Il fiume se ne andava giù zitto, come un placido signore a passeggio tra i fusti. Nel bosco era silenzio e soltanto se mi tendevo con l’orecchio sentivo un vago lontano sommesso rumoreggiare.
Parlottava un po’ del tempo bigio di questa stagione di mezzo ma senza mai alzare la voce. Ed io lo seguivo lungo il sentiero, immaginando che seguisse gli argini che non potevo vedere. Ma poi scompariva qualsiasi sentire e allora capivo che l’ansa del fiume lo aveva allontanato da me.
Caparbio riprendevo la china di passi già compiuti, per ritrovarlo come fa il figlio che insegue per sempre l’ombra del padre. Inesistente il cielo finiva per specchiare l’oscuro presagio che fosse ormai lontano. Così mi sedevo nascosto tra le spighe di gramigna a sentire il ronzio di grossi calabroni. Orribili, neri e rossi, volavano così bassi. Mi terrorizzavano col loro volo radente, quasi a schiantarsi contro la mia faccia. Ma non accadeva mai ed io accettavo il mistero dell’inutile paura e dell’infallibile natura. Restavo qualche attimo ancora lì in ascolto assorto per sentirli scomparire nell’aria frizzante di novembre quando la neve d’inverno aspetta sulle cime più alte e vaghe e sulla terra ce la rammenta la linfa ghiacciata e le foglie arse. Poi il cuore si riempiva ancora di paura all’abbaiare di cani forse randagi, vecchi pastori senza gregge a caccia di una mano amica e pietosa. Ma io avevo solo bisogno di avere paura. Un infantile desiderio di temere le cose oscure tutte pronte lì fuori quando sarei stato grande, quando avrei avuto coraggio. Un giorno il fiume se ne è andato ed io ho smesso di inseguirlo, nei meandri argentei del sottobosco appenninico. La mia maglietta bianca unta di olio è diventata camicia. Una bella camicia azzurra con su la cravatta.
Così capita che suono al campanello di una porta di una casa che non conosco e mi rammento quella porta antica di legno col patocco di bronzo a forma di leone che usurata dal tempo, non si chiude più a dovere. Mi appare il volto di una vecchia signora mai vista prima che mi accoglie caldamente. Mi ricorda le signore sedute a filare sui gradini di fronte casa di mio nonno, i pomeriggi d’estate. Vociavano piano, ogni tanto si alzava una risata più forte, noi le guardavamo stupiti e loro continuavano il loro lento lavorare. Vestite rigorosamente di nero, i capelli di lanugine grigia, calzavano grossi scarponi col fango dell’orto. Poi qualcuna di alzava e tornava dentro a preparare la cena, qualcun’altra chiudeva le galline nell’aia prima che imbrunisse chiamandole a se con un buffo verso “pi-pa” diceva e loro scemavano pigolando e scuotendo le penne.
“Buongiorno signora come sta?” le dico distratto. Non vedo quasi niente nella penombra del tinello.
Così, che vuole, con gli acciacchi della vecchiaia” e ridacchia. Lo stesso strano ridere da vecchie.
“Venga dottore venga”. E mi accompagna in camera da letto dove il marito sta su una poltrona a
farsi guardare da una tv accesa. Il chiarore dello schermo diffonde una luce fredda che taglia lo sgradevole odore dell’aria. Che sa di piscio e medicazioni. Quel vecchio non saluta me, tende la mano stanca e secca alla mia figura alta e giovane. Al mio probabile aiuto professionale. Alla mia supposta sapienza. E così lo visiterò. E presto me ne uscirò da quella vecchiaia che mi afferra la gola, la porta si chiuderà sul volto sereno della donna e al suo riconoscente saluto. “Non vuole un caffè, dottore?”.
