“Le
tecnologie sono un “dono di Dio” che “può portare frutti di
bene” ma che deve essere utilizzato correttamente se non vogliamo
che comporti “gravi rischi per le società democratiche”
[Papa
Francesco]
Durante
il lockdown dello scorso anno mi misi a scrivere un articolo che non
ebbe mai la luce e che aveva come obiettivo di fare riflettere sul
fenomeno delle fake news che ho avuto l’ardire di associare alle
minacce cibernetiche più invasive degli ultimi anni. |
Tratto da : rcmediafreedom.eu |
Se
nei vari rapporti relativi alle minacce cibernetiche si introducesse
la voce “fake news”, sono sicuro che si otterrebbero dei numeri
molto interessanti, probabilmente superiori a quelli del phishing,
per fare un esempio, che rappresenta il vettore d’attacco più
utilizzato in assoluto secondo l’ultimo rapporto Clusit.
Più
o meno, l’articolo cominciava così:
Lavorando
per un’azienda americana, il termine “storytelling” viene
utilizzato in maniera estremamente frequente ormai da diverso tempo.
Ciò che meraviglia, forse nemmeno troppo, è che pur avendo una
lingua così bella e ricca di termini, è prassi comune e consolidata
in Italia, a ogni livello, affidarsi a termini stranieri, il più
delle volte inglesi. Devo dire, comunque, che c’é qualcosa di
particolare in questa parola, qualcosa che non saprei descrivere ma
che suscita una specie di meraviglia e stupore nel chi ascolta, non
appena viene evocata. Basta utilizzarla per fare apparire
impreziosito un ragionamento, valido o no che sia, ed ecco che come
per magia, gli interlocutori si illuminano come se si fosse espresso
il concetto più profondo di sempre.
Ormai
è diventato di uso comune, tanto che non ci facciamo neanche più
caso, tanto che, forse, abbiamo smesso di domandarci veramente cosa
intendiamo quando parliamo di storytelling oppure sappiamo di cosa
parliamo ma, con tutta probabilità, ce lo siamo dimenticato.
Durante
l’emergenza del coronavirus il nostro ruolo è chiaro. Ci è stato
raccomandato di “eseguire gli ordini” e di fare la
nostra parte rispettando le regole come, del resto, dovrebbe
avvenire sempre in un contesto democratico e di comunità. Le mie
azioni non hanno impatto solo su me stesso ma anche sulle persone che
mi circondano e con le quali interagisco e così, al contrario.
Eppure,
durante questa esperienza mai vissuta prima, abbiamo un atteggiamento
un po' asimmetrico rispetto a coloro che stanno cercando di
affrontare e risolvere l’emergenza e non possiamo fare altro che
obbedire e fidarci.
Ed
ecco la parola chiave: fiducia.
Guardiamo cosa ci dice la Treccani
a proposito di questa parola così importante.
fidùcia s.
f. [dal lat. fiducia,
der. di fidĕre «fidare,
confidare»] (pl., raro, -cie).
Atteggiamento,
verso altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione
positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle
altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un
sentimento di sicurezza e tranquillità: f. in
Dio, negli
uomini, nella
fraternità umana, nella
scienza, nel
progresso sociale; f. nella
vittoria; f. di
riuscire; f. nella
propria stella, nelle
proprie forze; f. nell’esito
di un’impresa; guardare
con f. all’avvenire; ferma
f.; f. illimitata, assoluta, incondizionata; avere, nutrire
f.; perdere
la f.; dare
un attestato, una
prova di f.; ispirare
f.; guadagnare, meritare, godere, avere
la f. di
qualcuno; riporre
bene,
o male, la
propria f.; abusare
della f. altrui.
Di uso com. le espressioni: persone
di f., di
mia, di
tua, di
sua f.,
persone fidate a cui si ricorre in cose delicate e
d’importanza; medico, avvocato
di f.,
quello che è liberamente e abitualmente scelto dal
cliente; posto, impiego, incarico
di f.,
di responsabilità, delicato, che si affida solo a persone sicure,
fidate.
In
diritto costituzionale, voto
di f.,
votazione mediante la quale il parlamento approva (o, se la
votazione dà risultato negativo, disapprova) gli indirizzi politici
e la corrispondente azione del governo; mozione
di f.,
la proposta, fatta da una delle Camere, di ricorrere al voto di
fiducia; questione
di f.,
richiesta da parte del governo di ricorrere al voto di fiducia per
l’approvazione o la reiezione di emendamenti e articoli di
progetti di legge: il
governo ha deciso di porre la questione di fiducia.
In
diritto civile, f. testamentaria (o disposizione
testamentaria fiduciaria),
disposizione di testamento per la quale il soggetto che riceve il
bene ne è il beneficiario apparente, avendo l’obbligo di
trasmettere quel bene ad altra persona (che normalmente non potrebbe
essere erede diretto del testatore).
