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Visualizzazione post con etichetta Porto Torres. Mostra tutti i post
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sabato 16 giugno 2018

L'arte si incontra a Porto Torres: Giovanni Dettori e Enrico Mereu.

Giovanni Dettori (a destra) ed Enrico Mereu (a sinistra).
Anche quest'anno, tra poche ore, iniziano le vacanze a Porto Torres. 

Stiamo per imbarcarci sulla nave per tornare nella nostra isola quando trovo la telefonata di Giovanni Dettori, il nostro amico xilografo, e così lo richiamo:
- Domani mattina inauguriamo una mostra a Porto Torres... siamo io e un amico scultore, Enrico Mereu. 
E' nato tutto per caso e ne approfittiamo per rendere omaggio ad un ragazzo di Porto Torres che è morto da poco in un incidente, Alessandro Ortu.
-  Noi stiamo per imbarcarci, dovremmo arrivare domani mattina verso le sette. Non ti prometto niente ma cercheremo di esserci! 
- Dai, magari. Saluta Giusy. Ciao Alessandro. 
- Ciao Giovanni...

Il viaggio è tranquillo, nonostante la presenza di ragazzi spagnoli in gita, ma si sa, sono ragazzi. 
Sbarchiamo alle otto e mezza, in ritardo come accade spesso, ma ancora in tempo per la mostra. 
Un caffè e poi ci prepariamo di corsa, così alle undici in punto siamo alla mostra.
Siamo tra i primi e riusciamo a vedere le opere esposte senza troppa ressa. 
Giovanni Dettori, pittore e incisore, espone alcune stampe della sua "Via crucis", opera sulla quale ha lavorato negli ultimi quattro anni e che ha esposto con grande successo in Sardegna e in giro per il mondo. 
Noi che lo conosciamo sappiamo com'è fatto: sardo fino al midollo, con la coppoletta sempre in testa e con gli occhi che gli si illuminano quando parla d'arte, è un artista vero, sempre in cerca di ispirazione. Al suo fianco Elena, la sua compagna e musa. 
Giovanni per l'incisione predilige lo scuro legno di ciliegio.


Affianco alle opere di Giovanni questa volta possiamo ammirare le sculture di un altro artista sardo, lo scultore del legno Enrico Mereu. E' la prima volta che lo incontriamo ma si dimostra subito affabile e iniziamo a parlare. Enrico è di Nurri, un paese che si trova a pochi chilometri da Gesico, il nostro paese d'origine. Ex guardia carcere dell'Asinara, ha deciso di restare sull'isola dove abita e lavora. Predilige il legno di ginepro e dalle sue radici, accompagnandone le curve e valorizzandone i nodi, riesce a creare splendide opere d'arte. 
Nel corso dell'inaugurazione il presidente del Circolo Culturale "Il golfo", Professor Giovanni Canu, dopo aver letto un breve cenno biografico sugli artisti, ha voluto ricordare Alessandro Ortu che "ha rappresentato un modello positivo di giovane, coerente con lo spirito che anima la nostra associazione culturale, nel suo dire, nel suo fare, nel suo essere".
Anche noi ci uniamo al dolore dei genitori e di tutti coloro che lo conoscevano e apprezzavano.

L'inaugurazione della mostra degli artisti Giovanni Dettori ed Enrico Mereu è senza dubbio un interessante momento culturale nella cittadina che ci ha adottati, Porto Torres. 
Ci auguriamo che vi siano tante altre iniziative simili in futuro che arricchiscano la città e facciano da contorno allo splendido mare.

La mostra, organizzata dal Circolo Culturale “Il golfo”, può essere visitata fino al 24 giugno in Corso Vittorio Emanuele II, n. 78.


Alessandro Rugolo e Giusy Schirru

Per approfondire:

- www.loscultoredellasinara.com;
- http://tuttologi-accademia.blogspot.com/2017/05/porto-torres-lincisore-giovanni-dettori.html;

venerdì 16 marzo 2018

La Via Crucis a Porto Torres, di Giovanni Dettori

Ancora una volta mi metto al computer per presentare una mostra dell'amico incisore Giovanni Dettori. 
Ancora una volta, dico, ma con la certezza che non sarà l'ultima!


Questa volta le opere di Giovanni saranno esposte nella splendida cornice fornita dalla Basilica di San Gavino a Porto Torres.
I sardi conoscono bene la storia di questo martire, militare di famiglia romana, convertitosi e martirizzato, ma forse non tutti hanno visitato la Basilica e allora questa potrebbe essere l'occasione giusta per unire alla visita storico-religiosa il piacere di assistere alla presentazione della "Via Crucis" di Giovanni Dettori. Opera immensa, realizzata con passione e pazienza e, potrei dire, ancora in itinere.
La mostra sarà inaugurata prima di Pasqua, il 27 marzo alle ore 19.00 e terminerà il 2 aprile.



Giovanni è nato a Sassari ma ha vissuto e vive tuttora a Porto Torres dove lavora con passione.
Noi abbiamo avuto il piacere di passare ore piacevoli in compagnia di Giovanni che, disponibile come pochi, ci ha illustrato le tecniche impiegate per incidere il legno e per la stampa su carta. Abbiamo assistito al momento della nascita di una sua opera e non potremo mai dimenticarlo!
Vi invito dunque a vincere la riservatezza e ad avvicinarvi all'autore, a stringergli la mano e a parlare con lui. 
Giovanni 
Vi renderete conto del fascino che emana e, magari, potreste avere la fortuna di essere invitati ad assistere alla stampa di una sua opera, forse proprio di uno dei pannelli della Via Crucis, oppure di un paesaggio della Sardegna o di una Madonna con Bambino.
Comunque vada vi garantisco che ne varrà la pena!
Giovanni sarà li, a spiegare a tutti ciò che ha realizzato, con la sua simpatia e l'aria da Sardo verace che lo contraddistingue. 
Scambiate qualche parola con lui, sull'arte della xilografia in Sardegna o sull'amore per la pittura, lo studio, i libri... guardatelo fisso negli occhi, vi potrete leggere molto più di ciò che potrà dirvi con le parole.

Alessandro Rugolo e Giusy Schirru

Per approfondire:
http://tuttologi-accademia.blogspot.it/2017/06/la-via-crucis-di-giovanni-dettori.html


domenica 16 luglio 2017

Una lezione d'arte da Giovanni Dettori: puntasecca e acquatinta




Prima di partire per la Sardegna per le ferie non avrei mai pensato di assistere ad una lezione di puntasecca e acquatinta. Eppure così è la vita e a volte ti riserva delle piacevolissime sorprese.

