoco, enormi alla vista. Serpenti di fuoco uscivano dai mostri, mentre questi si sollevavano minacciosi verso il cielo, regno di Giove. Movete guerra agli dei, urlava Licaone. Essi si preparavano a percorrere le immense distanze tra la Terra e il regno di Giove ma il padre degli dei, che tutto sapeva, li precedette, scaraventando sulla Terra ordigni di fuoco, portando morte e distruzione e seppellendo quella razza che aveva osato sfidarlo, sotto montagne di roccia.

Licaone fu condannato alla dannazione eterna, il suo nome sarebbe stato associato a quello del lupo nemico delle greggi, oppure dell'uomo che mangia i suoi simili, temuto da tutti e mai dimenticato, sarebbe stato il responsabile del diluvio che aveva distrutto il mondo. Licaone non doveva essere mai più dissepolto perché con lui sarebbe riemerso il male e il mondo sarebbe stato distrutto...”

Si. Come nella peggiore sceneggiatura di un film di seconda categoria. Gli archeologi aprono il sarcofago e ne spunta fuori, vivo e vegeto un mostro sanguinario!

Per fortuna che non ero mai stato impressionabile.

Però questo libro meritava più attenzione.

Vi erano veramente tante differenze con la versione nota a tutti. Non fosse altro che per decretarne la falsità sarebbe stato interessante approfondirne le origini.

Me ne sarei occupato più avanti. Ora avevo cose più importanti a cui pensare.

La conferenza cominciò alle diciotto in punto. I primi ospiti cominciarono ad arrivare verso le diciassette, qualcuno si avvicinò per salutarmi, tra questi un mio vecchio professore dei tempi dell'Università che non vedevo da almeno vent'anni.

Alle diciotto e trenta ebbe luogo il primo collegamento video. Il luogo degli scavi era coperto dalla pioggia incessante. Fortunatamente il sarcofago era stato portato in un grosso hangar allestito per l'occasione. Poteva piovere quanto voleva ma lo spettacolo sarebbe andato avanti comunque.

Alle diciannove e trenta mi avviavo alla conclusione. Ancora qualche minuto e sarebbe arrivato il segnale che tutto era pronto per aprire il sarcofago in diretta. Mi apprestavo a fare le mie considerazioni finali sul significato della morte di Licaone e su cosa ci si poteva aspettare di trovare all'interno del sarcofago dopo circa quattromila anni. Se le condizioni di umidità fossero state ottimali il teschio si sarebbe potuto conservare intatto, probabilmente anche parte del tessuto che ricopriva il corpo. Era sperabile che con il re fossero state seppellite anche le sue armi e qualche gioiello, ma niente più.

Erano le otto e in teoria il segnale della diretta doveva essere già arrivato ma così non era. Sarei potuto andare avanti ancora per qualche minuto ma non di più, a meno di inventare o dare la parola agli ospiti per eventuali domande.

Poi, di colpo, eccolo finalmente.
- Signori, ora assisteremo all'apertura in diretta del sarcofago che ha custodito Licaone, l'empio sovrano d'Arcadia, negli ultimi quattromila anni.

La voce stentorea con cui diedi l'annuncio quasi mi fece trasalire. Mentre pronunciavo queste parole un lampo più potente degli altri aveva illuminato a giorno le finestre dell'auditorium. Un sordo brontolio lo seguì, a distanza di qualche secondo.

Il sarcofago si aprì. Il massiccio coperchio venne poggiato a terra e l'operatore tv si accinse finalmente a riprendere le immagine di un re vissuto quattromila anni prima.

Le ossa erano integre, la forma perfettamente distinguibile sotto un velo sottile di polvere dorata, era quella di un enorme lupo...
Da quel giorno passarono mesi senza che la pioggia cessasse per un solo attimo.

Ancora un fulmine nel cielo, forse a testimoniare la collera di Giove per aver riesumato il suo antico nemico, cadde sulla terra.

