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lunedì 18 maggio 2020

1,5 miliardi di dollari in Italia: mega investimento Microsoft

Qualche giorno fa Microsoft ha annunciato il più grande investimento della sua storia in Italia, ossia la realizzazione della Datacenter Region. Si tratta di un investimento di 1,5 miliardi di dollari con un piano di attività di supporto per accompagnare i nuovi servizi cloud con risorse per competenze, tecnologie avanzate e sostenibilità.
La cosa non è passata inosservata e così abbiamo chiesto a Carlo Mauceli, Chief Technology Officer per Microsoft Italia, di raccontarci in cosa consiste il progetto.

CM: L’annuncio che Microsoft abbia deciso di aprire un nuovo Data Center Region ci ha colti quasi di sorpresa, anche se il lavoro preparatorio fatto ci dava delle ottime chances. La notizia e l’eco che ha avuto ci ha un pò stupiti piacevolmente e ora sappiamo per certo che anche le aspettative, sia in azienda che in tutta Italia, sono alte. L’investimento di 1,5 miliardi di dollari è per la creazione di una “Data Center Region” e per gestire tutto ciò che serve per aiutare il paese nella crescita digitale. Abbiamo la convinzione che l’apertura del Data Center porterà tanto in Italia, sia in termini di investimenti diretti ma soprattutto di indotto e di sviluppo della conoscenza. Dobbiamo dare qualche dettaglio tecnologico per spiegare di cosa stiamo parlando perché l’architettura su cui si basano i Datacenter di Microsoft non ha uguali in nessun’altra realtà, sia essa privata oppure pubblica. Tutte le informazioni, in ogni caso le potete trovare qui.


I tre concetti di base sono i seguenti:

Aree o Region
Un'area è un set di data center distribuiti entro un perimetro definito dalla latenza e connessi tramite una rete regionale dedicata a bassa latenza.
Con un numero di aree globali superiore rispetto a qualsiasi altro provider di servizi cloud, Azure offre ai clienti la flessibilità necessaria per distribuire le applicazioni dove necessario. Azure è disponibile a livello generale in 58 aree nel mondo, a cui si devono aggiungere Polonia, Nuova Zelanda e Italia.

Aree geografiche

Un'area geografica è, in genere, rappresentato da un territorio specifico, che include in genere due o più aree e che soddisfa i requisiti relativi a residenza dei dati e conformità.
Le aree geografiche consentono ai clienti con esigenze specifiche, che possono essere normative oppure tecnologiche, di mantenere la cosiddetta Data Residency e utilizzo delle applicazioni con latenza molto bassa. Le aree geografiche garantiscono alta affidabilità, Disaster Recovery, Business Continuity e Geo Replication.

Zone di disponibilità

Le zone di disponibilità sono località separate fisicamente entro un'area o Region di Azure. Ogni zona di disponibilità è costituita da uno o più data center dotati di impianti indipendenti per l'energia, il raffreddamento e la rete.
Le zone di disponibilità consentono ai clienti di eseguire applicazioni cruciali con disponibilità elevata e replica a bassa latenza.



Ingegnere, in poche parole, cos’è un Data Center Region? 
E come potrebbe aiutare la crescita della digitalizzazione?
CM: Un Data Center Region è un insieme di data center per la erogazione dei servizi, installato in una determinata area geografica, nel nostro caso in Italia. 
Si tratta dunque di un certo numero di data center distribuiti sul territorio, progettati e realizzati per garantire uno SLA (livello di servizio) del 99,99999 %, ovvero con valori di resilienza elevatissimi. Diciamo che se nella classificazione standard dei data center il livello massimo è quattro, un Data Center Region è progettato per raggiungere un livello 5 !
Ogni singolo data center è totalmente indipendente dagli altri in merito alle strutture di protezione ed alimentazione ed è pronto a sopperire alle eventuali mancanze di uno dei data center dell'area (vedi figura precedente).
Inoltre, cosa da non sottovalutare, la strategia Microsoft è quella di avere un basso impatto ambientale, cercando di sfruttare le opportunità del territorio sia per alimentare che per raffreddare i
data centers come parte del piano che abbiamo lanciato per diventare carbon negative entro il 2050.