Eravamo stati assieme ad una cena e in quella occasione Giovanni Dettori, incisore di Porto Torres, ci ha detto che se avessimo avuto qualche ora da dedicargli ci avrebbe mostrato come si prepara una stampa.


Noi abbiamo accettato subito e così, qualche giorno dopo, un sabato mattina, ci siamo ritrovati nel suo laboratorio artistico per assistere ad una lezione tutta per noi!
Giovanni ci ha così introdotto alla tecnica di incisione chiamata “puntasecca e acquatinta”, spiegandoci come si incide una lastra metallica da utilizzare per effettuare delle stampe artistiche.

Il nome deriva dagli strumenti impiegati per la realizzazione dell'opera, punte metalliche, resina in polvere e acido.

Il laboratorio è un mondo ricco di oggetti interessanti e sconosciuti a chi non fa parte dei pochi appassionati dell'incisione.
Ogni oggetto, seppur all'apparenza vecchio o inutile ha una sua ragion d'essere.
Alcuni stracci appesi, per esempio, di tessuto tarlatana, anche se usati e riusati servono allo scopo di pulire le lastre dall'eccesso d'inchiostro. 

 

Un vecchio pentolino in ferro smalto si scopre essere un rudimentale fornello ad alcool. Pennelli, punte per incisione, inchiostri, colori, sabbie e carta di tutti i tipi, perfino calze da donna in nylon hanno tutte la loro utilità che solo l'artista è in grado di mostrare pienamente.

Un bel torchio, del quale Giovanni ci ha raccontato la storia, fa bella mostra di se al centro del piccolo laboratorio e sarà protagonista della fase finale, la stampa, dell'opera. 

Giovanni ci mostra la lastra metallica già incisa, rappresenta la “Vergine in preghiera” di Giovan Battista Salvi detto il “Sassoferrato”, quadro esposto alla National Gallery di Londra. Il lavoro è stato realizzato già da qualche anno ma a noi interessa la preparazione della stampa, anche perché realizzare un'incisione richiede molto più tempo.


La lastra deve essere preparata, riscaldandola. Giovanni maneggia la lastra calda senza particolari accorgimenti ma solo perché l'abitudine glielo consente. Una lastra metallica calda va maneggiata attentamente per tutti gli altri. 
Poi si procede alla stesura dell'inchiostro sulla lastra ancora calda, rigorosamente a mano, in questo modo l'inchiostro aderisce meglio. Ci si sporca un po, ma così ci si rende conto dell'uniformità dell'inchiostro sulla lastra. 

Ora si può procedere alla pulitura dell'inchiostro in eccesso. La prima sgrossatura avviene con l'uso di un pezzo di tarlatana. Poi si passa al lavoro di finitura. Anche in questo caso si utilizzano le mani nude. Poggiata la lastra su un lato e tenendola ben salda con una mano, si procede a “spazzolarla” energicamente col palmo della mano. Fino a che non compare in tutto il suo splendore l'immagine in precedenza nascosta dall'inchiostro.
 
Prima di iniziare la preparazione della lastra Giovanni ci ha mostrato la carta che utilizza, facendoci notare le differenze di peso, colore, filigrana e rigidità. Scelta la carta su cui effettuare la stampa, una bellissima carta “Amalfi” nel nostro caso, l'ha immersa in una bacinella d'acqua e quindi l'ha messa ad asciugare. La carta così ammorbidita è più facilmente “impressionabile”.
 
Ora occorre rifinire la lastra. Un tocco con il bianco di Spagna lungo i bordi e la lastra è pronta.
Il torchio da stampa, proveniente da Torino, è pronto all'uso. Giovanni vi dispone la lastra metallica incisa e quindi vi posiziona sopra con attenzione la carta Amalfi ancora umida. 

Poi ricopre il tutto e si mette al “timone”.


E' questione di un attimo!
Pochi giri di ruota e il gioco è fatto.

Giovanni solleva lentamente un lembo della stampa per rivelare la sua opera d'arte.  

Un'arte, forse, un po dimenticata ma che non manca di stupire chi, come noi, ha la fortuna di assistere alla nascita di una stampa.
Ancora una volta la “Vergine in preghiera” prende forma dalla lastra incisa… poi verrà riposta, fino a quando non servirà nuovamente al suo realizzatore.

 
In un'ora di “lezione” abbiamo imparato molto, soprattutto ad apprezzare il lavoro dell'incisore Giovanni Dettori, artista, sardo, nostro amico... 





Alessandro Rugolo & Giusy Schirru

giovedì 18 maggio 2017

Porto Torres: l'incisore Giovanni Dettori


La splendida cittadina in cui passiamo le vacanze, Porto Torres, ogni volta ci riserva qualche gradita sorpresa.
Questa volta la sorpresa è arrivata con un messaggio.

"Alessandro, che ne dici se ci vediamo verso le 19.00? Vi presento una persona veramente in gamba e che sono convinta che piacerà anche a te e a Giusy."

Il messaggio di Gianna è breve e conciso, nessuna spiegazione, niente che non sia essenziale.

"Naturalmente - rispondo subito - ci vediamo stasera."

E' venerdì, l'ultimo giorno della prima tranche di ferie, abbiamo corso tutto il giorno e siamo un po stanchi ma la giornata non è ancora finita.

Alle 19.00 incontriamo Gianna e pochi minuti dopo entriamo nella casa-laboratorio dei genitori di Giovanni Dettori, pittore e incisore, maestro dell'arte e della tecnica della xilografia, incisione su legno!


Giovanni è una persona solare, sorridente, ospitale come i Sardi che gli hanno dato i natali. Nato a Sassari nel 1972, vissuto quasi sempre a Porto Torres, si sente profondamente sardo come i genitori, di Ottana e Sennori.
Ci accoglie col sorriso e con un ottimo bicchiere di vermentino di produzione artigianale.

Gianna ci presenta e racconta la sua storia. Usando la lingua sarda e le sue doti di poetessa mette in scena un brano del vangelo.


Giovanni ci introduce alla sua arte, alla incisione su legno di ciliegio e alla sua personale via Crucis, personale in quanto da lui realizzata. Opera immensa cui ha dedicato gli ultimi quattro anni della sua vita.


"Nelle incisioni ci sono tutte le persone che hanno avuto una qualche influenza nella mia vita, nel bene e nel male!", ci dice con il sorriso sulle labbra.