Ma nessuno più avrebbe potuto testimoniarlo...
 
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

1 Ovidio, Metamorfosi.

martedì 21 gennaio 2014

Dodici racconti per un anno

Scrivere un racconto è una fantastica esperienza.
Non è facile ma lascia in bocca il dolce sapore del miele.
La fantasia e lo studio devono supportare ogni storia. L'inizio e la fine ne decretano il successo ma solo se ogni parola, ogni immagine che si vuole trasmettere è curata con attenzione.
Questo è il mio secondo libro di racconti, spero sia meglio del primo.

Buona lettura!

Dodici racconti per un anno

Alessandro Giovanni Paolo Rugolo

giovedì 16 gennaio 2014

La partenza

Alla fine è arrivato il diciassette di agosto, l'ultimo giorno di vacanza.

Domani partiremo per lasciare il paese d'origine, Gesico, per tornare a casa a Roma.

Torneremo l'anno prossimo in estate a trovare i genitori.

Anche questa volta non sono riuscito a fare che un decimo delle cose che mi ero ripromesso, ma anche questa è una costante. Vediamo: ho ancora in tasca la lista delle cose da fare compilata prima di cominciare le vacanze.
Visita al nuraghe Cobumbus – fatto.

Visita all'amico Celeste – fatto.

Cena con i vecchi compagni di scuola – saltata.

Visita al museo di Cagliari – fatto.

Visita a zia Nina... accidenti. Anche quest'anno!
Ogni volta la stessa storia. Faccio l'elenco delle cose importanti e poi lo controllo sempre l'ultimo giorno.

Mancano solo poche ore all'ora di cena, se sono fortunato faccio ancora in tempo a salutare zia Nina e zio Lucio.

Ma si, proviamo!

Chiedo a mio figlio di accompagnarmi da Zia Nina, lui viene sempre volentieri a salutare i parenti.


Zia Nina è la più vecchia rappresentante della famiglia Schirru a Gesico, sorella di mia nonna Cenza, e quando posso vado sempre a salutarla.

Passo a prendere mia madre e tutti e tre raggiungiamo la casa di zia, all'ingresso del paese.

La casa è fatta per una famiglia numerosa, come un tempo. Il portone grande e massiccio nasconde il cortile interno, con al centro un bellissimo pozzo. Il cortile è pavimentato con pietre irregolari e tra queste cresce l'erba. Sul lato sinistro si vedono ancora le loggette per il bestiame, un tempo si sarebbero sentiti i belati delle pecore e il rumore della gente che vi lavorava. Oggi è tutto cambiato, tutto abbandonato, triste e spento. A destra la casa padronale, con sul davanti un filare di alberi d'arancio ornamentali. Una volta da bambino avevo assaggiato uno di quei frutti amarissimi, non potrò mai scordarlo!

Quando arriviamo sono appena le sei. La zia è in cortile, seduta su una seggiola bassa, circondata da parenti venuti a trovarla, salutiamo tutti e veniamo invitati a sedere. Zia Nina ci offre un'aranciata e un dolce, come è sua abitudine.


Poi ai saluti seguono le interminabili chiacchierate sui parenti, sulle nascite e morti e sull'albero genealogico di famiglia.

Solo più tardi zia inizia a raccontare quelle cose che più mi piacciono, piccole filastrocche, muttettus e preghiere in lingua sarda campidanese.

Che memoria!
La serata è bella, ma la zia guarda con insistenza verso sud e ad un certo punto comincia a parlare a voce alta, per attirare l'attenzione di tutti.

“Domani sarà una brutta giornata. Mi raccomando, state a casa. Evitate i viaggi e portate il bestiame nella stalla.”

“Ma zia, che dici, nelle previsioni del tempo non hanno detto niente.”

Mi lamento io, ma lei mi guarda con un sorriso beffardo di chi la sa lunga e continua come se io non esistessi.