Quando ero bambino il mio pediatra era alto e magro. Lo sentivo parlare piano fuori la porta con mia madre. Non so com’è, ma quando stavo male non c’era mai mio padre a parlare con lui. Me lo ricordo in un bel vestito grigio chiaro, ne ho uno anch’io così, la faccia lontana e triste. I dottori sono davvero strani, degli aristocratici che fanno un lavoro così proletario. Intendo stare tra la gente, anche la più umile, la più ignorante. Figli di luminari, di banchieri o avvocati, me li immaginavo, hanno letto migliaia di libri, hanno studiato una vita intera i misteri di questi corpi malati e poi passano dal salone delle feste in casa loro ai Parioli alla cameretta dell’alloggio al sesto piano a parlare con gente che non li capirà mai, con la loro espressione composta tra le lacrime e le bestemmie di un popolo così lontano e diverso. Una cosa senza senso, mi sembrava. O anche meravigliosamente democratica. Mia madre piagnucolava qualche parola che non capivo e la sua gentilezza era ridicola. E lui neanche stava a sentirla, in apparenza. Ma capiva tutto o fingeva. Mi guardava intenso come per scrutarmi dentro. Ecco, mi sembrava un prete. Ma non come quei preti di parrocchia , salesiani, impegnati tra radio e missioni, col maglione a collo alto, con le maniche sempre rimboccate, capaci di tirare anche qualche calcio al pallone in oratorio. No, uno di quei preti da film, mesto ma soave, cogli occhi chiari, colto che dice alla signora ricca e grassa, dimagrisca che la porta del regno dei cieli è stretta! “ Su, non stai male mica ..” mi sussurrava. La stessa cosa mi succedeva dal barbiere. Io odiavo andarci da bambino, preferivo che mio padre mi tagliasse i capelli. Anche se non lo faceva benissimo, o all’ultimo grido. Ma non sopportavo quell’ambiente monosessuale che c’è nelle barberie da uomo. Adesso lo cerco magari, per sfuggire a questo mondo inflazionato dalla figura femminile e da parrucchieri per tutti. Allora ero più intransigente. Chi non è uomo non può capirlo. Gli acconciatori per signora sono finte checche che urlacciano o ci provano falsamente colle clienti, mentre la shampista e la manicure spettegolano di gossip. Queste cose le so perché delle volte accompagnavo mia madre a farsi la permanente, ma questo lo racconterò un’altra volta. I barbieri, no! Sussurrano l’ultima notizia al tuo orecchio, cose da uomini, credono, e ti chiedono, rischiando l’incipiente accusa di omosessualità, se ci vuoi la lacca o il gel. Ho sempre odiato la lacca, e mal sopporto la brillantina. La barba poi non la fanno quasi più, allora perché si fanno ancora chiamare barbieri. Qualche secolo fa il barbiere cavava pure i denti ed era una specie di chirurgo, il medico filosofeggiava al limite della magia. Poi siamo diventati nelle nostre università medico-chirurghi e il barbiere è rimasto lì nella sua bottega annunciata dalla spirale multicolore fuori la porta.
“Qui c’è la bistecchina.” Mi palpava l’addome il dottore e intanto giocava con me. Ed io non avevo paura. “uhm, qui un bel po’ di pastasciutta!”. Era meraviglioso. Ora che mi ricordo mi rammenta, come spesso accade, un altro ricordo. Come una catena.