Fiducia
è una parola “pesante” che abbraccia scenari ampi e che
rappresenta una responsabilità importante in chi la dà e in chi la
riceve.
Questo
per dire che dobbiamo confidare in coloro che stanno cercando, con
non poche difficoltà, di fare fronte ad un problema a cui nessuno
era preparato. Pertanto, dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni
centrali, nelle amministrazioni locali, nei medici, negli scienziati
e, non meno importante, in chi ci racconta ciò che succede, ovvero i
giornalisti e i conduttori.
Fiducia... dobbiamo averla in maniera
incondizionata, soprattutto considerando il mondo nel quale viviamo?
Un mondo nel quale siamo bombardati quotidianamente da una quantità
enorme di notizie che affermano tutto ed il contrario di tutto?
Ecco,
forse, il punto fondamentale: la gestione della comunicazione.
Sia
da parte delle istituzioni sia da parte dei media, soprattutto
all’inizio della pandemia, la modalità con cui si è comunicato ha
provocato una fuga di notizie che ha generato profonde discussioni ma
anche reazioni irrazionali verso tutto e tutti, a partire dal famoso
episodio relativo a coloro che affollarono le stazioni del nord per
scappare al sud tanto che, col passare dei giorni ci siamo resi conto
che quella
reazione così irrazionale è stata pur sempre innescata da un gesto
altrettanto irresponsabile.
Sembrava,
perciò, esserci stata l’occasione per riflettere sul modo in cui,
in parallelo agli sforzi medici, si dovesse e potesse affrontare il
coronavirus sul piano della comunicazione, ragionando appunto su uno
storytelling dell’emergenza.
Invece,
la narrazione della crisi è proseguita su binari che facevano
affidamento su termini, pratiche e abitudini che, purtroppo,
caratterizzano in negativo la comunicazione da tempo, ben prima della
diffusione del Covid-19.
Il
sensazionalismo, l’analisi grossolana, la ricerca frettolosa di
buoni e cattivi, di eroi e di nemici della patria. In un momento in
cui gli italiani non possono far altro che fidarsi di ciò che viene
loro detto, la
confusione e la disinformazione hanno dilagato tanto quanto il virus,
rendendo sempre più difficile la comunicazione e, di fatto, quasi
vanificando l’occasione di proporre finalmente una narrazione di
qualità, mai come ora di vitale importanza.
E
tutto ciò perché oggi come oggi la lettura, l’approfondimento, la
ricerca della veridicità delle notizie è privilegio di pochi mentre
la maggioranza delle persone ascolta gli imbonitori politici e i
giornalisti di parte che pur di raccattare voti, da un lato, e
influenzare l’opinione pubblica dall’altro, anche in una
situazione così critica come questa, usa la comunicazione in modo
fazioso e strumentale.
Tutto
ciò, lo vogliate o no, rientra nella categoria delle fake news.
“Fake”
o fake news” continuano ad essere termini che non rendono giustizia
all’ampiezza del fenomeno che stiamo vivendo perché sarebbe più
corretto parlare di manipolazione o di disinformazione che non sono,
senza dubbio, concetti nuovi ma che, rispetto al passato, si
arricchiscono di ulteriori implicazioni.
Appurato
che, ormai, la maggior parte della popolazione preferisce apprendere
qualsiasi tipo di informazione dai “social”, indipendentemente
dall’importanza dell’argomento, è possibile affermare che tra i
principali rischi vi sia quello che possano essere ritenute valide
informazioni palesemente false.
Questa
situazione è ulteriormente ingigantita dal cosiddetto “backfire
effect” ossia il fenomeno secondo
il quale “quando si contesta un’informazione falsa ma già
consolidata, si finisce col confermarla ancor di più perché,
purtroppo, si è restii a cambiare la propria opinione”.
Possiamo
affermare che tutti i settori culturali della società contemporanea
sono vittime delle “fake news” anche se la concentrazione
maggiore risulta essere sui contenuti di carattere scientifico.
Il
punto di vista personale è che la disinformazione in questo settore
trova terreno fertile nel propagarsi perché si basa principalmente
sull’ignoranza dei concetti di base.
Il
fatto che il linguaggio scientifico sia estremamente specifico
permette a coloro che creano disinformazione di ottenere un immediato
e notevole successo incidendo negativamente sul mondo accademico che
rischia di perdere di credibilità. È emblematico anche il fatto
che quando subentrano falsità che riguardano la salute, il danno
provocato rischia di diventare irreparabile.
Sono
stati svolti molti studi al riguardo e ciò che emerge è che esiste
la convinzione da parte di molti nel definire centrale il ruolo delle
“tech companies”, le società tecnologiche che, lungi dal
funzionare come semplici “piattaforme” svolgono un ruolo più in
linea con le caratteristiche e i requisiti delle aziende.