Sicuramente una iniziativa complessa. 
Ingegner Mauceli, quali sono i motivi che hanno spinto Microsoft a questo investimento? Perché l’Italia è stata scelta per l’installazione di un Data Center Region?

CM: Le motivazioni alla base di una scelta simile sono tante, sicuramente c’è la volontà di migliorare I servizi resi alle società italiane, poi la presenza di un Data Center Region è un facilitatore dell’innovazione dei processi di digitalizzazione. 
Non bisogna poi dimenticare che l’Italia è un paese complesso in cui la normativa per la sicurezza e per la privacy sono declinate, interpretate e poste in essere in modo tale da soddisfare le proprie esigenze principalmente nazionali, oltre che internazionali, il Data Center Region, sul territorio nazionale, consentirà di aderire ancora meglio alle policy nazionali per esempio in materia di custodia dei dati sensibili sul territorio. 
Questo significa che il data center in Italia ha anche una valenza nazionale e che Microsoft crede nel potenziale digitale dell’Italia, probabilmente fino a questo momento, inespresso.

E riguardo la complessità? 
Avete intenzione di fare tutto da soli o vi farete aiutare?

CM: Il progetto è ambizioso e complesso sotto tanti punti di vista ma in Europa vi sono altri Data Center Region per cui non partiamo da zero. 
Il nostro amministratore delegato Satya Nadella, da quando guida la società, ha inaugurato un nuovo corso. La società è ora sempre più vicina al mondo esterno, cerca partnership con coloro che possono apportare conoscenze particolari in un campo limitrofo. 
Questo progetto ha anche la pretesa di coinvolgere nel processo di sviluppo digitale le Università e le imprese che avranno qualcosa di costruttivo da apportare al progetto. 
Noi siamo italiani e per definizione geniali in tantissimi campi, ma spesso ci perdiamo in diatribe e non guardiamo un progetto nel suo insieme. Per raggiungere un obiettivo ambizioso occorre essere geniali ma anche superare le rivalità interne e riuscire a fare sistema. Il Data Center Region vuol essere un’occasione per l’Italia per superare queste difficoltà e fare crescere il Paese dal punto di vista della digitalizzazione. È inaccettabile che l’Italia sia al quart’ultimo posto per competenze digitali, come espresso dall’indice DESIi. Un paese come il nostro merita ben altro e, siccome in un mondo globalizzato, è difficilissimo riuscire a emergere da soli, l’idea è proprio quella di sfruttare questa occasione per stringere alleanze e rapporti tra pubblico e privato. 
Siamo sicuri di potercela fare e la recente crisi pandemica ha funzionato da stimolo per far crescere l’Italia esattamente in questo senso. In pochi mesi sono state fatte delle scelte che in dieci anni hanno sempre trovato ostacoli enormi, basta guardare cosa è successo nel campo del telelavoro o della didattica a distanza.

Ingegnere, cosa ci dice dei tempi? 
Su quanti anni si sviluppa il progetto?

CM: Ancora non ho dati esatti, sicuramente è un progetto pluriennale, che dovrà coinvolgere tanti partners, istituzionali e privati, penso sicuramente alle università che dovranno in qualche modo aiutarci nella preparazione dei ragazzi che verranno a lavorare da noi o che vorranno sviluppare esperienze basate sulle tecnologie messe a disposizione. Sicuramente avremo bisogno di ingegneri e tecnici hardware e software ma non solo. Occorreranno anche manager capaci nel settore della gestione del rischio, nella sicurezza informatica ed esperti della normativa italiana. Quindi le Università saranno uno dei nostri partners privilegiati. Comunque, come ho già detto, noi siamo aperti a tutti coloro che hanno un obiettivo chiaro.
Non bisogna dimenticare che la nostra tecnologia è un mezzo per far raggiungere ad imprese e persone i loro obiettivi e siamo tutti convinti che la multidisciplinarietà sia un valore aggiunto, questo per dire che il Data Center Region, ancora una volta, fungerà da acceleratore in tutti
i campi in cui si potrà sfruttare la creatività e il genio tutto italiano
Posso aggiungere che se usiamo delle stime realizzate dal Politenico di Milano School of Management, anche dalle esperienze della creazione degli altri distretti, per i prossimi cinque anni vi sarà un indotto di circa 10.000 posti di lavoro dall’indotto, dalle assunzioni dirette ai partners a tutti i livelli, fino alle imprese che potranno realizzare nuovi progetti sulla nostra piattaforma.