Il mio primo tirocinio. Con il professore di endocrinologia, mi sembra. Un tipo che non sapevi collocarlo per età, coi sui baffetti e l’aria furba, magro forse bello.Per la sua posizione doveva avere almeno quarantacinque anni, ma ne dimostrava dieci di meno. Gli piaceva giocare con noi studenti, mischiarsi al nostro cicaleggio. Ed io invece stavo lì serio, quasi impietrito. Il mio primo ambulatorio. Con pazienti veri. Ero una specie di statua, dietro la scrivania, in piedi. Lui stava a suo agio nella poltroncina in similpelle. Io nel mio primo sgualcito camice, troppo grande, lui perfetto nel suo camice inamidato, colle penne al taschino e un fonendoscopio che sporgeva dalla tasca. Lui parlava coi pazienti, li ascoltava, li visitava, scriveva sul suo ricettario. Ed io vedevo passare tante storie diverse in transito nel mio cervello per pochi minuti. Cartelle cliniche ingiallite e facce senza nome, malanni d’ogni sorta che mi riconducevano ad una pagina di libro letta qualche mese prima ed ora erano in un vortice sulla pelle di quelle persone. Non più uno schema a colori disegnato dal Netter. Uomini e donne che stavano male, davvero. Sudavo senza darlo a vedere, ero stanco come se avessi zappato la terra. Un cerchio mi cingeva la testa fino a far scoppiare la stanza e farsi nebbia. Praticamente stavo lì ma non capivo che un quarto di ciò che tutti dicevano. Sapevo meno degli stessi pazienti! Mi stavo deprimendo. E lui scherzava colla ragazza barbuta in mutande, per sdrammatizzare. Spiegava sorridendo ad un vecchio che ad una certa età il “pinguino” non fungeva più e un po’ era colpa del diabete. Era quasi divertito ma poi si faceva serio e compilava diligente le sue carte. Tornava sornione a sorridere tendendo la mano e la prescrizione al paziente che contento infilava la porta. Avanti un altro. Era per me perfetto, certa gente sembra nata per fare il dottore. Ed io, secchione, pieno di nozioni nella testa, un fumo nero di cellule, muscoli e tumori che opprimeva la mia intelligenza, mi sembravo inadeguato. In realtà uno impara a fare finta di essere dottore, col tempo.
Non riuscivo a capire come facesse il pediatra a sapere con esattezza il mio menù e fare il giochettino dei cibi nella pancia. Ma ci riusciva, ci prendeva sempre e il suo fascino cresceva. Sospetto che mia madre fosse complice, anche involontaria. Ma non li ho mai scoperti. Le sue mani erano giganti, ma non lasciavano impronte.
Da qualche anno non veniva più a trovarmi perché ero cresciuto. Poi mi dissero che era morto. Un
malanno di cuore. E non era fumatore, aggiunse mia madre guardando di sbieco mio padre.
Io non ci ho mai creduto veramente.
Sono tornato in vacanza sull’appennino d’Abruzzo, ho rivisto il fiume scorrere nel bosco, il lago incantato che sommerge le case e gli alberi. Ma non è stata più la stessa cosa di prima. Ovviamente, non era più lo stesso incanto di cose nuove e antiche assieme. I calabroni continuano insistentemente a ronzare e mi fanno comunque schifo. Li caccio con un bastone, non sono più impaurito complice di quell’arcano. Ero un piccolo idiota che giocava col mondo. Un mondo reale trasformato come dietro un vetro smerigliato. Ora sono un idiota più grande e per giunta non gioco neanche più volentieri. E’ questa la differenza. Il nostro problema è la serietà. Migliaia di libri letti, i cadaveri aperti all’obitorio, il morto che grida il dolore del suo corpo trafitto ancora vivo, migliaia di giorni passati ad ascoltare, a palpare, a scrutare radiografie. I ricordi trillano come la suoneria del telefono. Sto zitto e aspetto di capire. Poi delle volte rispondo e c’è qualcuno dall’altra parte.
“Lei si chiama?” La sclerosi multipla. A placche. Il male del secolo. Risonanze magnetiche e qualità della vita. Immagino. Una sedia a rotelle tecnologica. Un bimbo cerebroleso. Un piccolo cadavere in una grande tomba. Il mondo di sua madre. Migliaia di tomi per scoprire che non si sa perché viene. “Che strano, non trovo la sua scheda precedente, ma è sicuro di essere già venuto…” Ventuno secoli dopo Cristo e gli stessi dubbi. Le stesse domande. La gente in fila e la mia barba di sapiente. Squilla il telefono sulla mia scrivania. Che non è neanche la mia.
Cantavo “el pueblo unido jemas serà vencido”. Fine anni settanta. Il ‘Che’ era già morto. Era già mito. Tanta gente per la strada, per la pace, per la guerra. Poi le brigate rosse ci hanno tolto il gusto di essere incazzati sinceramente. Per paura di pensare male. Di essere collaterali. La gente però è sempre tanta e sta male. La stempiatura bianca mi rammenta mio padre, mentre lo osservo. Lui non può saperlo. Il brutto di quest’anima che abbiamo è che tu senti di continuo, pensi e ricordi, ma non sai mai se gli altri riusciranno a capirti. A sentire. A raggiungerti dove stai viaggiando. Una solitudine immensa mi circonda, ed ho una tremenda fila di fuori, mi dice l’infermiera.