Giovanni è schietto e diretto. Ci racconta dei suoi successi fuori dalla Sardegna e delle sue delusioni nella sua terra.
Delle sue esperienze in Italia, dei suoi studi, dell'importanza che ha avuto per lui suo fratello, morto giovane, dei suoi genitori e della sua ragazza Elena, la sua musa.

Il tempo è tiranno e facciamo appena in tempo ad affacciarci con rispetto nel suo studio, ad ammirare le sue opere, in mezzo ai suoi attrezzi, ai suoi quadri, alle foto di famiglia, ai fogli di ciliegio... che è già ora di andar via.


Ci ripromettiamo d'incontrarci ancora, abbiamo tante cose di cui parlare, esperienze da condividere, opere da realizzare...

Alessandro Rugolo e Giusy Schirru

domenica 14 maggio 2017

L'arte della ceramica a Porto Torres si chiama Budroni

Se si percorre via Sassari fino al centro, che poi diventa via Vittorio Emanuele II, dirigendosi verso la torre Aragonese, sulla sinistra poco prima della chiesa si può notare un negozio unico per tipologia di merce esposta: le ceramiche.
L'autore di questi gioielli artistici si chiama Fabrizio Budroni.
"La mia è una passione che ha avuto inizio più di trent'anni fa. Ero ragazzo. Ho frequentato l'istituto d'arte dedicandomi alla ceramica. Poi ho iniziato a lavorare, a Muros, presso un ceramista. Il lavoro mi appassionava. Per migliorarmi ho frequentato alcuni corsi in Toscana e in Umbria e così ho iniziato questa bella esperienza."
Fabrizio parla poco, come tutti i sardi preferisce che a parlare per lui siano le sue opere, ispirate ai temi della tradizione della Sardegna quali la pavoncella, senza però disdegnare soggetti più moderni. 
Le figure della tradizione sono spesso rielaborate, rivisitate secondo gusti più moderni.

In negozio c'è Cristian, ad accogliere i clienti e mostrar loro le opere tutte diverse che escono dal laboratorio del fratello maggiore.

Bellissimo il cavallino stilizzato,



Stupendo il polpo nero!


Ogni angolo è un tripudio di oggetti di tutte le forme e di tutti i colori e non è sufficiente un solo giro per distinguerli tutti.


Grazie Fabrizio, per la tua arte.

Appena possibile torneremo a trovarti, magari per frequentare uno dei corsi che organizzi presso il tuo laboratorio.

Alessandro Rugolo e Giusy Schirru

giovedì 11 maggio 2017

Le ossa del drago

Camminavamo assieme come ogni sera lungo la pista ciclabile di Porto Torres.

Il mare era mosso e le onde si infrangevano rumorosamente sugli scogli sollevando schiuma bianca che ricadeva sulla roccia nuda.

Ci fermammo un attimo ad osservare il mare.

Di fronte a noi si stagliavano, immerse nella foschia, quasi irreali, le cime dell'isola dell'Asinara.

- Guarda! - dice mia moglie - sembrano galleggiare sul mare.
La foschia in cui l'isola era immersa faceva si che sembrasse galleggiare 
nell'aria.
- Si, hai ragione, è molto bella. Faccio una foto...

Ci fermammo un attimo, il tempo necessario per scattare qualche foto e stavamo per riprendere la camminata quando dietro di noi si fermò un vecchio.

- Bella vista, vero? - disse, rivolgendosi a noi in sardo, ma con un accento particolare.
- Si, fantastica...
- Quelle sono le ossa del drago. - aggiunse il vecchio indicando le cime dell'isola che emergevano dalla foschia. 

Era impossibile non notare la sua pelle scura e secca. Il viso era raggrinzito come una prugna secca e sulle labbra e sulla fronte i segni del tempo erano incisi in profondità. Doveva avere almeno... novant'anni, pensai!
Eppure niente nei suoi movimenti denotava stanchezza o vecchiaia.
Gli occhi erano neri e lucenti, profondi. Di bassa statura, spalle robuste, braccia ancora spesse e muscolose spuntavano da una vecchia maglietta pulita ma consumata dal tempo.
Si era fermato a guardare l'isola, affianco a noi, con quei suoi occhi antichi.
- Scusate - mormorò a bassa voce, e fece per andar via.
- Perchè dite che quelle sono le ossa del drago? - Domandò mia moglie incuriosita più dalla figura del vecchio che dalle sue parole - Cosa significa?

Il vecchio si era già girato di spalle, pronto ad allontanarsi silenziosamente come era arrivato. La domanda lo sorprese, forse, perchè si fermò di scatto e voltatosi, ci guardava fisso, prima lei, poi me, poi di nuovo lei... come se fosse indeciso su cosa dire.

- Volete sentire una storia antica?
- Si, naturalmente! - disse mia moglie, mettendosi seduta nella panchina che stava proprio affianco a noi e porgendo al vecchio la mano. Io sono Giusy...
- ed io Alessandro.

- Bene, allora ascoltate... - e cominciò a raccontare, con la sua voce profonda da vecchio...

- Ci fu un tempo in cui la terra era molto diversa da come la conosciamo oggi. Il mare non era così grande, le montagne erano giovani ed alte. Il paese, qui dietro, non era altro che un piccolo villaggio di capanne di pescatori che si stendeva laggiù - e indico il mare di fronte a noi - e tutta questa terra era una unica distesa di boschi di querce.
Era estate ed il mare era calmo. Era liscio come l'olio, e molti pescatori erano usciti al largo con le loro barche. Si pescava bene in quei giorni, splendide orate, spigole, scorfani e sardine abbondavano. Gli uomini rispettavano il mare e il mare rispettava gli uomini. Non come oggi... - e mentre raccontava gli occhi gli si illuminavano, come se parlando rivivesse quei momenti passati con rimpianto. Aveva un suo modo di parlare che aveva qualcosa di particolare, di affascinante. La pelle della fronte si aggrottava e distendeva, mentre parlava. Tutto il suo corpo si tendeva mentre si concentrava per cercare di ricordare. Sembrava quasi che lui fosse stato li presente, protagonista della sua storia.

- Dai vostri sguardi capisco che possiate non credermi, non vi chiedo di credermi, ma ora ho iniziato... abbiate pazienza ed ascoltate le farneticazioni di un vecchio pescatore.