E nel campo della ricerca e dello sviluppo software?

CM: Come ho accennato prima il Data Center Region è una piattaforma abilitante, per cui il limite è la fantasia degli italiani e la propensione alla trasformazione digitale delle società. Se vi saranno start-up o imprese che vogliono sviluppare software o specifiche soluzioni tecnologiche in qualsiasi campo, noi li aiuteremo mettendo a disposizione quelle che sono le potenzialità della piattaforma. Stessa cosa vale per l’Intelligenza Artificiale o altri settori tecnologici relativamente nuovi. Ancora una volta, il limite non sarà Microsoft ma, eventualmente, la mancanza di immaginazione, ma non credo sia il caso degli italiani.
Mi piace dire che Microsoft è un abilitatore, il cloud è una piattaforma disponibile per essere sviluppata e per far sorgere progetti e soluzioni.

Ingegner Mauceli, una domanda un pò scomoda. 
Pensa realmente che la classe dirigente italiana sia pronta a questo salto? Noi abbiamo tante volte accennato alla mancanza di consapevolezza nel settore digitale e in particolare nel settore della cybersecurity a causa della impreparazione della classe dirigente e della bassa propensione al rischio…

CM: Io sono fiducioso. 
Negli ultimi anni abbiamo visto tante aziende che sono state capaci di cambiare, con alcune abbiamo stretto delle partnership mentre con altre, stiamo lavorando assieme per farlo, con altre ancora, magari, ci sarà la possibilità di farlo in un prossimo futuro. 
Il mondo sta cambiando, l’Italia si sta muovendo verso il futuro. Anche altre grosse industrie, nostre dirette concorrenti in alcuni casi, se ne sono accorte e hanno fatto la nostra stessa scelta, investire nel Bel Paese, per aiutarlo a crescere e crescere insieme.


Alessandro Rugolo, Giorgio Giacinto, Danilo Mancinone


Per approfondire:

i Il DESI (Indice di digitalizzazione dell'economia e della società) è lo strumento mediante cui la Commissione europea monitora la competitività digitale degli Stati membri dal 2015. https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/desi

giovedì 7 maggio 2020

COVID 19, per capirci!



Lavorando per un’azienda americana, il termine “storytelling” viene utilizzato in maniera estremamente frequente ormai da diverso tempo. Ciò che meraviglia, forse nemmeno troppo, è che pur avendo una lingua così bella e ricca di termini, è prassi comune e consolidata in Italia, a ogni livello, affidarsi a termini stranieri, il più delle volte inglesi. Devo dire, comunque, che c’é qualcosa di particolare in questa parola, qualcosa che non saprei descrivere ma che suscita una specie di meraviglia e stupore nel chi ascolta, non appena viene evocata. Basta utilizzarla per fare apparire impreziosito un ragionamento, valido o no che sia, ed ecco che come per magia, gli interlocutori si illuminano come se si fosse espresso il concetto più profondo di sempre.


Ormai è diventato di uso comune, tanto che non ci facciamo neanche più caso, tanto che, forse, abbiamo smesso di domandarci veramente cosa intendiamo quando parliamo di storytelling oppure sappiamo di cosa parliamo ma, con tutta probabilità, ce lo siamo dimenticati.


Durante l’emergenza del coronavirus il nostro ruolo è chiaro. Ci è stato raccomandato di “eseguire gli ordini” e di dovere, così, fare la nostra parte, rispettando le regole come, del resto, dovrebbe avvenire sempre in un contesto democratico e di comunità. Le mie azioni non hanno impatto solo su me stesso ma anche sulle persone che mi circondano e con le quali interagisco e così, al contrario.