La stessa paura dopo ogni vittoria. Mi ricordo gli esami, dopo tanti anni, ad uno ad uno ma sembrano tutti uguali. Una grande fatica a mettere tutto dentro la testa e a fuoco il giorno del verdetto. Poi un trenta oltre l’ostacolo. Sempre il primo della classe, sempre con lode. Ma per chi?
Lo fai per la tua gloria, il tuo curriculum, financo per i tuoi cari, sono soddisfazioni, direbbe mio padre. Mai per i pazienti. Paganti e non paganti. Gli occhi sono chiari e profondi, come se uno avesse pianto. Come ad una cerimonia. Gli tocco il collo e scorgo la cicatrice chirurgica. Come un rutto mi sale il ricordo. Ricomincio a pensare e a lavorare. Sotto le mani la pelle ruvida, la sua paura del tumore, mi sembra di sentire ancora addosso a me la paura del giorno prima dell’esame.
Avverto il contatto umido colle mucose e ritiro la mano dal labbro, come dall’ultimo foglio dell’ultimo libro. Il timore di sbagliare risposta o di errare diagnosi. Poi la vittoria. Inutile e disperdente. Quando tutti ti danno pacche sulle spalle, dicono lo sapevo, studia come un mulo. Quando nessuno può capire interamente , tanto che delle volte speri di perdere, di essere spazzato via, di non ricordarti l’ultima pagina dell’ultimo libro letto. Così quante facce soddisfatte, la stretta di mano, l’avevo detto che era così. Quante volte ti sei detto, ma allora sei bravo. E continui.
Una inutile lunga lista di vittorie. Festeggiate colla bottiglia di vino, con l’olio buono, financo col pollo del contadino. La gente è riconoscente, a modo suo. Io resto perplesso perché continuo a non vincere niente. A non sapere quasi niente.
C’erano solo sette posti alla specializzazione, due per assistente all’ospedale civile, uno solo da borsista all’università, quasi venti da tenente medico. Un ammasso di cadaveri di carriere nella spazzatura. Si fanno le scarpe per niente. Solo per la faccia. Sono nati tutti coll’osso in bocca ma io l’ho dovuto mollare. Non mi dispiace nemmeno, adesso. Nessuno ha sofferto, alla fine.
Che strano paese il nostro, dove ti ammazzi di studio, tuo padre ci butta il sangue per finanziarti fino alla fine, tutti ti ammirano perché ti sei laureato e specializzato. Poi rimani lì in un angolo perché il posto è del figlio di quello ch’è già professore. Tuo padre è impiegato, contessa.
Ho staccato il telefono perché voglio lavorare in pace. Ma i pensieri non hanno bisogno del filo per correre e Marconi e Bell e tutti gli altri in fondo non hanno inventato niente che non ci fosse già. Vorrei saper giudicare tutto questo ma ho poco immaginazione. Al posto delle stelle ho visto buchi neri nel cielo dei carabi dello screensaver, al posto dello sfigmomanometro un grazioso apparecchio che digita i valori pressori, al posto dei telefoni la rete ma si paga ugualmente, invece che aerei sfrecceranno shuttle, faranno gallerie in plexiglass al posto delle autostrade.
Con un tubo di fibre ottiche scruto la gola del paziente. Non so se siamo davvero credibili come eroi o siamo solo imbecilli sognatori. Con o senza campi di battaglia dove raccogliere soldati. Mi ha sempre sorpreso vincere, preferisco stare a parlare o discutere, perché dura di più vivere.
Ho letto davvero migliaia di libri ma non sono cambiato. Certe volte mi metto la maglietta bianca e guardo il profilo delle montagne. Mi indigno ancora, nonostante tutto quando la fornace inghiotte gli operai e li fonde insieme in un’unica morte.