- La vita scorreva tranquilla. Ogni giorno il sole sorgendo illuminava gli uomini intenti nelle loro occupazioni. C'era chi pescava, chi esercitava la professione di medico, chi allevava bestiame, chi panificava. I bambini andavano a scuola e, per prima cosa, imparavano come si deve rispettare la natura. I capi delle comunità, oggi diremo i sindaci, si occupavano del benessere di tutti e avevano una grande cura delle cose di tutti. Il loro compito era far si che ciò che il paese aveva ricevuto dai loro avi e predecessori venisse passato integro ai figli e ai figli dei loro figli.

Le parole avevano un suono familiare. Non conoscevamo il vecchio ma era come se fosse stato sempre di famiglia. Era come se uno dei nostri nonni fosse tornato in vita e noi, bambini, lo ascoltavamo in riverente silenzio...

- Le guerre erano rare. Era da tempo che nell'isola non si avevano più problemi con i pirati. Gli ultimi erano stati scacciati definitivamente in una grande battaglia sul mare, dove oggi c'è la spiaggia di Stintino e le nuove generazioni non avevano idea di cosa significasse combattere per la propria sopravvivenza. Forse ciò fu causa, almeno in parte, di ciò che accadde dopo.
Una mattina, all'alba, per le strade della città antica risuonò potente e incessante la sirena dell'allarme. Uomini e donne si precipitarono per strada, non più abituati a sentire il sibilo della sirena. I vecchi, nonostante gli acciacchi, furono i primi a riversarsi per strada. Prendevano con se solo un soprabito pesante e una fiasca d'acqua, incitando i giovani a fare come loro e con quel carico leggero si dirigevano verso gli ingressi che portavano sotto terra. Di questi ingressi ormai non è restato più niente a vista, infatti il mare li ha ricoperti tutti e molti sono crollati.

Il vecchio si fermò un attimo ad osservare il mare sotto di noi, quasi potesse vedere cose che noi non vedevamo. Il suo sguardo era fisso verso la chiesetta di Balai vicino.

- Immagino che gli ingressi si trovassero dove oggi si trovano le profonde fenditure nella roccia. - Disse mia moglie indicando le spaccature che mettono a rischio la tenuta della strada che costeggia Porto Torres.

- Si, laggiù c'era l'ingresso principale e da quassù avreste visto migliaia di persone che senza mai voltarsi si dirigevano a passo veloce nelle profondità della terra. Molti di loro non sapevano come comportarsi ma i più anziani gli davano l'esempio. Per i bambini era tutto più semplice. Per loro era quasi come un gioco. A scuola gli veniva insegnato che dovevano prendersi per mano e seguire gli adulti, in silenzio, e così facevano.

Poi c'erano gli altri, quelli che avevano dei compiti specifici da assolvere. C'era chi era incaricato di provvedere ai viveri per tutti; un piccolo gruppo di uomini e donne erano incaricati di ciò. Si diressero verso i camini in pietra disseminati per il paese e grazie a grossi cesti vi calarono dentro tutto il pane fresco, verdure, frutta e formaggi  che trovarono nei banconi dei negozi, quindi anche loro si misero in salvo. Questi camini in pietra oggi non esistono più, sono stati distrutti dal tempo che riduce in polvere le pietre come i ricordi.
E infine c'erano i sacerdoti. Anche loro avevano il loro bel da fare.
I più giovani si misero subito a disposizione dei più vecchi. Avevano bisogno della loro guida per compiere tutte le operazioni che avevano studiato sui testi sacri ma mai messe in pratica. Ognuno di loro aveva il suo compito, ma il più importante era il Grande Padre, colui che aveva la responsabilità di tutte le operazioni per il risveglio, colui che non poteva essere sostituito perchè ne nasceva solo uno ogni mille anni e il suo destino era segnato sin dalla nascita.

- Il grande padre? Risveglio? Ma di cosa sta parlando? - Dissi a voce bassa all'orecchio di mia moglie, un po spazientito...
- Shhh! - Mi rispose lei - lasciami ascoltare!

Era un vecchio dalle rughe profonde che solcavano la sua fronte ampia. La pelle scurita dalle tante stagioni passate lo faceva somigliare ad una mummia di quelle che si vedono nei musei. Ma la sua mente era sveglia, i suoi occhi attenti, lo spirito presente in ogni momento, la voce potente...
Era circondato dai suoi dieci allievi. Un giorno uno di loro, solo uno, avrebbe preso il suo posto. Fortunato e sfortunato allo stesso tempo, avrebbe visto gli anni scorrere a fiumi, i suoi amici sarebbero invecchiati e morti, con loro sarebbero scomparsi i suoi affetti più cari...

Le operazioni si susseguivano senza sosta, la voce cantilenante del Grande Padre risuonava per tutto il paese diffondendo quel senso di sicurezza che tanti secoli di storia assicuravano. Il rumore di antichi ingranaggi rimessi in movimento dopo tanti anni risuonava nell'aria e la polvere del tempo si sollevava dalle colline e si diffondeva nell'aria ricoprendo i tetti delle case di un sottile strato lucente.
In lontananza si intravvedevano le sagome di navi da battaglia. Alcune solcavano il mare, le più grandi, altre volavano nell'aria, leggere.
Il Grande Padre sapeva di non avere più molto tempo ma non poteva far altro che ripetere quelle operazioni che aveva imparato tanti anni prima e che aveva già messo in atto diverse volte in passato. Non avrebbe modificato una sola operazione, non avrebbe cambiato una sola parola del suo cantilenante ritmo.

Il difensore intanto si risvegliava. 
La testa affusolata era già emersa dalla polvere, le sue spalle possenti la sostenevano, centinaia di metri al di sopra dei tetti delle case più alte. La polvere continuava a cadere sui tetti dando l'idea di un paese abbandonato da tempo. 

Poi, il Grande Vecchio si fermò! Smise per una attimo di cantare, solo per un attimo, per poi riprendere con una nenia del tutto differente. Mentre prima doveva risvegliare il difensore, ora doveva guidarlo in battaglia, contro il nemico che era sempre più vicino. Il ritmo si fece più incalzante, la voce più profonda e potente che mai. Suoni minacciosi come rombi di tuono riempivano l'aria. Lampi di fuoco colpivano la terra e il mare circostante, senza però nuocere gli uomini che oramai, compiuto il loro dovere, erano riparati nei rifugi. Solo il Grande Padre, con i suoi dieci giovani aiutanti, proseguiva nel suo lavoro, mettendo a rischio la propria vita per la salvezza di tutti gli altri. 