Eppure, durante questa esperienza mai vissuta prima, abbiamo un atteggiamento un po' asimmetrico rispetto a coloro che stanno cercando di affrontare e risolvere l’emergenza e non possiamo fare altro che obbedire e fidarci.

Ed ecco la parola chiave: fiducia. Guardiamo cosa ci dice la Treccani a proposito di questa parola così importante.



fidùcia s. f. [dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»] (pl., raro, -cie).



  1. Atteggiamento, verso altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità: fin Dionegli uomininella fraternità umananella scienzanel progresso socialefnella vittoriafdi riuscirefnella propria stellanelle proprie forzefnell’esito di un’impresaguardare con fall’avvenireferma f.; fillimitataassolutaincondizionataaverenutrire f.; perdere la f.; dare un attestatouna prova di f.; ispirare f.; guadagnaremeritaregodereavere la fdi qualcunoriporre bene, o malela propria f.; abusare della faltrui. Di uso com. le espressioni: persone di f., di miadi tuadi sua f., persone fidate a cui si ricorre in cose delicate e d’importanza; medicoavvocato di f., quello che è liberamente e abitualmente scelto dal cliente; postoimpiegoincarico di f., di responsabilità, delicato, che si affida solo a persone sicure, fidate. 
  2. In diritto costituzionale, voto di f., votazione mediante la quale il parlamento approva (o, se la votazione dà risultato negativo, disapprova) gli indirizzi politici e la corrispondente azione del governo; mozione di f., la proposta, fatta da una delle Camere, di ricorrere al voto di fiducia; questione di f., richiesta da parte del governo di ricorrere al voto di fiducia per l’approvazione o la reiezione di emendamenti e articoli di progetti di legge: il governo ha deciso di porre la questione di fiducia
  3. In diritto civile, ftestamentaria (o disposizione testamentaria fiduciaria), disposizione di testamento per la quale il soggetto che riceve il bene ne è il beneficiario apparente, avendo l’obbligo di trasmettere quel bene ad altra persona (che normalmente non potrebbe essere erede diretto del testatore).



Fiducia è una parola “pesante” che abbraccia scenari ampi e che rappresenta una responsabilità importante in chi la dà e in chi la riceve.

Questo per dire che dobbiamo confidare in coloro che stanno cercando, con non poche difficoltà, di fare fronte ad un problema a cui nessuno era preparato. Pertanto, dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni centrali, nelle amministrazioni locali, nei medici, negli scienziati e, non meno importanti, in chi ci racconta ciò che succede, ovvero i giornalisti e i conduttori. Dobbiamo averla in maniera incondizionata, soprattutto considerando il mondo nel quale viviamo? Un mondo nel quale siamo bombardati quotidianamente da una quantità enorme di notizie che affermano tutto ed il contrario di tutto.

Ecco, forse, il punto fondamentale; ossia la gestione della comunicazione, sia da parte delle istituzioni sia da parte dei media che, soprattutto all’inizio, ha provocato una fuga di notizie che ha generato profonde discussioni ma anche reazioni irrazionali verso tutto e tutti, a partire dal famoso episodio relativo a coloro che affollarono le stazioni del nord per scappare al sud tanto che, col passare dei giorni ci siamo resi conto che quella reazione così irrazionale è stata pur sempre innescata da un gesto altrettanto irresponsabile.

Sembrava, perciò, esserci stata l’occasione per riflettere sul modo in cui, in parallelo agli sforzi medici, si dovesse e potesse affrontare il coronavirus sul piano della comunicazione, ragionando appunto su uno storytelling dell’emergenza. Invece, la narrazione della crisi è proseguita su binari che facevano affidamento su termini, pratiche e abitudini che, purtroppo, caratterizzano in negativo la comunicazione da tempo, ben prima della diffusione del Covid-19.

Il sensazionalismo, l’analisi grossolana, la ricerca frettolosa di buoni e cattivi, di eroi e di nemici della patria. In un momento in cui gli italiani non possono far altro che fidarsi di ciò che viene loro detto, la confusione e la disinformazione hanno dilagato tanto quanto il virus, rendendo sempre più difficile la comunicazione e, di fatto, quasi vanificando l’occasione di proporre finalmente una narrazione di qualità, mai come ora di vitale importanza.