E adesso mi ricordo anche il nome di questo poveraccio, che tanto mi ricorda mio padre, che gli hanno tolto una corda vocale col laser e si sono sbagliati.
Parlottava un po’ del tempo bigio di questa stagione di mezzo ma senza mai alzare la voce. Ed io lo seguivo lungo il sentiero, immaginando che seguisse gli argini che non potevo vedere. Ma poi scompariva qualsiasi sentire e allora capivo che l’ansa del fiume lo aveva allontanato da me.
Caparbio riprendevo la china di passi già compiuti, per ritrovarlo come fa il figlio che insegue per sempre l’ombra del padre. Inesistente il cielo finiva per specchiare l’oscuro presagio che fosse ormai lontano. Così mi sedevo nascosto tra le spighe di gramigna a sentire il ronzio di grossi calabroni. Orribili, neri e rossi, volavano così bassi. Mi terrorizzavano col loro volo radente, quasi a schiantarsi contro la mia faccia. Ma non accadeva mai ed io accettavo il mistero dell’inutile paura e dell’infallibile natura. Restavo qualche attimo ancora lì in ascolto assorto per sentirli scomparire nell’aria frizzante di novembre quando la neve d’inverno aspetta sulle cime più alte e vaghe e sulla terra ce la rammenta la linfa ghiacciata e le foglie arse. Poi il cuore si riempiva ancora di paura all’abbaiare di cani forse randagi, vecchi pastori senza gregge a caccia di una mano amica e pietosa. Ma io avevo solo bisogno di avere paura. Un infantile desiderio di temere le cose oscure tutte pronte lì fuori quando sarei stato grande, quando avrei avuto coraggio. Un giorno il fiume se ne è andato ed io ho smesso di inseguirlo, nei meandri argentei del sottobosco appenninico. La mia maglietta bianca unta di olio è diventata camicia. Una bella camicia azzurra con su la cravatta.
Così capita che suono al campanello di una porta di una casa che non conosco e mi rammento quella porta antica di legno col patocco di bronzo a forma di leone che usurata dal tempo, non si chiude più a dovere. Mi appare il volto di una vecchia signora mai vista prima che mi accoglie caldamente. Mi ricorda le signore sedute a filare sui gradini di fronte casa di mio nonno, i pomeriggi d’estate. Vociavano piano, ogni tanto si alzava una risata più forte, noi le guardavamo stupiti e loro continuavano il loro lento lavorare. Vestite rigorosamente di nero, i capelli di lanugine grigia, calzavano grossi scarponi col fango dell’orto. Poi qualcuna di alzava e tornava dentro a preparare la cena, qualcun’altra chiudeva le galline nell’aia prima che imbrunisse chiamandole a se con un buffo verso “pi-pa” diceva e loro scemavano pigolando e scuotendo le penne.
“Buongiorno signora come sta?” le dico distratto. Non vedo quasi niente nella penombra del tinello.
Così, che vuole, con gli acciacchi della vecchiaia” e ridacchia. Lo stesso strano ridere da vecchie.
“Venga dottore venga”. E mi accompagna in camera da letto dove il marito sta su una poltrona a
farsi guardare da una tv accesa. Il chiarore dello schermo diffonde una luce fredda che taglia lo sgradevole odore dell’aria. Che sa di piscio e medicazioni. Quel vecchio non saluta me, tende la mano stanca e secca alla mia figura alta e giovane. Al mio probabile aiuto professionale. Alla mia supposta sapienza. E così lo visiterò. E presto me ne uscirò da quella vecchiaia che mi afferra la gola, la porta si chiuderà sul volto sereno della donna e al suo riconoscente saluto. “Non vuole un caffè, dottore?”.