Il vecchio continuava il suo racconto. 
La voce roca e profonda aveva un effetto quasi soporifero su di noi eppure le parole risuonavano chiare nella nostra mente. In lontananza la sagoma dell'isola dell'Asinara sembrava prendere vita e rizzarsi su zampe possenti a difesa del porto e della cittadina di Porto Torres.
Io e mia moglie sembravamo in trance...

Poi si udì un boato spaventoso. Una colonna di fuoco e polvere si sollevò proprio di fronte al paese, dove oggi c'è il porto. In lontananza un rombo di tuono, continuo, si avvicinava minaccioso, portando con se il terrore della forza della natura violenta. Il mare si riversò sul paese, lungo le strade, dentro i camini di pietra, fin nelle viscere della terra. 
Il Grande Padre e il difensore sembravano inermi di fronte all'ondata distruttiva. Il nemico era stato colpito anch'esso. Le grandi navi in balia delle onde vennero rovesciate. I vascelli volanti, sorpresi alle spalle dall'onda gigantesca non fecero in tempo a sollevarsi e furono travolti.
Fu un giorno terribile...

Mentre pronunciava queste parole, il vecchio piangeva, come se, ancora una volta, rivivesse quei terribili istanti.

Poi il difensore, sentendo il pianto del Grande Padre per la distruzione che lo circondava, prese l'iniziativa. Ritto sulle sue enormi zampe si frappose tra il paese ed il mare, trattenendo quell'enorme onda, impedendo che raggiungesse l'ingresso principale dei sotterranei.
Il difensore si distese di fronte al paese formando una enorme catena montuosa che col tempo e con il crescere delle acque si trasformò in un'isola, l'isola dell'Asinara. 
Quelle che oggi vedete, confuse nella foschia, non solo altro che le ossa di un vecchio difensore, sacrificatosi per il paese... le ossa del drago!

Alzammo gli occhi di fronte a noi. 
Le gobbe dell'isola sembravano ciò che restava di un gigantesco drago, ormai a riposo.
Ci girammo intorno ma il vecchio, così com'era arrivato, silenziosamente era sparito, lasciandoci nel cuore il senso di tristezza e solitudine di una giornata umida e ventosa...

Alessandro Rugolo e Giusy Schirru

domenica 16 ottobre 2016

Porto Torres nella "Relazione sull'isola di Sardegna" di William Henry Smyth

William Henry Smyth, , Capitain della Royal Army, nel 1828 pubblicò il libro: "Sketch of the present state of the Island of Sardinia" in cui raccoglie e orgnizza tutte le osservazioni dei suoi precedenti viaggi nel Mediterraneo, e in particolare in Sardegna.
Ne risulta un bel libro di viaggi, ricco di informazioni utili ai naviganti ma anche economiche, etnologiche e storiche.
Mi voglio concentrare in questo breve articolo sulle osservazioni riguardanti la città di Porto Torres.
"Porto Torres è un piccolo porto a due moli, difeso da una solida torre ottagonale"

I due moli di quel periodo immagino siano stati inglobati nell'attuale porto, non grandissimo, ma sicuramente più esteso di allora. La torre ottagonale invece è sempre li, anche se risente del passare del tempo.

"Può accogliere poche piccole navi, quelle grandi stanno alla fonda ad un miglio. Poichè le navi da guerra fanno raramente rotta da queste parti, il nostro arrivo fu un evento eccezionale e tutti visitarono la nave, dal capitano generale al contadino più povero. Su un lieve pendio sorgono la chiesa e il piccolo borgo di San Gavino, ai cui abitanti sono riconosciuti i diritti di cittadinanza sassarese in onore a Baingio (San Gavino). Questo santo venerato qui non è conosciuto nel martirologio romano; tuttavia la storia della sua conversione, della sua decapitazione a Balai e della sua apparizione in sogno a Calpurnio è accettata dai sassaresi come una verità indubitabile, senza alcun esame dei dati su cui è fondata."

Oggi la venerazione di San Gavino non è meno forte. Forse la chiesa non è piena come un tempo, ma il nome Gavino è ancora il preferito per i bambini maschi, o perlomeno così sembra passeggiando per le strade del paese.

"La chiesa è uno degli edifici religiosi più antichi della Sardegna, perchè è stata costruita verso il 1200 ed è stata usata come cattedrale fino alla distruzione di Torres nel 1441."

Studiando la storia di Porto Torres su altri testi antichi ho scoperto che la basilica è ben più vecchia, risalendo al 514 d.C., anno in cui il giudice Comida di Torres e Oristano fece costruire la Basilica dedicata ai martiri Gavino, Proto e Gianuario, sul Monte Angellu, a seguito di un sogno in cui gli veniva chiesto di innalzare la cattedrale. 
Della distruzione della città nel 1441 per ora non so ancora niente, sto indagando e spero a breve di scoprire qualcosa!"

"E' diversa dalle altre chiese dello stesso genere in Sardegna, perchè ha il tetto di piombo. Lungo il tetto vi sono settanta brutte torrette dello stesso metallo, che sono il simbolo tradizionale di Turris Lybisonis: nome derivato dal presunto insediamento in questo luogo, dei discendenti di Ercole Libio.
L'interno è sorretto da 28 antiche colonne ed una Porta Santa, da cui passò il santo e che è accuratamente chiusa con un muro di pietre ma per venire aperta ogni cento anni con grande pompa e cerimonia."

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
 

venerdì 13 dicembre 2013

Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte quarta)

Proseguo la traduzione dell'articolo della Revue des deux mondes, del primo febbraio 1863: "Souvenirs de la Sardaigne" del Conte di Minerva.

Per chi non avesse letto i precedenti ecco i link ai precedenti:

- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte prima);
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte seconda).
- Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte terza).