E tutto ciò perché la stragrande maggioranza delle persone non legge, non si informa, non studia e ascolta gli imbonitori politici che pur di raccattare voti, anche in una situazione così critica come questa, usa la comunicazione in modo fazioso e strumentale.

Personalmente, da tempo, ho deciso che tutto questo creare confusione nella mia capacità di capire e conoscere, il più possibile, la verità, dovesse finire e così mi sono dedicato a cercare, in primo luogo, da ingegnere, se ci fossero degli elementi matematici che fossero in grado di darmi le chiavi per capire se e come determinati comportamenti richiesti dal Governo avessero senso e fossero, in definitiva, corretti e quali fossero gli elementi chiave per studiare l’evoluzione di una epidemia prima e di una pandemia dopo.

Per fortuna, ho trovato tante fonti che mi hanno aiutato a comprendere meglio un fenomeno che, penso, nessuno di noi ha mai vissuto prima e possiamo affermare, senza tanti giri di parole, che, oltre al virus vero e proprio, ne esiste un secondo, parallelo e "virtuale", legato alla rapida e capillare diffusione delle notizie e alla conseguente apprensione che riesce a generare nella popolazione.

Questo fatto ci riporta a una interessante analogia: la modalità con la quale un virus si trasmette nella popolazione durante un'epidemia è, spesso, estremamente simile alla dinamica che regola la diffusione di un tweet, di un post, di un video, di un meme o di un altro contenuto sulla rete. Sarà un caso se a questo tipo di contenuti di successo associamo l’aggettivo "virale"?

Per comprendere meglio questi fenomeni, ci viene in soccorso la matematica e, in questo, devo ringraziare Paolo Alessandriniiii ed il suo blog che spiega, in modo semplice, queste dinamiche.

Io ho cercato di prendere il meglio di quanto descritto, di farlo mio e di conseguenza, di capire le ragioni per cui il Governo ha deciso di intraprendere la strada di cui tutti quanti noi siamo attori. È un dato di fatto che il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) che fornisce le stime e le curve di crescita e di decrescita dell’epidemia ha utilizzato il modello proposto nel 1927iii dagli scienziati scozzesi William O. Kermack (1898-1970) e Anderson G. McKendrick (1876-1943).
Questo modello si basa sulla divisione della popolazione in tre categorie o cluster:
1. gli individui suscettibili, "susceptible", indicati con S, che non sono stati ancora contagiati ma che potrebbero diventarlo;
2. gli individui infettivi, "infectious", indicati con I, che sono stati infettati e sono contagiosi;
3. gli individui guariti, "recovered", indicati con R, che sono stati infettati ma non sono più contagiosi perché sono o guariti oppure sono deceduti o, ancora, sono stati isolati.



Figura 1 - Flusso tra le Categorie



Di fatto, il modello di Kermack e McKendrick prevede che, nella maggior parte delle epidemie, una persona può passare soltanto dalla classe 1 alla classe 2 oppure dalla classe 2 alla classe 3, non essendo possibile un ritorno dalla classe 3 alla classe 2, ovviamente, ipotizzando che chi è guarito dalla malattia si sia immunizzato.
Questo modello si basa su un sistema di equazioni differenziali che permettono di prevedere l'andamento nel tempo della numerosità delle tre classi epidemiologiche sopra descritte: S(t), I(t) e R(t).


Il modello in questione viene chiamato SIR ed il suo principale obiettivo è quello di prevedere l'evoluzione di un'epidemia e stimare la porzione di popolazione che contrarrà la malattia.


Questi modelli sono applicabili se sussistono alcune ipotesi:

  • durante l’epidemia la popolazione non si riproduce, cioè non vi sono nuove nascite;
  • durante l’epidemia la causa principale di morte è la malattia epidemica stessa;
  • la popolazione è isolata, cioè non vi sono entrate o uscite rispetto all'esterno;
  • la malattia non ha un periodo di incubazione;
  • dopo la guarigione si acquisisce immediatamente l'immunità;
  • tutti gli individui infettivi sono ugualmente contagiosi, indipendentemente dal tempo trascorso dal contagio.