Il
grande potere di queste società non si esaurisce nel caricare
contenuti su una piattaforma ma, al contrario, si innalza grazie al
controllo in maniera selettiva e puntuale di ciò che noi vediamo dal
momento che è proprio questo il loro modello di business.
E
l’obiettivo finale, come per la politica, del resto, rimane quello
di aumentare il loro pubblico di utenti, “lisciandogli il pelo, per
usare un eufemismo un po' “francese” 😊,
modificando il flusso delle informazioni a dispetto della loro
presunta neutralità.
A
tal fine fanno largo uso di algoritmi sofisticati, analisi di dati,
tecniche di data matching e profiling grazie ai quali viene
processata una grande mole di informazioni raccolte, concesse a terzi
senza, molto spesso il consenso degli interessati oppure con un
consenso inconsapevole; dati che vengono utilizzati, contestualmente
alla raccolta, nella promozione pubblicitaria e nel micro targeting
attraverso i social media.
I
bot sono un altro strumento utilizzato in modo notevole. Si tratta,
come sappiamo, di programmi che accedono alla rete attraverso lo
stesso tipo di canali utilizzati dagli utenti umani e che consentono,
tra le altre cose, attraverso specifici algoritmi, di realizzare
compiti precisi come le attività di data scraping e Web scraping che
danno luogo all’estrazione di dati e informazioni presenti in una
determinata pagina per usarle in altri contesti.
Nella
piazza virtuale le informazioni false o scorrette, siano esse di
natura commerciale oppure politica, sono occultate, inviate a un
micro target di persone sulla base di dati raccolti da potenti
società di web marketing, senza che gli interessati ne siano a
conoscenza.
Sempre
più spesso il “dibattito pubblico”, incentrato su temi di grande
complessità e di difficile soluzione, che riguardano il futuro di
tutti, viene stravolto e trasformato in vere e proprie campagne di
marketing del consenso, fatte di soli slogan che riempiono lo spazio
pubblico.
In
buona sostanza, le tech companies sono stimolate, anche dal punto di vista economico, a dare la priorità ai contenuti sensazionali dal
momento che sono maggiormente suscettibili nell’attirare
l’attenzione oltre che nel favorire la polarizzazione e la
radicalizzazione dei dibattiti.
La
sensazione dilagante è che la disinformazione che circola sulle
piattaforme sia frutto di un progetto organizzato e condotto da
attori che hanno compreso benissimo alcuni principi basilari
dell’economia digitale attraverso i quali ottenere ingenti introiti
pubblicitari.
Tutto
ciò ha continuato a dilagare in modo incontrollato cosicché,
nell’ottobre 2018, le principali piattaforme digitali hanno
sottoscritto un “codice di condotta” per combattere la
disinformazione online. Si tratta di un inizio ma che rappresenta una
tappa fondamentale nella lotta ad un problema che potenzialmente è
in grado di minacciare la fiducia dei cittadini verso le istituzioni,
come ribadito in ambito UE.
L’obiettivo
dell’Unione Europea, tra le altre cose, è quello di gestire un
pacchetto di norme di autoregolamentazione su base volontaria, idonee
a contrastare la disinformazione del web.
Di
fatto, con l’adesione a questo progetto, ogni impresa del web si è
data delle regole per combattere la disinformazione in tutti gli
Stati membri dell’Ue.
Da
tutto ciò si evince che l’informazione si è trasformata in
“comunicazione” e che, al contempo, si è sviluppata la
disinformazione, che rappresenta senza dubbio un fenomeno complesso e
in trasformazione, e che può essere usato come una nuova arma, per
finalità di tipo politico, economico o militare.
Oggigiorno
sono tantissime e raffinatissime le tecniche di disinformazione tanto
da rappresentare una minaccia per la sicurezza e la stabilità di un
paese. Per questo, come anticipato, ho l’ardire che possiamo
considerarle come una minaccia cyber.
Non
è un caso, infatti, che quando si mettono in discussione l’integrità
e la stabilità di un Paese si fa ricorso ai servizi di intelligence
che giocano un ruolo fondamentale nel contrasto a tali forme di
minaccia. Gli stessi servizi di intelligence peraltro sono stati
interessati ad una trasformazione che li ha portati ad assumere una
connotazione in grado di affrontare le nuove sfide alla sicurezza.
Senza
entrare nel dettaglio di cosa si intenda per intelligence e
consapevole che il lettore possa, comunque, apprenderlo da diverse
fonti
(https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/cosa-facciamo/l-intelligence.html),
proprio perché occorre confrontarsi con nuove minacce ibride e,
soprattutto, asimmetriche, il suo ruolo diventa fondamentale.
L’Intelligence
è strettamente legata a ciò che avviene in ambito internazionale,
soprattutto in merito ai rapporti di forza tra gli Stati ma anche al
mercato globale.