“Non c'è alcun dubbio, si avvicina un grosso temporale. Pregherò santa Barbara perché lo tenga lontano da casa e santu Jaccu perchè vi protegga lungo il viaggio.”

Era inutile discutere. Se zia si era messa in testa una cosa, doveva essere quella.

Le credenze popolari della Sardegna attribuivano ai santi il compito di proteggere le persone da eventi naturali che potevano essere pericolosi o dal malocchio.

Qualche anno prima mi aveva raccontato come si curava il malocchio e mi aveva insegnato "is brebus", le parole da pronunciare per proteggere o per curare chi veniva colpito dal malocchio.

All'interno della filastrocca vi erano spesso i nomi di alcuni santi che avrebbero dovuto fungere da protettori o intermediari.

Ebbene, anche per proteggersi dai temporali i santi avevano la loro importanza, Santa Barbara e San Giacomo in particolare.
La visita era finita, erano le sette e ci aspettavano a casa per la cena.

Ero felice di esser riuscito a salutare la zia e potevamo rientrare con la certezza che, se un temporale ci fosse stato, qualcuno ci avrebbe protetto.
Cenammo tutti assieme in cortile a casa dei miei genitori. La serata era bella, l'aria tiepida e il vino buono aiutava nella conversazione.

Poi, ad un certo punto, mia madre chiese di aiutarla a ritirare tutto prima di andar via. Sparecchiammo velocemente e mi accingevo a salutare quando chiese di aiutarla a portare dentro anche i tavoli, le sedie e i vasi che aveva in veranda.

“Che bisogno c'è di portare dentro tutto, è una bellissima serata...”

La sua risposta mi lasciò di stucco. “Alessandro, non hai ancora capito che se un vecchio ti dice una cosa lo devi ascoltare? Se zia ha detto che domani ci sarà un brutto temporale, occorre prestar fede e prepararsi.”

Non avevo voglia di discutere, aiutai a portare dentro i vasi e poi ci salutammo. Ci saremmo rivisti l'estate prossima.

Quella notte mi tornò in mente una vecchia filastrocca che avevo sentito tante volte da piccolo. Mia nonna la recitava sempre quando si avvicinava un temporale. Diceva che serviva a proteggere i suoi cari dai pericolosi temporali e dai fulmini. La filastrocca era solo parte di un rito complesso che mi aveva spiegato.

“Questi riti fanno parte della nostra famiglia da secoli. Non tutti li conoscono e anche se li conoscono non possono recitarli perché solo gli appartenenti alle famiglie di stregoni hanno il potere di farlo.”

Io ascoltavo sempre mia nonna, anche quando diceva delle cose insolite.

Chiusi gli occhi e cercai di dormire.

Era passata da qualche minuto la mezzanotte quando un rumore sordo cominciò a farsi sempre più forte. Un tuono lontano si avvicinava... il vento si era alzato di colpo e gli scurini in legno cominciarono a cigolare, come per avvisare del pericolo che si avvicinava. Mi alzai incredulo e mi affacciai alla finestra.

Il cielo, a sud, era illuminato a giorno dai lampi. Le nuvole nere si stagliavano sul cielo illuminato dalla luna. Un temporale, come aveva detto la zia, si avvicinava...
Santa Brabara e santu Jaccu,
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.
1

Le parole mi tornarono in mente di colpo, con chiarezza, le sentivo rimbombare nella mia testa. Senza rendermene conto mi diressi verso il camino in cucina. Allungai la mano destra e afferrai una manciata di cenere.

Tornai alla finestra, mi portai la mano all'altezza della bocca e cominciai a soffiare verso il temporale senza smettere di ripetere mentalmente il ritornello.
Santa Brabara e santu Jaccu,
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.

Poi le labbra cominciarono a muoversi, involontariamente. Avevo terminato la cenere e come in un sogno vidi le mie braccia alzarsi verso il cielo.

Recitai le formule magiche, prima lentamente, poi più velocemente e a voce sempre più alta...

