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giovedì 8 aprile 2021

Facebook Data Public Disclosure e l’inquietante sensazione dell’assuefazione al data breach

La tecnologia non fa eccezione, come ogni altro ambito della società ha i suoi argomenti di grido e alcune parole magiche che sono sulla bocca di tutti.

La sicurezza informatica negli ultimi due lustri è di diritto sul podio tra gli argomenti che stanno dominando il panorama internazionale tecnologico. Fenomeno osservabile non soltanto nei laboratori di produttori di hardware e software, altresì ha avuto grande risalto anche nei saloni dove si discutono le strategie sociopolitiche internazionali.

Dal 2016 infatti uno degli argomenti che ha maggiormente occupato i pensieri, e per qualcuno le notti insonni, è stata la gestione corretta dei dati personali con l’ormai famoso e solo parzialmente digerito Regolamento Generale per la Protezione dei Dati Personali europeo in breve GDPR. 

Questo regolamento ha svolto il ruolo di rampa di lancio per tutta un’altra serie di attenzioni tra cui l’imposizione di applicare misure di sicurezza adeguate ai sistemi ed ai dati personali. 

Obbligo che si lega a doppio filo con il fenomeno del furto dei dati che in contemporanea è diventato sempre più pressantemente incubo dei responsabili della sicurezza delle informazioni di tutto il mondo.

Con la sensibilizzazione di poteri legislativi e degli esperti informatici anche i mezzi di comunicazione hanno iniziato a fiutare l’interesse che questi aspetti avrebbero potuto suscitare sul pubblico generalista e per questo motivo sono nati molti format che hanno cavalcato il fenomeno della sicurezza informatica.

Si annoverano ormai diversi film, documentari, serie TV e diversi speciali verticali che sono andati in onda sulle reti nazionali per eccellenza.

Questa ampia premessa vuole introdurre quella che è solo l’ultima notizia che ha investito la rete e i mezzi di comunicazione che ha come protagonista il social network per eccellenza, Facebook.

Sto parlando del portale di socializzazione che ha inequivocabilmente segnato l’inizio di una nuova vita sociale e ha stravolto in maniera probabilmente irreversibile il modo in cui la gente si conosce.

È infatti disponibile da qualche giorno un imponente archivio di dati, che sembra si attesti attorno ai 15GB, che contiene tutti i dati che erano stati trafugati dai sistemi del sopracitato sito nel non così lontano 2019.

All’interno di questo archivio sono presenti informazioni molto rilevanti come il numero di telefono degli utenti utilizzato per la conferma degli account, nomi, cognomi, indirizzo di posta elettronica.

La notizia in realtà è diventata d’interesse globale in questi giorni perché una volta che questi dati hanno perso qualsiasi valore economico qualcuno ha deciso di renderli disponibili gratuitamente per tutti.

Non è da trascurare però il punto cardine di questo evento, i dati rubati sono stati prima di tutto messi in vendita nel famoso “dark Web”.

Non serve troppa immaginazione per indovinare quale possa essere il cliente ideale per questo prodotto. Organizzazioni interessate ad un’ampia lista di contatti a cui “comunicare” informazioni a fini pubblicitari ad esempio.

Ma peggio ancora questo tipo di basi dati sono molto utili alle organizzazioni malevole che effettuano attacchi di vario tipo. 

Sono ottime fonti per lanciare campagne di phishing, campagne di “spray attack” e vista la grande mole di dati non ci si stupirebbe se fosse possibile effettuare attività di “data mining” trovando pattern di attacco ottimi per il social engineering.

I numeri di telefono infine sono ottimi mezzi di attacco per lo “smishing” e ideali da vendere a società di telemarketing di tutto il mondo.

Una volta che tutto il bacino di possibili acquirenti di questo prodotto risulta esaurito, è giunto il momento di lasciare queste informazioni alla mercé di tutta la rete in modo che anche chi non avesse disponibilità economica o interessi sufficienti da investirci ne faccia l’uso che preferisce.

Ciò che però può essere interessante osservare è che questo evento è soltanto l’ultimo di una lunghissima serie di “data breach” avvenuti negli ultimi anni, sul nostro sito abbiamo un articolo che annovera quelli del 2020: un anno di Hacking (https://www.difesaonline.it/evidenza/cyber/2020-un-anno-di-hacking )

Sono stati impattati giganti di ogni tipo, citandone giusto alcuni: il sito di aste online più longevo e famoso eBay, il portale di annunci di lavoro e social network professionale leader LinkedIN, alcune tra le catene alberghiere più importanti in tutto il mondo come Marriot, aziende sviluppatrici di giochi e produttrici di software come Sony e Nintendo.