È evidente come queste ipotesi siano abbastanza lontane dalla realtà, soprattutto nel caso del COVID-19. Ad esempio, il periodo di incubazione esiste ed è stato valutato che la sua durata è variabile perché si può andare da 9 a 14 giorni.

Anche l'immunità dei guariti non è stata verificata ed anche le prime due ipotesi non reggono. La verità, in questo caso, è che di questo virus si conosce davvero poco e, dunque, è difficilissimo fare ipotesi che abbiano un senso.

Allo stesso tempo, però, da qualche parte bisogna cominciare ed il trucco, quando si formula un modello matematico, è quello di concentrarsi sugli elementi chiave, tralasciando quelli che, alla fine, possono essere considerati dei dettagli.

Pertanto, alla luce di queste considerazioni, la dinamica di un modello SIR è, tutto sommato, elementare e può essere rappresentato dalla figura 2:

  1. All'inizio dell'epidemia la classe S, ossia gli individui non ancora contagiati, diminuirà progressivamente a causa dei contagi mentre la classe I, ossia quella degli infettivi, aumenterà per la medesima ragione.
  2. Più cresce la classe I è più aumenta la probabilità di un suscettibile di essere contagiato. Ciò significa che l'aumento degli infettivi tenderà inizialmente ad accelerare.
  3. Alcuni individui, però, cominceranno a passare dalla classe degli infettivi a quella dei "recovered", perché nel frattempo sono guariti, oppure deceduti, oppure messi in isolamento.
  4. Da qui in poi la situazione sarà basata sul saldo tra i due passaggi: fino a quando i contagi saranno maggiori dei recovered, l'epidemia resterà nella sua fase ascendente ma quando la situazione si invertirà, allora l’epidemia entrerà nella fase discendente.
In tutto ciò, vale la regola che S è sempre decrescente ed R è sempre crescente.
Figura 2 - Tipico andamento di una epidemia secondo lo schema SIR


Alla luce di quanto descritto, credo sia chiaro perché questo modello è applicabile anche al fatto che un contenuto digitale, pubblicato in rete, possa diventare virale.
Al momento della pubblicazione, rispetto alla potenzialità "viralità" del meme, tutta la popolazione mondiale appartiene alla classe dei suscettibili, perché nessuno ha ancora visto il meme ma potrebbe farlo in futuro. 
Man mano che le persone scoprono il meme e lo condividono a loro volta, questi passano dalla classe dei suscettibili a quella degli infettivi: diventano infatti "vittime" del contenuto virale, cioè se ne appassionano e sono attive nel diffonderlo verso altre persone. Col passare del tempo, sempre più persone cesseranno di interessarsi al contenuto e smetteranno di diffonderlo, passando così nella classe dei "guariti".
A questo punto al di là di alcune domande che sorgono spontanee quali: perché il Covid-19 si diffonde secondo uno schema epidemico ed è corretto affermare che lo schema precedente sia quello giusto per studiare l’andamento epidemico del virus?, credo che, dato per assunto che il modello utilizzato dal CTS è questo, cerchiamo di capire come la matematica ha aiutato a finalizzare alcuni concetti.
Senza entrare nel dettaglio di una dimostrazione matematica che potete, tranquillamente, trovare al seguente link, grazie al già citato Paolo Alessandrini, da parte nostra consideriamo alcuni elementi chiave tramite i quali si è arrivati a definire le azioni intraprese dal Governo.
Per farlo partiamo da una considerazione fondamentale. Quando si può dire che un virus scatena un’epidemia, matematicamente parlando?
Riprendiamo il flusso delle varie classi:


Ci sono due nuovi parametri da considerare:


  • α che è l’indice di contagiosità;
  • β che è l’indice della possibilità che un malato passi nello stato recovered.


Il rapporto tra β e α ha il significato di soglia all'inizio dell'epidemia: se il numero di individui suscettibili è maggiore di questa soglia, l'epidemia può innescarsi e tenderà, in una prima fase, a espandersi in modo molto rapido; se invece è minore, l'epidemia non riesce nemmeno a partire perché il numero degli infettivi si estingue subito.