Ricordi dell'isola di Sardegna
del Conte di Minerva
(Parte quarta)
 
Al momento del nostro arrivo, dei paesani della fattoria e alcuni pescatori facevano una frugale colazione all'ombra degli olivi. Dei cani da guardia arrivarono furiosi su di noi; si affrettarono a trattenerli. Il signor Feralli non era ancora alla fattoria, ma una elegante barca che avevamo appena intravvisto in direzione sud-ovest, verso la punta del giglio, sembrava essere la sua e si calcolava che non avrebbe tardato a toccar terra. In effetti ben presto si poterono distinguere due uomini e tre donne sotto la tenda che ricopriva la parte posteriore del bastimento. Gian-Gianu me li nominò. C'era il signor Feralli, la sua donna e la loro figlia Argenia; un amico del signor Feralli, zio di Gian-Gianu, lo zio Gambini, come lui lo chiamava, con sua figlia Efisia.
Quando la Feluca arrivò a non più di cento metri dalla riva buttarono giù le vele e i due uomini scesero su un canotto che li condusse sulla spiaggia, dove noi eravamo andati loro incontro.
Il signor Feralli a prima vista non aveva niente che colpisse. Il suo viso, osservato ugualmente con attenzione, non esprimeva altro che sincera bonomia, unita a una certa sagacità dovuta alla conoscenza umana e l'abitudine agli affari.
Il suo modo di essere era quello d'un ricco proprietario di campagna della Beauce o della Brie.
"Vi chiedo scusa signore", mi disse avvicinandosi velocementee tendendomi la mano. Avvisato troppo tardi, non ho potuto venirvi incontro fino a Porto Torres. Sono stato trattenuto ad Alghero per un affare urgente con il mio amico Gambini, e lui stesso è voluto venire a scusarsi di essere stato, in qualche modo, causa della mia mancanza di cortesia-
Mi girai verso il signor Gambini per salutarlo e la sua fisionomia (me lo lasciate dire?) mi diede una impressione poco favorevole.
Si poteva sentire una sorta di fierezza selvaggia mal contenuta. I suoi capelli, completamente ricci, erano un tutt'uno con la sua barba e nonostante la sua corporatura diritta e ben composta, la sua attitudine orgogliosa, i suoi gesti bruschi e nervosi, annunciavano un vigore praticamente giovanile.
Appresi più tardi che egli aveva quarantotto anni e che possedeva tutta una grande regione del Campidano, il monte Minerva. Discendeva dai conti dei quali questa montagna porta il nome e sembrava che lui personificasse tutte le loro passioni violente. Il Conte di Minerva, che chiameremo più familiarmente Gambini era, come Gian-Gianu, restato fedele al costume nazionale: aveva solamente sostituito il "collete" in pelle di cervo con un giustacuore di drappo nero e il berretto frigio con un grande cappello di feltro. Alla cintura, una specie di cartucciera a tubi allineati, era inserito un pugnale col manico d'ebano, incrostato di madreperla, sul quale era poggiata la sua mano, fine, secca e nera. Portava in bandoliera un bel fucile a due colpi.
Si era appena chinato, con gravità cerimoniosa, per rendermi il saluto quando si raddrizzò bruscamente mettendosi a correre verso la spiaggia. Un bambino che proveniva dalla fattoria con una galletta di mais in mano era alle prese con un enorme cane di montagna, il cane dello stesso Gambini, che aveva rotto la catena, lasciata la feluca e guadagnato la riva a seguito del suo padrone. Una volta a terra, il cane s'era gettato sul bambino e gli aveva strappato la galletta, non senza dilaniare una delle sue piccole povere mani. E' in quel momento che Gambini intervenne tra i due in lotta. Correre sul vincitore, che si accucciò terrorizzato, estrarre dalla sua gola schiumante la galletta per gettarla al bambino, lanciare quindi il cane in mare, quasi accoppato dai quattro o cinque pugni ricevuti, fu questione di qualche secondo; ma il cane non aveva intenzione di tornare sul vascello sul quale era stato recluso: si mise a nuotare in direzione d'una roccia vicino alla riva.
"Riccio! Riccio! gridava Gambini con voce allettante e rauca, correndo lungo la riva. Il cane nuotava ancora. Allora Gambini si fermò, afferrò velocemente il suo fucile e dopo un ultimo appello premette il grilletto. Il cane, colpito a morte, si rigirò su se stesso e cadde in acqua che presto divenne rossa del suo sangue. In quanto a Gambini, tornò verso di noi, e con tono calmo disse: "Scusatemi, questi cani sono così indisciplinati di natura."
Strano carattere, mi dissi tra me e me. In un momento di collera avrebbe potuto uccidere un uomo come ha ucciso il suo cane?
In acqua! in acqua! gridò tosto Gianu, che faceva avanzare il canotto. Noi vi discendemmo tutti assieme e qualche minuto dopo ci trovavamo a bordo della feluca. Il signor Feralli mi presentò alle signore. La moglie dell'armatore era genovese e la figlia lo era divenuta. L'una aveva ancora, l'altra aveva avuto, quel genere di bellezza esuberante propria delle donne genovesi. Il carattere saliente della loro fisionomia era una docile benevolenza. Entrambe erano vestite come le donne di ricchi commercianti di città. Il taglio dei loro abiti era improntato ai giornali di moda francesi e la cultura locale veniva rivelata nei loro abiti solo dal "pezzoto" di mussola che costituiva la loro cuffia. La signorina Gambini era una persona di tutt'altra originalità. Alta, svelta, con un viso d'un ovale affascinante e quasi infantile, aveva pertanto l'aspetto serio e quasi severo, una piccola bocca vermiglia con un filo di broncio, la fronte unita e leggermente stretta, occhi neri, calmi e profondi. Il suo costume era completamente diverso da quello del paese di Alghero: ricordava invece quella regione montagnosa e selvaggia dell'isola di Sardegna che si chiama campidano d'Oristano, il paese in cui era nata la madre e in cui lei stessa era stata cresciuta.
 
Ora però, chi è interessato dovrà attendere alla prossima puntata,
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


giovedì 12 dicembre 2013

Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte terza)

E' passato un po di tempo da quando ho pubblicato la seconda parte, vi chiedo scusa, proseguo ora la traduzione dell'articolo della Revue des deux mondes, del primo febbraio 1863: "Souvenirs de la Sardaigne" del Conte di Minerva.

Per chi non avesse letto i precedenti ecco i link ai precedenti:
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte prima);
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte seconda).