Santa Brabara e santu Jaccu,
bosu pottaisi is crai de lampu
bosu pottaisi is crai de celu
non toccheisi a fillu allenu
ne in domu e ne in su sattu,
santa Brabara e santu Jaccu.


Mi sembrò che il tempo non passasse più. Poi di colpo mi resi conto che il vento cambiava direzione. Il temporale si allontanava verso ovest, accompagnato dai tuoni e fulmini.


Tornai a letto in silenzio, sembrava che nessuno si fosse reso conto di niente.

Mia moglie dormiva girata sul fianco e il silenzio era tornato a regnare nella stanza.

La mattina dopo mi alzai tardi, mi sentivo stanco. Ricordavo a malapena di aver sognato.
Un sogno strano. Avevo sentito il rombo del temporale avvicinarsi, ma il sole alla finestra diceva che la giornata sarebbe stata bella. Zia Nina aveva sbagliato previsioni, meglio così. Avevamo un lungo viaggio da fare e guidare con la pioggia non mi era mai piaciuto!

Scesi in cucina. Mia moglie aveva appena messo il caffè sul fuoco e l'odore aveva appena cominciato a diffondersi nell'aria.
“Hai dormito bene?” Chiese con indifferenza.
Risposi di si, anche se ero veramente stanco, come se non fossi andato a letto per niente.
“Sai, questa notte mi è sembrato di averti visto in piedi di fronte alla finestra. Sarà stato un sogno...”
Solo in quel momento mi resi conto di essere tutto sudato, come se avessi compiuto chissà quale sforzo. Di colpo ricordai tutto con lucidità. Impossibile, pensai! Raggiunsi di corsa la finestra della camera da letto, poggiai le mani sul davanzale e osservai a lungo il cielo, cercando risposte.
Non può essere, ho sognato... pensai, e tornai in cucina.

Mi sedetti al mio solito posto e cominciai a sorseggiare il caffè.
“Amore, ti sei sporcato le mani di cenere? Vai a lavarti...”

Aggiunse mia moglie, con tono deciso...


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


1 La traduzione è circa questa: Santa Barbara e san Giacomo/
voi avete le chiavi del fulmine/voi avete le chiavi del cielo/
non colpite i figli degli altri/ne a casa ne in campagna/santa Barbara e san Giacomo.

domenica 8 dicembre 2013

L'ultimo...