Siccome il numero di suscettibili, in base a questo modello, diminuisce sempre, questo ci assicura che, anche nelle epidemie più devastanti, prima o poi esso scenderà al di sotto del rapporto β/α, dando avvio alla fase discendente dell'epidemia. In alcuni casi, purtroppo, ciò avviene al prezzo di un elevato numero di vittime.

Queste considerazioni sfociano nella capacità di individuare il numero di persone che, mediamente, un singolo individuo è in grado di contagiare durante il periodo infettivo. Poiché all'inizio dell'infezione, il numero di suscettibili è uguale a tutta la popolazione, diciamo N, perché ancora nessuno si è ancora contagiato, se potessimo fotografare la situazione in quel momento e quantificare il numero:

potremmo farci un'idea di come evolverà la situazione: l'epidemia si scatena solo se questo numero è maggiore di 1, altrimenti la diffusione della malattia si arresta sul nascere.


Pertanto, R0 rappresenta il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile, cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente. Perché R0 è così importante? R0 è funzione:


  • della probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile,
  • del numero dei contatti della persona infetta e
  • della durata dell'infettività.
  • Tabella 1 - Tasso di Contagio nelle Epidemie


Tabella 1 - Tasso di Contagio nelle Epidemie
Questo ci dice che riducendo almeno uno dei tre parametri possiamo ridurre tale valore e quindi poter controllare, o almeno ritardare, la diffusione del patogeno ad altre persone. La probabilità di trasmissione e la durata dell’infettività (senza un vaccino o un trattamento che riduca la viremia) non sono in questa fase modificabili ma, l’immediata diagnosi/identificazione della persona infetta, o di quella potenzialmente infettata, e la possibilità di ridurre i suoi contatti con altre persone permetterebbe una riduzione di R0.



Nella tabella 1 sono rappresentati i tassi di contagio delle epidemie più importanti della storia.

Alla luce di queste considerazioni si possono comprendere meglio le misure messe in atto dalle autorità sanitarie e dalle istituzioni per contenere l'infezione. L'obiettivo è cercare di ridurre il valore di R0. Se si raggiunge questo risultato, l'epidemia viene sconfitta. Per farlo, si può agire in diverse direzioni:

  1. abbassare il numero dei suscettibili attraverso lo sviluppo di un vaccino ed effettuando vaccinazioni di massa;
  2. aumentare il rapporto di soglia β /α, cosa che si può fare in due soli modi:
    1. alzando β (risultato conseguibile migliorando le terapie e innalzando così la percentuale di guarigioni);
    2. abbassando α, che rappresenta la facilità del contagio. Questo risultato è ottenibile mediante una migliore educazione igienico-sanitaria e, soprattutto, attraverso il distanziamento sociale, esattamente quello a cui mirano le misure adottate dal Governo.

C'è un'ultima considerazione da fare. L'obiettivo del modello di Kermack e McKendrick è studiare l'andamento della funzione I(t), cioè la curva del numero di individui infettati.
Figura 3 - Due possibili andamenti di un'infezione

Nella figura a fianco sono mostrati due diversi andamenti possibili per la funzione I(t).

L'andamento che presenta il picco corrisponde a un'epidemia in piena regola. Viceversa, l'altra curva, che non fa nemmeno in tempo a salire perché mostra fin dall'inizio una flessione indica un'infezione che passa inosservata perché si esaurisce subito. I modelli SIR ci permettono di distinguere tra queste diverse dinamiche.


Ma c'è una cosa che i modelli SIR non ci possono dire ed è il numero di vittime che l'infezione può provocare.


Se vogliamo prevedere il numero di decessi, occorre "smembrare" quel parametro β corrispondente alla percentuale di infettivi che ogni giorno passano nella classe R. β, infatti, è la somma di tre diversi parametri associati ai tre diversi eventi di rimozione: guarigioni, decessi e quarantene.

Lo specifico parametro legato ai decessi è noto come tasso di letalità dell'infezione: esso è quindi definito come il rapporto tra il numero dei decessi e il numero totale di individui infettivi.

Da non confondere con il tasso di mortalità che è, invece, il rapporto tra il numero di persone morte per una specifica malattia e il numero totale degli esposti, ossia tutta la popolazione.