Quando ero bambino il mio pediatra era alto e magro. Lo sentivo parlare piano fuori la porta con mia madre. Non so com’è, ma quando stavo male non c’era mai mio padre a parlare con lui. Me lo ricordo in un bel vestito grigio chiaro, ne ho uno anch’io così, la faccia lontana e triste. I dottori sono davvero strani, degli aristocratici che fanno un lavoro così proletario. Intendo stare tra la gente, anche la più umile, la più ignorante. Figli di luminari, di banchieri o avvocati, me li immaginavo, hanno letto migliaia di libri, hanno studiato una vita intera i misteri di questi corpi malati e poi passano dal salone delle feste in casa loro ai Parioli alla cameretta dell’alloggio al sesto piano a parlare con gente che non li capirà mai, con la loro espressione composta tra le lacrime e le bestemmie di un popolo così lontano e diverso. Una cosa senza senso, mi sembrava. O anche meravigliosamente democratica. Mia madre piagnucolava qualche parola che non capivo e la sua gentilezza era ridicola. E lui neanche stava a sentirla, in apparenza. Ma capiva tutto o fingeva. Mi guardava intenso come per scrutarmi dentro. Ecco, mi sembrava un prete. Ma non come quei preti di parrocchia , salesiani, impegnati tra radio e missioni, col maglione a collo alto, con le maniche sempre rimboccate, capaci di tirare anche qualche calcio al pallone in oratorio. No, uno di quei preti da film, mesto ma soave, cogli occhi chiari, colto che dice alla signora ricca e grassa, dimagrisca che la porta del regno dei cieli è stretta! “ Su, non stai male mica ..” mi sussurrava. La stessa cosa mi succedeva dal barbiere. Io odiavo andarci da bambino, preferivo che mio padre mi tagliasse i capelli. Anche se non lo faceva benissimo, o all’ultimo grido. Ma non sopportavo quell’ambiente monosessuale che c’è nelle barberie da uomo. Adesso lo cerco magari, per sfuggire a questo mondo inflazionato dalla figura femminile e da parrucchieri per tutti. Allora ero più intransigente. Chi non è uomo non può capirlo. Gli acconciatori per signora sono finte checche che urlacciano o ci provano falsamente colle clienti, mentre la shampista e la manicure spettegolano di gossip. Queste cose le so perché delle volte accompagnavo mia madre a farsi la permanente, ma questo lo racconterò un’altra volta. I barbieri, no! Sussurrano l’ultima notizia al tuo orecchio, cose da uomini, credono, e ti chiedono, rischiando l’incipiente accusa di omosessualità, se ci vuoi la lacca o il gel. Ho sempre odiato la lacca, e mal sopporto la brillantina. La barba poi non la fanno quasi più, allora perché si fanno ancora chiamare barbieri. Qualche secolo fa il barbiere cavava pure i denti ed era una specie di chirurgo, il medico filosofeggiava al limite della magia. Poi siamo diventati nelle nostre università medico-chirurghi e il barbiere è rimasto lì nella sua bottega annunciata dalla spirale multicolore fuori la porta.
“Qui c’è la bistecchina.” Mi palpava l’addome il dottore e intanto giocava con me. Ed io non avevo paura. “uhm, qui un bel po’ di pastasciutta!”. Era meraviglioso. Ora che mi ricordo mi rammenta, come spesso accade, un altro ricordo. Come una catena.
Il mio primo tirocinio. Con il professore di endocrinologia, mi sembra. Un tipo che non sapevi collocarlo per età, coi sui baffetti e l’aria furba, magro forse bello.Per la sua posizione doveva avere almeno quarantacinque anni, ma ne dimostrava dieci di meno. Gli piaceva giocare con noi studenti, mischiarsi al nostro cicaleggio. Ed io invece stavo lì serio, quasi impietrito. Il mio primo ambulatorio. Con pazienti veri. Ero una specie di statua, dietro la scrivania, in piedi. Lui stava a suo agio nella poltroncina in similpelle. Io nel mio primo sgualcito camice, troppo grande, lui perfetto nel suo camice inamidato, colle penne al taschino e un fonendoscopio che sporgeva dalla tasca. Lui parlava coi pazienti, li ascoltava, li visitava, scriveva sul suo ricettario. Ed io vedevo passare tante storie diverse in transito nel mio cervello per pochi minuti. Cartelle cliniche ingiallite e facce senza nome, malanni d’ogni sorta che mi riconducevano ad una pagina di libro letta qualche mese prima ed ora erano in un vortice sulla pelle di quelle persone. Non più uno schema a colori disegnato dal Netter. Uomini e donne che stavano male, davvero. Sudavo senza darlo a vedere, ero stanco come se avessi zappato la terra. Un cerchio mi cingeva la testa fino a far scoppiare la stanza e farsi nebbia. Praticamente stavo lì ma non capivo che un quarto di ciò che tutti dicevano. Sapevo meno degli stessi pazienti! Mi stavo deprimendo. E lui scherzava colla ragazza barbuta in mutande, per sdrammatizzare. Spiegava sorridendo ad un vecchio che ad una certa età il “pinguino” non fungeva più e un po’ era colpa del diabete. Era quasi divertito ma poi si faceva serio e compilava diligente le sue carte. Tornava sornione a sorridere tendendo la mano e la prescrizione al paziente che contento infilava la porta. Avanti un altro. Era per me perfetto, certa gente sembra nata per fare il dottore. Ed io, secchione, pieno di nozioni nella testa, un fumo nero di cellule, muscoli e tumori che opprimeva la mia intelligenza, mi sembravo inadeguato. In realtà uno impara a fare finta di essere dottore, col tempo.