Il buio era sceso per le strade di Londra.
Erano appena le cinque ma la pallida luce del giorno era già scomparsa dietro un velo di fitta nebbia.
Il vicolo era buio e sporco, bidoni di immondezza offrivano riparo a grossi topi di città.
Sulla sinistra tre gradini davano l'accesso ad una vecchia casa diroccata, lì, accucciata in un angolo, s'intravvedeva la sagoma di un uomo, avvolto in una vecchia coperta di lana grossa.
Solo una scarpa sporgeva dalla vecchia coperta, tirata fin sopra i capelli, come a proteggere il volto dal freddo pungente.
In terra una scodella sbeccata di ferro smalto, con dentro poche monete, fungeva da chiaro invito a fare della beneficenza.
Il vicolo dava su una strada ricca di luci e vetrine.
La gente passava di continuo senza mai voltare lo sguardo verso quello che era un angolo buio dell'umanità!
Ricchi signori accompagnavano eleganti signore alla ricerca degli ultimi regali di Natale, abbigliati con pesanti cappotti, colorati cappellini e grossi guanti di pelle. Abbagliati dalle vetrine colorate, preparate per prendere in trappola ricchi avventori, i passanti passeggiavano velocemente, stimolati dal freddo.
La ricca opulenza della strada contrastava fortemente con il buio sporco del vicolo, ma così è Londra, come tutte le grandi città in cui l'umanità si concentra.
Ricchezza e povertà, due facce della stessa medaglia: l'Uomo!
Se qualcuno avesse potuto guardare sotto la coperta, avrebbe visto due occhi grandi, lucidi, azzurri come il ghiaccio, in fervida attesa.
Avrebbe potuto vedere un uomo forte, nervosamente pronto all'azione, ben diverso dall'apparente fragilità dell'accattone che attende un obolo che non arriva mai. Avrebbe potuto toccare il freddo coltello che teneva stretto nella mano destra, in attesa della propria vittima.
Se qualcuno avesse potuto penetrare nel suo cervello vigile avrebbe letto una serie di immagini terribili, che si ripetevano simili nella sua mente. Un passante si avvicina, tende la mano verso la ciotola per attenuare i suoi sensi di colpa particolarmente vivi a natale. Una lama fredda come il ghiaccio si avvicina al suo collo. L'obolo si trasforma in rapina! Il mendicante si allontana rapidamente. Voltato l'angolo buio si libera della coperta e si allontana lentamente stavolta, confuso tra la folla.
Era il suo modus operandi, e rendeva abbastanza.
Talvolta capitava che lo sventurato urlasse, allora doveva scappare velocemente, ma accadeva raramente, solitamente tutto filava liscio.
Quella sera aveva scelto attentamente il posto, era un vicolo con una doppia uscita, alcuni bidoni dell'immondezza che impedivano il passaggio alle auto e buio a sufficienza per realizzare il suo intento, occorreva solo attendere.
Una coppia passava proprio in quel momento. Lo guardarono di traverso, lui infilò la mano nella tasca alla ricerca di qualche moneta ma lei lo tirò via, bruscamente, con sospetto, quasi presentendo il risultato di quell'atto di generosità!
Due mocciosi attraversarono di corsa il vicolo, rincorrendo un cane che si fermò un attimo ad annusargli le caviglie. Lo allontanò con un calcio e si risistemò la coperta sul viso, ritornando al precedente stato di immobilità. In vigile attesa come un pescatore in riva al fiume, come un cacciatore alla posta.
L'attesa era la parte peggiore, il freddo era sempre intenso e non ci si poteva muovere, occorreva stare immobili, come facevano quelli veri, di accattoni.
I due ragazzi tornavano indietro col cane al guinzaglio, questa volta tenuto saldamente dalla mano del più piccolo. Per un attimo il cane si avvicinò nuovamente alla sua scarpa, ancora un istante e l'avrebbe colpito nuovamente, ma non fece in tempo. Il più grande dei ragazzi gli era già addosso e con un coltello affilato gli trapassava il cuore.
Fece appena in tempo a capire che la morte lo portava via. I suoi occhi azzurri si scioglievano in lacrime; il ragazzo lo guardò dritto negli occhi, senza alcun rimorso. Infilò la mano sinistra nelle sue tasche, prese portafogli e orologio quindi estrasse il coltello pulendolo su un lembo della vecchia coperta.
Un fiotto di sangue caldo sgorgò violentemente dalla ferita, ma i due ragazzi erano già lontani.
Un rantolo sordo fu l'ultima cosa che sentì...
quella notte di Natale, l'ultimo!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 9 marzo 2013

Un incontro molto speciale

Era un giorno come tanti altri.
Mi ero alzato all'alba per recarmi al lavoro come tutti i giorni, domeniche comprese.
Mi ero fermato alla bottega sotto casa, come sempre, per prendere una pagnotta calda appena sfornata e due fette di lardo salato, quello sarebbe stato il mio pranzo.
Inforcata la bicicletta, una vecchia Graziella rossa, mi diressi verso la campagna.
Era ancora freddo, come è giusto che sia a febbraio in collina. Il cielo, dopo la pioggia notturna, aveva lasciato spazio ad un pallido sole che stentava ad alzarsi sull'orizzonte.

"Forse anche lui aveva freddo, pensai a voce alta".

Non voleva essere un'offesa verso l'astro nascente, semmai una constatazione.
Eppure, ciò che accadde subito dopo fu straordinario, tant'è che ancora oggi, molti anni dopo quei fatti, non sono in grado capire!
 