Questo
legame è ancora più vero se pensiamo a quelle aree del mondo dove
non sono presenti conflitti di natura tradizionale ma che soffrono
dei fenomeni di vulnerabilità originati da conflitti economici,
forme avanzate di terrorismo di varia matrice ed attacchi attuati con
metodologie nuove che, necessitano di forme di intelligence
specifiche.
Le
tradizionali “minacce alla sicurezza” si sono evolute per
arrivare a più complesse minacce cibernetiche operate da attori che,
fondamentalmente, possono essere distinti in due macro-gruppi:
attori
governativi che sono molto strutturati ed estremamente pericolosi in
virtù del fatto che dispongono di ingenti risorse economiche ed
umane. Possiamo rappresentare le minacce di cui sono autori in due
classi: cyber warfare che è una sorta di guerra digitale e cyber
espionage che rappresenta lo spionaggio digitale.
attori
non governativi di cui fanno parte i gruppi terroristici (cyber
terrorism), le organizzazioni criminali (cyber crime) ed altri
attori riconducibili ad individui mossi da impulsi religiosi,
politici e ideologici.
Tutto
ciò porta a pensare che sempre più spesso le azioni criminali
faranno uso di strumenti tecnologicamente avanzati quali
l’intelligenza artificiale il cui fine sarà quello di
destabilizzare i rapporti internazionali ed avere una percezione
della sicurezza, per così dire, indotta.
Una
possibile arma è quella del “deepfake”, basata su processi che
sfruttano i principi dell’intelligenza artificiale per modificare e
sovrapporre immagini e video partendo dagli originali così da
elaborarne altri in cui i soggetti compiono azioni, parlano e si
muovono in contesti assolutamente non reali, grazie a tecniche di
machine learning quali “generative
adversarial network”.
Ci
sono poi i “fake people”,
persone che non esistono nella realtà ma che sono i protagonisti di
video virtuali che generano sentimenti forti quali rabbia, sfiducia,
compassione, paura o disagio in funzione delle finalità che si
perseguono.
Lo
sviluppo di una cyber intelligence efficace è una realtà
incontrovertibile che deve adeguarsi ai mutati scenari basandosi
sull’analisi di fonti aperte, sull’elaborazione dei big data,
sullo sviluppo di tecniche di intelligenza artificiale con le quali far fronte alla cyber warfare e garantire la difesa della collettività.
Da
qui, risulta evidente il legame con quanto questo articolo ha avuto
la pretesa di evidenziare e cioè: “notizia”, “informazione”,
“disinformazione” entrano e si permeano all’interno del sistema
“media” e del sistema “intelligence” e per evitare che le
tecnologie così pervasive possano far “esplodere” il sistema di
comunicazione e di informazione con ripercussioni inimmaginabili
sulla stessa società, è fondamentale che l’intelligence assuma un
ruolo centrale per garantire la sicurezza.
In
sintesi, ci troviamo di fronte ad un sistema estremamente complesso
all’interno del quale risulta quasi impossibile stabilire quale sia
la fonte di una notizia o verificarne la veridicità. Questo perché
chi genera fake news tende a mettere sullo stesso piano qualsiasi
opinione o parere in merito ad un dato argomento con il risultato che
tutti si sentano dei massimi esperti ☹.
Fatto, peraltro, estremamente amplificato dai social. Il dramma è
che di fronte a tutto questo la maggioranza degli utenti è impotente
anche e soprattutto in virtù del fatto che, ormai, accettano
qualsiasi notizia venga loro fornita da giornali, tv o social.
Sembra
esistere una tetra similitudine tra i tempi in cui la censura,
indipendentemente dal potere politico del Paese nella quale operava,
si preoccupava di bloccare le informazioni e il tempo attuale in cui
altri organi di potere setacciano, valutano, modificano e
costruiscono una grandissima quantità di informazioni inutili ed
irrilevanti confondendo e manipolando il destinatario di queste
informazioni, ossia l’utente medio, ahimè incapace di opporre
resistenza.
Credo
sia fondamentale, a questo punto, investire su una moderna ed
efficace cyber intelligence in grado di sviluppare capacità di cyber
counter intelligence che vada oltre il mero ruolo difensivo e che
sia, al contrario, molto più proattiva e finalizzata a potere
operare nella dimensione cyber anche con attacchi e simulazioni, il
cui scopo possa essere quello di ostacolare gli avversari che via via
si materializzano in questo scenario.
Da
ultimo ma non per questo meno importante e non ci stancheremo mai di
sottolinearlo, bisogna investire su una formazione di tutti gli
utenti verso una crescente sensibilità della sicurezza informatica
affinché i rischi sempre maggiori e sempre più complessi possano
essere rilevati, analizzati ed affrontati.
Carlo Mauceli
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