Non riuscivo a capire come facesse il pediatra a sapere con esattezza il mio menù e fare il giochettino dei cibi nella pancia. Ma ci riusciva, ci prendeva sempre e il suo fascino cresceva. Sospetto che mia madre fosse complice, anche involontaria. Ma non li ho mai scoperti. Le sue mani erano giganti, ma non lasciavano impronte.
Da qualche anno non veniva più a trovarmi perché ero cresciuto. Poi mi dissero che era morto. Un
malanno di cuore. E non era fumatore, aggiunse mia madre guardando di sbieco mio padre.
Io non ci ho mai creduto veramente.
Sono tornato in vacanza sull’appennino d’Abruzzo, ho rivisto il fiume scorrere nel bosco, il lago incantato che sommerge le case e gli alberi. Ma non è stata più la stessa cosa di prima. Ovviamente, non era più lo stesso incanto di cose nuove e antiche assieme. I calabroni continuano insistentemente a ronzare e mi fanno comunque schifo. Li caccio con un bastone, non sono più impaurito complice di quell’arcano. Ero un piccolo idiota che giocava col mondo. Un mondo reale trasformato come dietro un vetro smerigliato. Ora sono un idiota più grande e per giunta non gioco neanche più volentieri. E’ questa la differenza. Il nostro problema è la serietà. Migliaia di libri letti, i cadaveri aperti all’obitorio, il morto che grida il dolore del suo corpo trafitto ancora vivo, migliaia di giorni passati ad ascoltare, a palpare, a scrutare radiografie. I ricordi trillano come la suoneria del telefono. Sto zitto e aspetto di capire. Poi delle volte rispondo e c’è qualcuno dall’altra parte.
“Lei si chiama?” La sclerosi multipla. A placche. Il male del secolo. Risonanze magnetiche e qualità della vita. Immagino. Una sedia a rotelle tecnologica. Un bimbo cerebroleso. Un piccolo cadavere in una grande tomba. Il mondo di sua madre. Migliaia di tomi per scoprire che non si sa perché viene. “Che strano, non trovo la sua scheda precedente, ma è sicuro di essere già venuto…” Ventuno secoli dopo Cristo e gli stessi dubbi. Le stesse domande. La gente in fila e la mia barba di sapiente. Squilla il telefono sulla mia scrivania. Che non è neanche la mia.
Cantavo “el pueblo unido jemas serà vencido”. Fine anni settanta. Il ‘Che’ era già morto. Era già mito. Tanta gente per la strada, per la pace, per la guerra. Poi le brigate rosse ci hanno tolto il gusto di essere incazzati sinceramente. Per paura di pensare male. Di essere collaterali. La gente però è sempre tanta e sta male. La stempiatura bianca mi rammenta mio padre, mentre lo osservo. Lui non può saperlo. Il brutto di quest’anima che abbiamo è che tu senti di continuo, pensi e ricordi, ma non sai mai se gli altri riusciranno a capirti. A sentire. A raggiungerti dove stai viaggiando. Una solitudine immensa mi circonda, ed ho una tremenda fila di fuori, mi dice l’infermiera.