Cercherò di raccontarvi ciò che mi ricordo anche se so bene che difficilmente qualcuno mi crederà, ma poco importa. Voglio comunque lasciare ai posteri una testimonianza dell'accaduto, seppure io stesso abbia ancora dei dubbi.
 
L'aria era fredda, l'erba a bordo strada era ricoperta da un sottile strato di brina bianca, un velo di ghiaccio finissimo capace però di bruciare tutto come fosse fuoco.
Le pozzanghere erano ancora ghiacciate e sul fango si potevano leggere le impronte lasciate dagli animali il giorno prima. Gli uccelli iniziavano timidamente a cinguettare e io fischiettavo per passare il tempo, osservando il mio alito condensarsi in sottili fili di fumo.
 
Una mezz'ora e sarei arrivato, anche se la Graziella mi avrebbe fatto faticare non poco. La cosa buona era che il pedalare di continuo mi aiutava a riscaldarmi. Certo, le dita delle mani erano sempre fredde, come la punta del naso e delle orecchie, ma che ci potevo fare?
Ancora venti minuti e avrei raggiunto il cancello in legno della fattoria del mio datore di lavoro, si chiamava Igor, ed era un uomo grande e grosso, biondo di capelli e con una voce roca e cavernosa che incuteva un certo timore.
Io allora avevo appena compiuto tredici anni e avevo lasciato la scuola dopo la seconda elementare. Ero stato promosso, ma quell'anno morì mio padre e dovetti iniziare a contribuire alla vita in famiglia così mia madre mi trovò un bel lavoro, ben retribuito e mi accompagnò da Igor.
Da allora erano passati cinque anni e io intanto ero cresciuto sotto la guida severa ma onesta di quell'uomo che, un po alla volta, divenne come un fratello maggiore per me.
Il lavoro era duro, occorreva pulire il bestiame, raccogliere le uova, dare da mangiare ai conigli e ai maiali. Tagliare l'erba, raccogliere la frutta, fare il formaggio... e fin qui tutto bene. Poi bisognava mettere le trappole per i topi, rivoltare il grano, legare e pulire aglio e cipolla... e così via, di giorno in giorno, per poi ripetere il tutto, con pochissime varianti, l'anno successivo.
Magari un anno si raccoglievano più olive e si faceva più olio, oppure si trovavano meno asparagi, ma la vita era più  o meno sempre quella.
Non c'era ancora la televisione a casa e il tempo per i grilli per la testa non c'era proprio. Qualche volta in testa c'erano i pidocchi e mia madre li ammazzava a furia di strofinare i capelli con l'aceto, ma il tempo per i grilli non c'era mai!
A pranzo mangiavo la mia focaccia con il lardo.
Era veramente saporita e dovevo ringraziare Igor, era lui che pagava il conto. Una focaccia e due fette di lardo al giorno erano parte del mio salario. Il resto arrivava a fine settimana. Dipendeva dalla stagione, a volte una forma di formaggio, altre volte un bidone d'olio d'oliva oppure un capretto da latte.
Così era la vita in quegli anni della mia gioventù, almeno fino ad allora, al giorno in cui, come dicevo prima, inforcata la bicicletta per andare al lavoro, incontrai quell'uomo lungo la strada.
Avevo appena detto a voce alta che forse anche il sole quella mattina aveva freddo quando, di colpo, un uomo si parò di fronte a me, quasi facendomi cadere di sella.
 