Nel corso di un'epidemia, questo indice può variare molto, perché possono modificarsi le condizioni al contorno che rendono la malattia più o meno mortale e perché è funzione del modo in cui si decide di rilevare il numero delle persone malate. Ne deriva che il tasso di letalità è una percentuale più consistente rispetto a quella derivata dal tasso di mortalità che, però, restituisce un dato più rilevante per la valutazione dei rischi che comporta un’epidemia per tutta la popolazione.

Spieghiamo meglio la differenza con un esempio. Se in un Paese di 100 abitanti ci sono 10 contagiati e 5 morti, il tasso di letalità sarà pari al 50% ma il tasso di mortalità sarà solo del 2%.
Nella tabella a fianco,

possiamo vedere il tasso di letalità stimato per alcune malattie: per alcune è davvero altissimo (evidente il caso dell'Ebola), per altre ovviamente quasi trascurabile (si pensi all'influenza stagionale), mentre il tasso di letalità del nuovo Coronavirus è per adesso stimato attorno al 2%.


Oltre a questi parametri, dobbiamo considerarne altri due che, spesso, hanno creato e continuano a generare confusione:


  • tasso di letalità apparente (case fatality rate, CFR). Il CFR è il rapporto tra il numero di decessi diviso per il numero di casi confermati (preferibilmente mediante test di acido nucleico) di malattia;
  • tasso di letalità plausibile ( infection fatality rate, IFR). L'IFR è il rapporto tra decessi divisi per il numero di infezioni effettive con SARS-CoV-2. Di fatto, l’IFR serve a stimare il numero di possibili infettivi dato il numero di decessi.

Poiché il test dell'acido nucleico è limitato e attualmente disponibile, principalmente, per le persone con indicazioni significative e fattori di rischio per la malattia di covid-19, e perché un gran numero di infezioni con SARS-CoV-2 provocano una malattia lieve o addirittura asintomatica, l'IFR è probabile che sia significativamente inferiore al CFR.

Ora, il Comitato tecnico Scientifico ha utilizzato un IFR pari a quello della Cina, ossia 0,657%, per simulare i vari scenari su cui sono state prese le decisioni che si sono tradotte nelle misure attuate dal Governo. Il rapporto è disponibile a questo link per chi volesse leggerlo.

In realtà, l’Italia, per scenario demografico, cluster di età e caratteristiche è diversa dalla Cina ed altri studi hanno messo in evidenza come l’IFR medio dell’Italia sia di 1,382% il che porterebbe a considerare che il CTS abbia sopravvalutato le stime dei possibili contagi in funzione dei vari scenari di apertura delle varie attività. Uno studio di Carisma Holding ha messo in dubbio la correttezza del rapporto.

Ora, senza entrare nel merito di chi abbia ragione e chi torto, da tutto ciò appare evidente come possa bastare un nulla per creare confusione e come la comunicazione sia fondamentale per garantire serenità.

Si tratta di una sfida complicata e difficile e c’è ancora molto da fare. Da parte nostra non possiamo che aspettare ed eseguire ciò che ci chiedono, senza dimenticare, però, che l’informazione non è solo quella che ci viene propinata ma anche e soprattutto quella che riusciamo a filtrare grazie all’analisi e allo studio che ognuno di noi può effettuare.

Oggi, rispetto al passato, abbiamo un grande vantaggio nel capire l’andamento di un’epidemia: i dati. Per farlo, però, bisogna avere quella che il mio amico Andrea Benedetti, chiama, la “cultura del dato”. Per questo vi segnalo questo bellissimo articolo da lui scritto.

Il dato, utilizzato in modo opportuno, diventa un potente abilitatore che permette di prendere decisioni basate su informazioni certe, tralasciando il più possibile quelle che sono scelte dettate da sensazioni, senza valutare numeri e indicatori: non si costruisce un futuro solido tirando dadi e facendo scommesse.

Come per l’informazione anche per i dati serve attenzione e, soprattutto, la capacità di informarsi correttamente, indagare e studiare, come detto in precedenza.

Carlo Mauceli