Ricordi dell'isola di Sardegna
del Conte di Minerva
(Parte Terza)
Questa campagna è la Nurra, che conserva ancora il suo soprannome primitivo di "terra dei pastori".
Prima di arrivare a Porto Conte, dovevamo scendere in questa vasta regione e attraversarla rapidamente. I nostri cavalli si sarebbero buttati al galoppo lungo un sentiero che fungeva da limite tra due alti splendidi pascoli (1). Non si sarebbero fermati che alla capanna situata sull'ultimo pendio della montagna, dove Gian-Gianu mi propose di entrare. Accettai l'offerta, certo che la sosta non sarebbe durata più di qualche istante.
La capanna era preceduta dall'"ovile"recinto riservato alle mandrie e formato da pali intrecciati con traverse. All'udire il rumore che annunciava il nostro arrivo, un giovane uomo coperto con una larga sopravveste in pelle d'agnello apparve sulla soglia. Dietro di lui arrivarono prontamente suo fratello e un vegliardo dall'aspetto fiero. Quest'ultimo mi strinse la mano così premurosamente, allo stesso tempo degno e cordiale, che ricordava veramente le età bibliche.
Venimmo invitati a passare un'ora in un "madao" o capanna dei pastori sardi. Entrammo.
L'abitazione, all'interno, era composta da un solo ambiente in cui il focolare, contornato da un cerchio di mattoni al centro del quale si elevava l'antico treppiede, occupava il centro. In quel momento nel focolare vi era acceso un gran fuoco e tanto fumo dentro la capanna, perché un foro obliquo praticato sul tetto offriva un'uscita di molto insufficiente al passaggio del fumo denso che riempiva il madao. I preparativi per la cena cominciarono sotto i nostri occhi: due spiedi reggevano l'uno due quarti d'agnello, l'altro le interiora dell'animale (uno dei cibi più ricercati della cucina sarda) furono esposti abilmente, dal padre e da uno dei figli, alla fiamma del focolare, mentre l'altro preparava la tavola.
Carlo Stefanoni, cui noi dovemmo questa rustica ospitalità, aveva quattro figli: possedeva quattrocento pecore e centoventi buoi. Egli era proprietario del "salto" di Dentolaccio e di due tancas su San-Govino.
Mentre ci dava questi dettagli i suoi ultimi figli, seguiti da due enormi cani, entrarono nella capanna e qualche istante dopo i due arrosti d'agnello fumavano tra un piatto di legumi ed uno di uova sode, sulla tavola di quercia, sulla quale erano state poste ancora, con una corbula piena di piccoli pani bianchi di forma bizzarra, una grande terrina contenente fianco a fianco delle salsicce e dei formaggi cagliati. Due vasi d'argilla somiglianti alle anfore antiche completavano il servizio, da una si poteva attingere dell'acqua fresca, dall'altra un vino denso, ma saporito.
La storia di questa onesta famiglia mi venne raccontata mentre facevamo onore all'arrosto d'agnello e alla cordula di interiora.
Il vegliardo si scusava, diceva lui, per non averci potuto ricevere come avrebbe voluto. Egli aveva perduto, ormai erano cinque anni, la sua povera figlia Maria: da allora lui diveva ricorrere alle figlie di Brangiu, il suo vicino, per impastare il pane e fare i formaggi; inoltre si attendeva di vedere uno dei suoi figli lasciare la famiglia prossimamente per andare a sposarsi. Tutte queste confidenze furono fatte senza amarezza.
Il pasto fu breve. Dopo l'espediente di Gian-Gianu, si sarebbe giunti a Porto-Conte in quattro ore, e sarebbe stato circa mezzogiorno. Nel giro di qualche istante prendemmo congedo dai nostri ospiti. Ad un segno del padre, due dei giovani pastori corsero in avanti e all'uscita del madao trovammo i nostri cavalli completamente sellati. Altri quattro cavalli erano pronti per i quattro fratelli che vollero scortarci fino ad un torrente vicino alla capanna. Tre ore dopo aver preso congedo da loro con una stretta di mano, così nobilmente ospitali, scoprimmo il mare immenso, d'un blu nerastro, tutto scintillante sotto il sole e coperto di piccole vele latine. Erano le barche dei pescatori di coralli sardi, toscani o anche napoletani, che in quel periodo dell'anno si davano appuntamento nel golfo deserto di Porto Conte e vi installavano per alcuni mesi la loro colonia errante. E' a Porto Conte, ci si ricordi, che dovevo incontrare il signor Feralli.
Nei pressi del golfo Gian-Gianu possedeva una piccola fattoria in cui sembrava impossibile entrare in altro modo che dalle finestre e qui egli ageva dato appuntamento all'armatore genovese.
Dovemmo arrampicarci per un pendio tra i più scoscesi, scendere una sorta di scala curva scavata nella roccia, impraticabile per dei cavalli diversi da quelli sardi, e ci trovammo all'ingresso di un cortile molto ingombrato e rustico. Ci trovavamo alla fattoria di Gian-Gianu e otto ore erano trascorse da quando avevamo lasciato Porto Torres.
Anche per oggi credo sia sufficiente, la prossima parte al più presto.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
Nota 1: I pascoli di pianura si chiamano "tancas", da una parola (senza dubbio celtica) che si ritrova presso i Pirenei e nella bassa Bretagna - tanca, chiudere.

martedì 10 dicembre 2013

Turris Libissonis

Turris Libissonis... l'antico nome di una cittadina in provincia di Sassari, oggi conosciuta col nome di Porto Torres.
Città di mare, porto da sempre, nei primi anni del nuovo millennio aveva vissuto un periodo di crisi a causa della fallimentare politica industriale. Una serie di amministratori incompetenti a tutti i livelli aveva fatto sì che la cittadina si spopolasse.
Nel 2020 contava 15.051 abitanti, nel 2030 era scesa a 12.893.

Poi c'era stata la rinascita, Porto Torres si era ritrovata ad essere una cittadina turistica.
Col tempo aveva sostituito la più nota Alghero ed ora era diventata la meta preferita dei ricchi turisti "mordi e fuggi" di tutto il mondo.
Ma andiamo con ordine.