La stessa paura dopo ogni vittoria. Mi ricordo gli esami, dopo tanti anni, ad uno ad uno ma sembrano tutti uguali. Una grande fatica a mettere tutto dentro la testa e a fuoco il giorno del verdetto. Poi un trenta oltre l’ostacolo. Sempre il primo della classe, sempre con lode. Ma per chi?
Lo fai per la tua gloria, il tuo curriculum, financo per i tuoi cari, sono soddisfazioni, direbbe mio padre. Mai per i pazienti. Paganti e non paganti. Gli occhi sono chiari e profondi, come se uno avesse pianto. Come ad una cerimonia. Gli tocco il collo e scorgo la cicatrice chirurgica. Come un rutto mi sale il ricordo. Ricomincio a pensare e a lavorare. Sotto le mani la pelle ruvida, la sua paura del tumore, mi sembra di sentire ancora addosso a me la paura del giorno prima dell’esame.
Avverto il contatto umido colle mucose e ritiro la mano dal labbro, come dall’ultimo foglio dell’ultimo libro. Il timore di sbagliare risposta o di errare diagnosi. Poi la vittoria. Inutile e disperdente. Quando tutti ti danno pacche sulle spalle, dicono lo sapevo, studia come un mulo. Quando nessuno può capire interamente , tanto che delle volte speri di perdere, di essere spazzato via, di non ricordarti l’ultima pagina dell’ultimo libro letto. Così quante facce soddisfatte, la stretta di mano, l’avevo detto che era così. Quante volte ti sei detto, ma allora sei bravo. E continui.
Una inutile lunga lista di vittorie. Festeggiate colla bottiglia di vino, con l’olio buono, financo col pollo del contadino. La gente è riconoscente, a modo suo. Io resto perplesso perché continuo a non vincere niente. A non sapere quasi niente.
C’erano solo sette posti alla specializzazione, due per assistente all’ospedale civile, uno solo da borsista all’università, quasi venti da tenente medico. Un ammasso di cadaveri di carriere nella spazzatura. Si fanno le scarpe per niente. Solo per la faccia. Sono nati tutti coll’osso in bocca ma io l’ho dovuto mollare. Non mi dispiace nemmeno, adesso. Nessuno ha sofferto, alla fine.
Che strano paese il nostro, dove ti ammazzi di studio, tuo padre ci butta il sangue per finanziarti fino alla fine, tutti ti ammirano perché ti sei laureato e specializzato. Poi rimani lì in un angolo perché il posto è del figlio di quello ch’è già professore. Tuo padre è impiegato, contessa.
Ho staccato il telefono perché voglio lavorare in pace. Ma i pensieri non hanno bisogno del filo per correre e Marconi e Bell e tutti gli altri in fondo non hanno inventato niente che non ci fosse già. Vorrei saper giudicare tutto questo ma ho poco immaginazione. Al posto delle stelle ho visto buchi neri nel cielo dei carabi dello screensaver, al posto dello sfigmomanometro un grazioso apparecchio che digita i valori pressori, al posto dei telefoni la rete ma si paga ugualmente, invece che aerei sfrecceranno shuttle, faranno gallerie in plexiglass al posto delle autostrade.
Con un tubo di fibre ottiche scruto la gola del paziente. Non so se siamo davvero credibili come eroi o siamo solo imbecilli sognatori. Con o senza campi di battaglia dove raccogliere soldati. Mi ha sempre sorpreso vincere, preferisco stare a parlare o discutere, perché dura di più vivere.
Ho letto davvero migliaia di libri ma non sono cambiato. Certe volte mi metto la maglietta bianca e guardo il profilo delle montagne. Mi indigno ancora, nonostante tutto quando la fornace inghiotte gli operai e li fonde insieme in un’unica morte.
E adesso mi ricordo anche il nome di questo poveraccio, che tanto mi ricorda mio padre, che gli hanno tolto una corda vocale col laser e si sono sbagliati.
Giuseppe MARCHI
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