Se voleste scoprire se i vostri dati siano stati parte di uno di questi incidenti e conseguenti divulgazioni di dati trafugati è possibile utilizzare il sito “';--have i been pwned?” raggiungibile all’indirizzo https://haveibeenpwned.com/.

All’interno di questa pagina potrete scoprire, tramite una banalissima finestra di ricerca con il vostro indirizzo di posta elettronica, numero di telefono o password, se siete tra le vittime di un “data breach”.

Tornando al focus dell’articolo, in ognuno di questi grandi incidenti sono stati trafugati milioni di record e ogni volta che è avvenuto uno di questi “data breach” l’eco che ha generato negli addetti ai lavori è sempre stato minore. 

Anche i mezzi di comunicazione hanno iniziato a dare sempre meno risalto a queste notizie quasi come se non fossero in fondo delle vere notizie.

La notizia forse è quindi che ormai siamo tutti un po’ “assuefatti” alla realtà dei furti di dati e che per la nostra società i data breach siano soltanto uno dei tanti normali eventi a cui siamo abituati.

Anche lo stesso COVID ci ha insegnato che dopo ormai più di un anno di pandemia, le numeriche giornaliere che snocciolano contagiati e, purtroppo, deceduti vengono derubricate a piccoli trafiletti dei telegiornali.

Nei primi momenti invece dell’emergenza venivano effettuate vere e proprie maratone che trattavano ogni singolo numero con grande zelo.

Purtroppo questo tipo di assuefazione può creare dinamiche rischiose nella mente di qualcuno, perché potrebbe accendere la dinamica psicologica di affermare qualcosa come: “se succede a tutti perché dovrei preoccuparmene più degli altri?”.

Ciò che invece è nostra missione, come riteniamo debba essere civicamente un dovere di tutti, è tenere sempre vigile la sensibilità pubblica sul fatto che gli impatti collegati ad un “data breach” sono proporzionalmente direttamente ed esponenzialmente collegati alla quantità e alla criticità dei dati che vengono trafugati.

Il mondo che abbiamo creato e che complice l’accelerazione digitale da pandemia sta sempre più affermandosi è totalmente fondato sulle basi di dati semplici e complesse.

Questa tendenza richiede di essere sempre compensata dalla coscienza che le basi di dati sono da proteggere al massimo delle possibilità e che vanno gestite rispettando i principi della sicurezza informatica in particolare il privilegio minimo e il “need to know”. È una bilancia sociale che va molto oltre la tecnologia. 

La cosa che ormai non stupisce più è che questi furti vengano perpetrati perché viene violata una identità digitale che serve da entratura. E teniamo a mente che per i primi passi delle fasi di ingresso degli attaccanti non sono necessarie delle credenziali aventi alti privilegi.

Molto più di frequente di quanto si immagini, sono normalissime utenza con cui vengono effettuate le prime fasi di attacco, il famoso “footprinting”. Una volta collezionate preziose informazioni grazie a quelle utenze è possibile per gli attaccanti iniziare a pianificare i passi successivi in maniera molto più assennata. Non si muoveranno più al buio provando qui e li con banali tentativi di forza bruta, avranno direzioni e strategie tessute a pennello per il target di turno. 

Potete fare un parallelo immaginario con i film di azione in cui la banda di ladri prima di iniziare il colpo si occupa di raccogliere le informazioni sull’obbiettivo da derubare. La mappa dell’edificio, le ronde del corpo di sicurezza, nomi delle guardie etc etc. Queste informazioni vengono poi utilizzate per raggiungere il bottino, che nel caso degli attacchi alle informazioni sono proprio le basi di dati. 

In ultima analisi vorrei porre la vostra attenzione sul fenomeno dei ransomware. Spesso vengono considerati in sé il problema vero e proprio, sopratutto dal punto di vista della sicurezza informatica. A dir il vero più spesso di quanto si pensi sono più utili a coprire le tracce degli attaccanti che ad avere effettivamente il riscatto richiesto per “liberare” i dati.

Questo perché oggi la sensibilità nei confronti di questi rischi si è fatta forte e sempre più realtà effettuano copie di “back up” dei dati e quindi sono sempre meno costrette a pagare i riscatti per avere i dati nuovamente decodificati. 

Non resta quindi che continuare a parlare di questi fenomeni allo scopo di sensibilizzare coloro che governano processi e nazioni verso una filosofia di evoluzione tecnologica sostenibile e consapevole.

Se voleste avere maggiori informazioni riguardo all’attacco ricevuto da facebook vi rimandiamo all’articolo di Wired https://www.wired.com/story/facebook-data-leak-500-million-users-phone-numbers/ .

Alessandro Oteri


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