Tutto ebbe inizio per caso o, forse, per un bicchiere di troppo di quell'ottimo vino prodotto nella vicina cantina di Sella e Mosca, sulla strada per Alghero.
Ricordo ancora quella sera di cinquant'anni fa, eravamo cinque amici, stanchi e un po annoiati. Discutevamo della cena, maialetto arrosto e gamberoni accompagnati da antipasti, dolci e vini tipici del luogo. Serata indimenticabile!
Un goccio di filu ferru barricata, acquavite invecchiata in botte di rovere, aveva aggiunto un pizzico di allegria che non guasta mai, un po' di vitalità ad una serata che rischiava di spegnersi prima del tempo.
E così, tra una parola e l'altra era arrivata l'idea vincente.
In verità era stato Gavino, Gavì per gli amici, a convincerci, con la sua parlantina da istrione, appollaiato sulla sua sedia e con una conchiglia rovesciata a mo' di posacenere al fianco, era un tipo caratteristico, geniale, nel suo piccolo!
Gavì era un "ricco borghese", come amava definirsi lui. Aveva ereditato una piccola azienda agricola e passava le sue ore libere, dopo il tramonto e fino a tarda notte, a piantare alberi sul suo terreno, e noi lo aiutavamo senza capir bene il perché!
Preferiva olivi e querce, ma non si faceva problemi se gli capitava sotto mano qualche albero di frutta, qualche pino o un ontano del giappone (Alnus maximowiczii come teneva a precisare) finito chissà come in Sardegna!
Andava avanti così per mesi, ogni anno degli ultimi dieci anni, ed era già arrivato ad una miriade ma non accennava a smettere. Il terreno allora costava poco, anche a causa della crisi ormai cronica, per cui ogni anno alcuni ettari di terreno incolto si aggiungevano alle sue già cospicue proprietà.
Voleva ricreare un bosco... "un bosco incantato tra le montagne della Nurra"... diceva sempre lui! Come quello che ricopriva l'isola prima dell'arrivo dei Cartaginesi, popolo infido e crudele, che nel V° secolo a.C. aveva distrutto tutte le piante per togliere ai Sardi il sostentamento e la voglia di combatterli. O come era prima che lo sfruttamento dei piemontesi, nel 1800, per farne carbone, trasformasse nuovamente l'isola in una tavola brulla e polverosa.

Un bosco in cui muoversi

"a bordo della sua carrozza,
un metro al di sopra del fango dell'Umanità,
diretto alla sua baita solitaria",

amava canticchiare con voce sommessa, mentre lavorava al suo progetto. Un bosco in cui vivere lontano dal mondo, un bosco in cui passare le ore del suo ultimo tramonto.
Chi poteva dargli torto? Il suo era un progetto in cui credere e noi lo ascoltavamo, incantati, e ogni sera lo aiutavamo ad aggiungere dieci, cento nuovi alberi al suo sogno. Questo finché il lavoro non fu terminato!

Una sera Gavì ci aspettava intorno alla tavola imbandita della sua casa di campagna, in cima alla collina più alta della zona. Ci portò sulla terrazza e ci passò il binocolo che solitamente portava appeso attorno al collo.

- "Guardatevi attorno", disse con soddisfazione.

Il bosco si estendeva a perdita d'occhio, a nord fino il confini della città di Porto Torres, fino al mare azzurro chiaro che bagnava le coste della Nurra, fino ad Alghero ad est. Era un susseguirsi di chiome colorate di mille differenti tonalità di verde, giallo, castano. Alberi di tutte le forme e di tutte le dimensioni si stagliavano contro il cielo e ospitavano ormai una ricca fauna, non più costretta a condividere i pochi cespugli di lentisco.
Il lavoro di una vita era finito!
Dove un tempo c'era solo terra e roccia rossa ora c'era un bosco, con tanto di animali, laghi e fiumi, pesci e farfalle.
Un bosco, in un mondo di acciaio e cemento e reti di computer e sommergibili e armi nucleari e viaggi su Marte, ormai colonia della Terra. Dove le città avevano sommerso tutto, cancellato ogni forma di vita diversa da quella umana, dove gli oceani cedevano spazio alle nuove isole, enormi chiatte di spazzatura, poi riutilizzate per costruirci i nuovi quartieri popolari...

Turris Libissonis, Porto Torres per i più, era ormai l'ultimo angolo di natura.

Creato da un uomo, un piccolo uomo di nome Gavino, per chi come me l'aveva conosciuto. Gavino, come il santo protettore della Città.
Un grande benefattore per tutti coloro che ogni anno potevano godere di quel nuovo angolo di paradiso!
 

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 29 settembre 2013

La fondazione della città di Porto Torres secondo Francisco de Vico

Nel 1639 Francisco de Vico pubblica in Barcellona la Historia general de la isla, y reyno de Sardeña, opera immensa in sette volumi in cui si parla della Sardegna dall'antichità al 1600.
Curiosando tra le pagine ho trovato una breve cronologia delle città antiche e tra queste, la più antica, è Porto Torres, ma vediamo cosa dice l'autore (che scriveva in spagnolo e io tradurrò al volo).

"La prima di queste città (secondo l'ordine temporale) fu la città di Torres, che Tolomeo e la maggior parte dei geografi in lingua latina chiamarono Turris Libisonis. Prima colonia dei romani, famosa per grandezza, ricchezza, località e fiume, che la divideva a metà, fondata da Ercole Libico (Melqart) nell'anno 2216 dalla creazione del mondo (ovvero 1788 a.C. secondo il nostro calendario!), ove nei giorni nostri si trova il grandioso tempio di San Gavino..."

Se queste informazioni sono corrette, Porto Torres dunque è una città che è sorta circa mille anni prima di Roma!
Ci pensate?

Eppure oggigiorno è quasi scomparsa, seppellita dai problemi atavici della Sardegna, principalmente la mancanza di lavoro.

Svegliati Porto Torres, fai vedere ciò che vali, ridestati dal torpore e dimostra ciò che sei, una città con quasi quattromila anni di storia!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO   

venerdì 4 maggio 2012

Porto Torres: la spiaggia di Balai



Siamo sempre a Porto Torres, ecco la spiaggia di Balai, la più bella della zona. Piccola, chiusa tra le pareti rocciose, splendida nei suoi colori... 



Il clima, sempre ottimo, è in questo caso agevolato dalla conformazione delle rocce. La piccola baia è protetta dai venti e l'acqua è sempre tiepida.








Sopra la spiaggia un bel giardino in cui le piante tipiche della costa fanno da corona al mare azzurro.








A pochi metri la chiesetta di Balai vicino, che nel mese di maggio ospita le statue dei Santi Proto, Gianuario e Gavino.







Una ultima curiosità: dal libro "Ortografia sarda nazionale ossía gramatica della lingua logudorese..." di Giovanni Spano (1840) ecco il significato del termine Balai.


"Balài o Balà monte o roccia nel lido del mare di un altezza considerevole restandogli sotto il mare molto profondo. È distante da Torres in circa tre miglia verso settentrione. Qui fu fatta dal Giudice Comida la prima invenzione de Corpi de SS Martiri. Balà o Balài è una voce orientale, elevatio, altitudo [..] Nel detto luogo fu decapitato S. Gavino ed i fedeli chiamano un piccol Romitorio Sanctu Bainzu iscabitadu".

E' interessante notare anche che la parola "balais" in francese (e la corsica è molto vicina!) significa "scopa". Tutta la zona è ricca di piccoli arbusti che senza dubbio potevano essere usati per fare le scope...