Mi fermai in mezzo alla strada, coi piedi puntati in terra per non cadere nel fango ghiacciato delle pozzanghere e lo guardai dal basso verso l'alto.
Era un uomo alto, con dei lunghi capelli neri, avvolto in un lungo cappotto di lana grezza di color marrone.
Stava li, in mezzo alla strada, osservando il sole che a stento sorgeva... poi, senza guardarmi in faccia, mi parlò.
Non capii subito cosa diceva, non era la mia lingua e sembrava più che altro una specie di musica, simile alla melodia degli uccelli che di tanto in tanto cercavo di imitare fischiando.
Poi, un po alla volta, il mio cervello cominciò a capire il significato di quei suoni che si trasformarono in parole e poi in frasi di senso compiuto.
Ecco cosa quell'uomo diceva:
 
"Io sono il Sole, l'Astro nascente, il signore della vita sulla Terra.
Terra è la mia donna, la mia sposa fedele.
Alberi sono i miei figli, come pure gli animali e gli uomini...
e tu chi sei, mio piccolo amico?"
 
Io lo guardavo stupito e impaurito, cercando di capire se poteva esserci modo di scappare se necessario, cercando di interpretare i piccoli movimenti dell'uomo di fronte a me, alla ricerca di una qualche minaccia da cui fuggire all'istante, anche a rischio di perdere la mia bicicletta...
Ma il tono della voce era pacato e niente lasciava pensare ad un pericolo imminente. Solo una cosa mi appariva strana, quell'uomo non guardava mai nella mia direzione ma sembrava osservare il cielo in profondità, con una specie di nostalgia, come se gli mancasse qualcosa che si trovava lontano nel cielo.
 
"Chi sei?" Chiesi con un nodo in gola.
"Posso passare per favore?"
Chiesi a voce bassa, ancora poco a mio agio...
 
"La strada è tua, piccolo amico, ma prima dimmi perchè mi hai cercato affinchè io possa tornare lassù da dove vengo senza indugio.
Non posso stare a lungo quaggiù senza gravi conseguenze"
 
Lo guardai fisso, cercando di vedere il suo viso, per capire perchè mi prendeva in giro... eppure più lo osservavo e meno lo vedevo. Non riuscivo a vedere il suo viso, non vedevo neppure le mani, solo il lungo cappotto scuro mi risultava visibile. Tutto il resto era li ma allo stesso tempo non c'era!
 
"Io sono il Supremo, l'essere sempiterno, colui che non è stato creato ma che crea e, si, hai ragione, oggi ho freddo e avrei fatto a meno di alzarmi questa mattina!"
 
Di colpo mi tornò in mente ciò che avevo appena detto e capii che quell'uomo era li perchè l'avevo chiamato io, avevo di fronte il Sole, solo per me, perchè gli avevo parlato!
Non sapevo che cosa rispondere, cosa potevo dirgli?
E poi, probabilmente stavo sognando ad occhi aperti e presto mi sarei risvegliato, magari a terra, sporco di fango ghiacciato!
 
"Perchè mi prendi in giro?
Io non ti ho fatto niente... scusa, per favore fammi passare, devo andare a lavorare..."
 
L'uomo si voltò verso di me e mi guardò... solo allora mi resi conto che non era un uomo. Mi sorrideva anche se non aveva volto. Mi osservava anche se non aveva occhi.
Nonostante tutto non provai paura. Mi resi conto che era un essere buono, un portatore di morte a volte, di speranza altre volte, di vita sempre.
Mi resi conto di avere un Dio di fronte e di essere fortunato ad averlo incontrato... ed essere ancora vivo!
 
Poi, così come era arrivato, si voltò e scomparve, ma prima disse ancora una frase che mi ha accompagnato per tutta la vita, ora giunta al termine.
 
"Io sono il Sole, Dio se vuoi, padre tuo e di tutti gli esseri viventi, ricordati di me ogni giorno quando rivolgi lo sguardo ad Est e io ti accompagnerò e ti proteggerò, piccolo amico mio... e grazie per avermi chiamato!"
 
Restai muto in mezzo alla strada, poi pedalaiverso la fattoria di Igor e proseguii la mia vita di tutti i giorni.
Da allora ogni mattina alzo lo sguardo al cielo, verso Est, e saluto il mio amico, il mio padre augurandogli una buona giornata!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO