Traduttore automatico - Read this site in another language

domenica 31 luglio 2016

Uno spunto di riflessione su l’IS … un po’ diverso dal solito. Il rituale di sangue.

Intervistata, la madre di Adel, l’assassino del sacerdote di Rouen, una signora integrata anche se credente e praticante ma non particolarmente fervente, ha rilasciato alcune frasi che hanno spiegato l’atteggiamento del figlio diciannovenne prima degli attentati: ha detto che Adel da un po’ di tempo era un'altra persona, parlava con espressioni che non gli appartenevano e appariva come stregato
Una frase che ovviamente non dice nulla e tanto meno ci risolve il problema, e che ritroviamo sempre nei tratti del fanatismo anche politico, tuttavia mi è utile per affrontare un argomento che la nostra società contemporanea, che tende ad essere razionalista, non sa più cogliere. 
Per fare però un minimo di ragionamento sugli aspetti antropologici dell’IS e come questi siano perniciosi nella crisi dell’occidente, mi serve introdurre alcuni concetti di base: quello di “rituale” e quello di “comunione”. 
In tutte le religioni il rituale è un momento in cui il fedele attraverso delle formule recitate e la drammatizzazione di un evento si riconosce nella comunione dei fedeli. 
Le formule possono essere linguistiche come la preghiera o i canti, o di movimento come l’inginocchiarsi o le processioni, mentre la drammatizzazione di un evento può riguardare un evento storico o collettivo come ad esempio una santa che fa sgorgare l’acqua dalla pietra e salva i bambini dalla sete. 
Spesso è la figura principale della religione ad essere rappresentata in forma drammatica. Nel cristianesimo c’è la morte e risurrezione di Gesù, nella religione ebraica è l’intero popolo di Israele a vivere l’eterno dramma della diaspora e della persecuzione. Nel buddismo c’è la morte e l’ascesa del Buddha e così via. 
Nelle religioni antiche possiamo ricordare la morte e risurrezione di Osiride o di Mitra, per non parlare della religione greco-romana dalla quale s’è sviluppata tutta la drammaturgia occidentale. 
Il rito quindi ci fa vivere una drammatizzazione di qualcosa e ci porta a focalizzare l’attenzione verso la divinizzazione di quel qualcosa, nel senso proprio del termine (divinizzazione letteralmente significa attribuire a qualcuno o a qualcosa poteri divini perché è trasceso, è andato oltre la realtà). I fedeli di una religione si saldano tra di loro se vivono lo stesso rituale e la stessa drammatizzazione. Ciò significa che in parte (ovviamente) la differenza tra le varie religione può essere presa a partire dai riti e dalle drammatizzazioni che vi si praticano. Un cristiano cattolico sa che anche se va nelle filippine o a Chicago, trova (o potrebbe trovare) il rito in cui si identifica, e sa che lo può vivere con il filippino o l’americano che gli siede (o potrebbe sedersi) vicino in modo da essere in “comunione” cattolica con lui. 
I capi dell’IS conoscono molto bene queste cose, si vede da come usano i simboli, e stanno facendo l’operazione inversa. Cioè l’IS sta fondando una nuova “comunione” di fedeli facendo dei “riti” di massa chiamando a se nuovi fedeli, sfruttando anche sapientemente i media. Fedeli per certi aspetti inconsapevoli perché manipolati da una religione per certi aspetti nuova e inaspettata. Certo, la radice è islamica radicale e sfrutta i simboli e le parole preesistenti dell’islam, ma se si studia il sufismo, le antiche vicende sciite o sunnite ci si accorge che siamo di fronte a un fenomeno diverso, un islam che non parte da zero ma che è nuovo (benché per certi aspetti antico) rispetto a quello che c’era precedentemente. 
L’uso dello “sgozzamento rituale” per raggiungere una comunione di fedeli, nella cultura giudaico–cristiana è stato abbandonato in età pre-israelita. Nel libro della Genesi si fa riferimento a tutto quello che è antecedente alla nascita del popolo di Israele, considerando la nascita del popolo di Israele con l’arrivo in terra santa a seguito della fuga dalla schiavitù egizia. Nel Genesi si trova la storia di Isacco e Abramo (Genesi 15-35), per farla breve Isacco doveva sgozzare Abramo per rendere omaggio all’Altissimo, ma Jahve decide di risparmiare la vittima ad Abramo e di renderlo santo in vita. 
Tralasciamo adesso gli aspetti antropologici fondamentali della vicenda di Isacco, limitiamoci solo a dire che in antichità (circa 1000-500 anni a.c.) era normale sacrificare forme viventi cioè “sangue” verso le divinità, perché l’Uomo era schiavo della natura e impaurito da ciò che non riusciva a controllare e la sua drammatizzazione verso il sacro era totale, come totale era la vita nella natura. Nel rituale di sangue la drammatizzazione è appunto totale, non c’è finzione, non c’è una finta croce che ci ricorda la vera passione di Cristo, non ci sono le finte frecce che trapassano il disegno del corpo di San Sebastiano, c’è il dolore vero, il sangue vero, con tutto l’impatto emotivo che ne consegue. 
Deve essere chiaro, l’IS usa questi rituali nel modo più distorto possibile e con un fine che è sacrilego (inteso proprio come: colui che ruba le cose sacre) ma il rito così fatto ottiene gli stessi risultati. 
La madre di Adel dice che era “come stregato”. Si lo era, nel senso che egli era già stato chiamato alla comunione della guerra santa ad un livello “religioso” e archetipo per usare un termine junghiano, come il pifferaio magico chiama a se i topi. Non è – secondo me – un caso che nell’ultimo periodo gli attentatori sono persone emotivamente fragili e quindi facilmente suggestionabili. Si scopre anche che il contatto con l’organizzazione terroristica è fugace , ridotto al minimo essenziale o comunque ridotto nel tempo, ciò vuol dire che l’attentatore era già “emotivamente” pronto, già irretito, anche se lui non lo sapeva o non ne era cosciente fino in fiondo, e che chi lo ha contattato con poco è riuscito a “stregarlo” definitivamente e renderlo pronto per il martirio. 
La “comunione” con la guerra santa non si ottiene ovviamente solo con il rituale del sangue, occorrono siti per la propaganda, messaggi contro l’occidente decadente e immorale, occorre fare leva sulla frustrazione dei disadattati e degli emarginati (emarginati nel senso più ampio, che hanno problemi di relazioni sociali) e poi sicuramente con il contatto finale e la disponibilità di soldi, armi e catena logistica. E’ un insieme di tecniche se vogliamo, ma estremamente perniciose perché l’occidente pare non vedere il problema a 360° gradi e focalizza l’attenzione solo sugli aspetti militari e logistici, al limite capisce la propaganda e la contro propaganda, ma meno quelli mistici.
Alessandro Ghinassi

sabato 30 luglio 2016

Considerazioni da un francobollo: Alessandro Tassoni

Questo pomeriggio ho dedicato alcune ore a sistemare la mia collezione di francobolli, mia moglie mi ha aiutato e mentre io spostavo e misuravo dentellature e vignette, lei leggeva le curiosità sui soggetti dei francobolli più interessanti.
Così, ad un certo punto le passa per le mani il francobollo di Alessandro Tassoni.
"Alessandro Tassoni, scrittore e poeta italiano, nato a Modena il 28 settembre del 1565, morto a Modena il 25 aprile del 1635."
Cosa ha scritto? Mi leggi le sue opere? Chiedo io incuriosito.
"La Secchia rapita, poema eroicomico in cui il poeta si burla...
e poi paragone degl'ingegni antichi e moderni".
Poi si passa ad un altro francobollo e la serata prosegue così.
Dopo cena però arriva il momento di riordinare le idee e mi torna in mente Tassoni.
Leggiamo qualche brano della Secchia rapita e tutto lascia pensare che sia una bella opera, ben scritta e certamente divertente. Un'opera che racconta in maniera burlesca la guerra tra Modena e Bologna e della secchia da pozzo rapita, che ora si trova a Modena nella Ghirlandina.
 
"Chi dal monte il dì sesto, e chi dal piano
dispiegò le bandiere in un istante;
e 'l primo ch'apparisse a la campagna
fu il conte de la Rocca di Culagna.

Quest'era un cavalier bravo e galante,
filosofo poeta e bacchettone
ch'era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Spesso ammazzato avea qualche gigante,
e si scopriva poi ch'era un cappone,
onde i fanciulli dietro di lontano
gli soleano gridar: - Viva Martano -.

Avea ducento scrocchi in una schiera,
mangiati da la fame e pidocchiosi;
ma egli dicea ch'eran duo mila e ch'era
una falange d'uomini famosi:
dipinto avea un pavon ne la bandiera
con ricami di seta e d'or pomposi:
l'armatura d'argento e molto adorna;
e in testa un gran cimier di piume e corna..."

Ma a me incuriosisce l'altra opera, quella sugli ingegni antichi e moderni.
La trovo su googlebooks e inizio a leggere.
Vi riporto la prima pagina, perchè tratta di un argomento a me molto caro.

Cap I: Se nelle dottrine e nelle arti gli antichi prevalessero d'ingeno ai moderni.

Si perfezionano le arti con lunghezza di fatica e di studio, e di ogni cosa furono sempre i principii dalla perfezione lontani, come disse già Seneca; per la qual cosa egli parrebbe, che si avesse a terminare questa lite in favore della modernità, poscia che tutte le cose le quali dalla natura hanno origine, per ordinario imperfetto sogliono avere il principio loro, e quindi coll'esperienza e coll'industria degli uomini andarsi di mano in mano dirozzando e avanzando. Ma debole è tal maniera d'argomentare, imperocchè la medesime arti e dottrine non sempre si vanno con un seguìto corso di molti ingeni eccellenti continuando, ma ora cadono in mano di gente di tardo e fiacco intelletto che le ritorna indietro, ora si estinguono e mancano affatto, come nella decrepità dell'imperio romano avvenne all'Italia, la quale per un lunghissimo tratto di molti secoli sconvolta e corseggiata da' Barbari mancò non solamente dell'eccellenza di tutte quelle arti che soleano fiorire in lei, ma ancora può dirsi della mediocrità. Le pestilenze, le penurie e le guerre spengono gli uomini e le arti. Tutte le professioni che hanno nascimento e gioventù e perfezione, hanno anche vecchiezza e morte. E come alle volte crescono e si dilatano a salti, così talora mancano in un'istante...


Ecco dunque ciò che pensa Alessandro Tassoni, che poi è anche il mio pensiero, alla faccia di tutti quei "moderni di tardo e fiacco intelletto" che pensano che la storia e la civiltà si sviluppino in modo lineare!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Il libro delle Piramidi, di C.W. Ceram

Tempo addietro, abitavo allora ad Aprilia, mi capitò di passare nei pressi di uno scaffale all'uscita di un grande centro commerciale. Sullo scaffale, pieno di libri usati, c'era scritto: "Libri randagi"; vi era inoltre una specie di regolamento che incitava a prendere un libro da leggere e portarne qualcun' altro in cambio per consentire così la diffusione della cultura.
Incuriosito, mi fermai e diedi una scorsa ai titoli, fermandomi talvolta e poi ripartendo insoddisfatto. La maggior parte dei libri infatti erano in cattive condizioni e trattavano argomenti non di mio interesse. Poi, verso la fine, quando scoraggiato stavo per andar via senza aver preso niente, dietro una fila di romanzi rosa apparve un libriccino: Il libro delle piramidi, di Ceram.
Presi il libro e lo adottai.
Da allora son passati diversi anni (dieci? dodici?) e diverse letture mi hanno portato ad approfondire la storia antica in generale eppure, anche questa estate, scorrendo i libri della mia libreria non ho saputo resistere all'attrazione e ho riletto, per la terza volta, questo piccolo libro adottato.
Naturalmente, come tutti i miei libri, è pieno di note e appunti fatti a mano, sottolineature e orecchie: insomma, è un libro vissuto.
Questo libriccino racconta la storia di una grande avventura: la scoperta dell'archeologia in Egitto. Ceram (ovvero Marek, se vogliamo usare il vero nome dell'autore) parte da Napoleone e la sua conquista dell'Egitto per raccontare come l'Europa ha riscoperto un mondo favoloso e dimenticato.
"Parigi pesa su di me come una cappa di piombo! La vostra Europa è una collina di talpe! Solo in Oriente, dove vivono seicento milioni di uomini, possono essere fondati grandi regni e organizzate grandi rivoluzioni!", queste le parole di Napoleone. Il 19 maggio 1798 Napoleone parte da Tolone alla volta dell'Egitto. 
L'Egitto doveva essere la prima tappa per le Indie ma napoleone deve scontrarsi prima con l'esercito dei Mamelucchi guidato da Murad bey e poi con la flotta di Nelson. Seguirono un anno di battaglie fino a che Napoleone decide di rientrare in Europa, il suo esercito non è più in grado di proseguire.
La spedizione militare è fallita, ma non si può dire che Napoleone torni in Europa a mani vuote.
Assieme alle truppe Napoleone portò in Egitto centosettantacinque scienziati civili, forniti di una intera biblioteca sull'Egitto e degli strumenti necessari a fare rilievi e misurazioni. Tra questi vi era Dominique Vivant Denon, disegnatore, diplomatico e direttore generale di tutti  i musei di Francia. 
Denon era stato aggregato alle truppe del Generale Desaix che inseguì Murad bey mentre questi fuggendo si addentrava nell'alto Egitto.  Durante tutto il periodo visse frugalmente come le truppe e il suo unico interesse fu quello di disegnare, qualunque scena che a lui paresse interessante veniva immortalata. Tra i suoi disegni naturalmente non mancarono i geroglifici e i principali monumenti archeologici incontrati durante le lunghe giornate di marcia. Tra gli oggetti raccolti durante la marcia vi fu una stele in basalto nero contenente una iscrizione trilingue, la ormai famosa stele di Rosetta. Al rientro in Francia Denon pubblicò il suo racconto di viaggio illustrato: Voyage dans la Haute et la basse Egypte.
Mentre scrivo rileggo i passi principali e mi vien voglia di rileggerlo ancora una volta tanto è scritto bene ed interessante.
Ceram prosegue il suo racconto citando i passi dei testi antichi in cui si parla del regno dei faraoni per passare poi a colui il quale dobbiamo la decifrazione dei geroglifici, Champollion. La sua fu un'impresa che solo un genio poteva portare a termine.
Poi è la volta dei principali esploratori dell'Egitto, Belzoni, l'ialiano raccoglitore; Lepsius, il tedesco ordinatore; Mariette, il francese conservatore ed infine Petrie, l'Inglese misuratore e interprete.
L'Egitto è un museo a cielo aperto e la storia dei ritrovamenti può essere assimilata ad un grande romanzo in cui i personaggi percorrono millenni di storia per arrivare fino ai nostri giorni spesso completamente dimenticati. Ceram è uno di quegli uomini che, con i suoi libri ha permesso all'Egitto di continuare a vivere. 
In definitiva, il libro delle piramidi è un libro che non può mancare nella propria biblioteca.

Buona lettura.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 24 luglio 2016

Visita al nuraghe Corvos e alle domus de Janas

Qualche settimana fa, abbiamo deciso di dedicare alcune ore alla visita del territorio di Putifigari, nel sassarese, alla ricerca di nuraghi da visitare.
L'obiettivo iniziale era quello di visitare la tomba dei giganti di Campu Lontanu che però, nonostante l'impegno e le indicazioni degli amici del luogo, non siamo riusciti a trovare.
Chiedendo informazioni per strada siamo arrivati ai resti di una vecchia tomba dei giganti probabilmente distrutta durante la costruzione di una strada di campagna. 
Una volta compreso che stavamo nel posto sbagliato abbiamo proseguito la nostra gita (dopo aver gustato alcune pere selvatiche trovate lungo la strada, con tanto di vermetto ma dal gusto indescrivibile!) arrivando fino alla chiesetta di Sant'Antonio. Nel piazzale antistante sono ancora visibili i resti di un fuoco gigantesco probabilmente acceso per secoli ogni inverno.

Ad un certo punto abbiamo notato la caratteristica forma tronco conica di un bel nuraghe e ci siamo fermati.
Il nuraghe è molto bello anche se rovinato. 
Il nuraghe è oggi abbandonato, sono state asportate anche le targhe con le informazioni ma non ci siamo fatti scoraggiare e siamo entrati a visitarlo.
Oggi gli unici abitanti sono alcuni pipistrelli e qualche ragno, oltre ai visitatori occasionali come noi (durante la nostra visita però non si è fermato nessuno).
Al di fuori del nuraghe è possibile vedere l'immancabile quercia, sempre presente.
Il nuraghe sembra poggiato su di un basamento nuragico più grande, probabilmente al di sotto vi era un precedente nuraghe più grande. Oggi è possibile visitare solo una camera (o almeno noi non abbiamo trovato altri ingressi). 
L'interno del nuraghe è fresco, piacevole, paragonato ai 40° gradi della temperatura esterna.
Alcuni piccoli pipistrelli si agitano appena, forse disturbati dal nostro chiacchiericcio e dal flash della macchina fotografica.
La scala interna alle mura non è percorribile e decidiamo, con dispiacere, di non salire sulla cima. Sarebbe stato piacevole godere del panorama.
La volta è ben conservata ed è possibile osservarne le modalità costruttive. 
Come in tutti i nuraghe (che ho visitato) o quasi, all'interno della camera principale vi sono delle piccole aperture nelle pareti tipo delle nicchie che secondo alcuni studiosi dovevano contenere le statue degli dei. 
Peccato non avere a disposizione informazioni più dettagliate. 
Mi piacerebbe sapere se sono stati fatti degli scavi, se vi sono stati ritrovati reperti, magari dei bronzetti e dove è possibile vederli.
Purtroppo, come ho detto non vi sono informazioni di nessun genere. D'altra parte la cosa non mi stupisce dopo tanti anni dedicati a visitare i siti archeologici della mia Isola. 
Non credo che capirò mai per quale motivo non si riescano a dare un minimo di informazioni sul posto. Dei tabelloni in plastica non sono poi così costosi! 
Dopo la visita prendiamo la strada per tornare a Porto Torres. Al bivio di Putifigari con la SP 12 vediamo delle domus de Janas.
Se ne trovano tante in Sardegna. Tutte molto simili. Scavate nella roccia friabile, chissà da quanto tempo ormai sono abbandonate.
In alcune si capisce che la volta è crollata da poco, una colonna giace a terra, spezzata, al centro di quella che un tempo doveva essere la camera principale.
Il luogo è silenzioso, come ben si addice ad un cimitero, anche se antico. 

 




Ci fermiamo.
Anche queste sono poco segnalate e non vi è nessuna indicazione del nome, periodo storico, lavori effettuati.
In terra un cartello rotto.
Ci muoviamo facendo attenzione a non cadere, tra le rocce scavate dalla mano dell'uomo in un passato remoto.
Si trattava sicuramente di tombe ipogeiche, talvolta simili a quelle etrusche.
La differenza principale sta nello stato di completo abbandono delle tombe della Sardegna (Sigh!).
Le domus de janas sono belle, si possono visitare alcuni locali.
In alcuni punti vi sono ancora tracce di colore o delle lavorazioni in rilievo.
Le prime domus che ho visitato sono state quelle di Isili, da allora ne ho viste tante e purtroppo le condizioni sono sempre le stesse!
L'archeologia in Sardegna è considerata la cenerentola, eppure è una terra antica e meriterebbe molto più rispetto.
Immagino che si tratti di una questione di priorità. Dato che in Italia ci sono poche risorse, non le si può certo spendere in Sardegna!
Quante cose ci sarebbero da salvare, da conservare, da studiare... se solo lo si volesse fare.
Le tombe sono costruite con la stessa modalità: un ingresso scavato nella roccia, una finestrella che consente l'accesso alla camera principale, talvolta abbastanza ampia da aver bisogno di una o due colonne per reggere la volta. Poi, a circa un metro e mezzo di altezza, altre finestrelle, due o tre, consentono l'accesso ad altre camere più piccole dalle quali a loro volta in alcuni casi si accede a locali ancora più piccoli. Nessuno sfogo verso l'alto. Niente fa pensare ad abitazioni.
 In una delle tombe si trova una specie di porta in pietra solo scolpita nella parete, mi ricorda la porta verso l'aldilà delle tombe egizie, chissà se aveva la stessa funzione.
Ma è arrivata l'ora di andar via.
Ci voltiamo per lasciare questi luoghi.
Chissà se avremo modo di tornare, tra qualche anno, chissà se le cose saranno cambiate.
Spero sempre che qualcuno cominci ad interessarsi dell'enorme patrimonio archeologico della nostra amata isola anche se purtroppo non ci credo più.
Ma forse, con queste poche righe, qualcuno potrebbe sentirsi spinto dall'irresistibile desiderio di fare qualcosa, per cui continuiamo a sperare...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO









Credenze religiose degli antichi sardi, di Massimo Pittau

Ho appena terminato di leggere, con interesse, il libro di Massimo Pittau, professore ordinario nella facoltà di lettere e Preside nella facoltà di Magistero dell'Università di Sassari.
Il libro affronta il complesso argomento delle divinità della Sardegna, a partire dalla civiltà nuragica fino ai più recenti riti della religione cristiana, spesso costruiti sulla base (fisica e culturale) dei precedenti riti e luoghi di culto.
Alcuni simboli ancora presenti nella cultura sarda, come le corna del bue (maschere di Ottana) o la stella solare sulla fronte, riportano a tempi antichi legati al culto del sole e della luna, rintracciabili sia su monete antiche che in più antiche raffigurazioni. A parere di Pittau il bronzetto dotato di elmo cornuto, quattro occhi, quattro braccia e due scudi, è la rappresentazione del dio della guerra nuragico. Purtoppo sembra che il nome del dio non sia sopravvi
ssuto al passare del tempo. Diverso è il caso del dio della salute. Nel 1861 è stata infatti rinvenuta una colonna in bronzo, in località santu Jaci a San Nicolò Gerrei, con un'iscrizione trilingue  da cui si evince il nome del dio venerato nel tempio li presente (latino, greco, punico): Aescolapius Merre/ Asclepio Merre/Eshmun Merre.
L'autore fa risalire il termine Macomer all'espressione punica Maqom Merre che, se si considera che il santo protettore di Macomer è oggigiorno San Pantaleo (medico e protettore dei medici), trova una sua ragion d'essere
Stesse considerazioni valgono per Dolianova, un tempo chiamata San Pantaleo. Nella chiesa sono stati trovati simboli come il serpente, animale sacro all'antico dio della salute, Esculapio.
Interessante il capitolo relativo al culto di Bacco e alle cerimonie registrate fino a pochi anni fa in occasione dell'impianto di una vigna  nei pressi di Olzai e Mamoiada. Anche la venerazione di Bacco assimila gli antichi popoli sardi con gli Etruschi.
Un bel libro, da leggere e tenere a portata di mano.
I miei complimenti all'autore Massimo Pittau.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 23 luglio 2016

Nove settembre 1943 Il giorno degli Ammiragli, di Lorenzo Scano

"Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".
Questo è il proclama letto dal generale Dwight Eisenhower l'8 settembre 1943 ai microfoni di Radio Algeri.
L'armistizio fu firmato il 3 settembre 1943 dal governo Badoglio ma gli italiani ancora mantenevano segreta la cosa.
In quei giorni il Re d'Italia, Vittorio Emanuele III di Savoia, preparava la  fuga sua e della famiglia reale.
Il libro di Lorenzo Scano si muove in questo scenario, cercando di ricostruire gli avvenimenti che hanno portato all'affondamento della nave ammiraglia Roma e alla consegna della flotta italiana agli alleati.
La mancanza di chiarezza degli ordini emanati in quei giorni è stata forse la causa principale di tanti morti.
L'affondamento della corazzata Roma, avvenuto nel golfo dell'Asinara, a circa 15 miglia ad est di punta dello Scorno, dovuto al bombardamento di velivoli tedeschi Dornier 217 armati con bombe FX 1400 (3,3 metri di lunghezza per 35 centimetri di larghezza, carico di esplosivo di 300 kg, peso totale 1500 kg, radioguidata) è difficile da spiegare. Solo in quell'occasione vi furono più di 1300 morti.
L'autore, Lorenzo Scano, cerca di mettere in evidenza come quelle vittime difficilmente possano essere considerate parte della "resistenza antinazista".
A parere dell'autore l'ammiraglio Bergamini, a capo della flotta, fu fedele fino in fondo alla parola data all'ex alleato tedesco e probabilmente non volle essere il primo a sparare, cosa che costò la sua vita e quelle dei suoi uomini.
Nel libro inoltre si cerca di capire quali fossero i rapporti tra il movimento della flotta e quello del Re che, forse, aveva intenzione di ritirarsi in Sardegna, luogo dal quale ripartire per un nuovo futuro.
Quali erano le reali intenzioni del Re?
Perchè si continuò a trattare con gli Alleati e con i tedeschi anche dopo la firma dell'armistizio? Cosa si voleva ottenere?
Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai, eppure è chiaro a tutti che fin dal 1940 qualcuno in Italia lavorò a favore della vittoria degli Alleati, altrimenti che senso avrebbe l'art. 16 del trattato di Parigi?
"L'Italia non incriminerà nè in altro modo molesterà i cittadini italiani compresi i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di aver espresso simpatia per la causa delle potenze Alleate o Associate o di aver svolto azione a favore della causa stessa durante il periodo tra il 10 giugno 1940 e la data di entrata in vigore del presente trattato".

Un libro interessante e ricco di spunti per approfondire la nostra conoscenza di un momento cruciale per la nostra patria.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 22 luglio 2016

I du Pont, di William H.A.Carr

"Rectitudine sto", 
è questo il motto che si trova al di sotto dello stemma di famiglia dei du Pont. 
Al di sopra invece un elmo e nello scudo un pilastro al centro di un campo.
Non avevo ben chiaro chi fossero i du Pont prima di leggere la storia della loro famiglia nella splendida biografia di W.H.A.Carr. Certo, l'avevo già sentita nominare ma non ero in grado di associare il loro nome a qualsivoglia evento storico, scientifico, politico o sociale.
Forse (ma non sono sicuro!) era un cognome incontrato in qualche fumetto oppure letto su qualche prodotto commerciale; l'unica cosa di cui ero abbastanza certo è che si trattava di un cognome francese, ed in effetti non mi sbagliavo.
Il libro, pubblicato nel 1967, racconta la storia di sette generazioni dei du Pont: dalla partenza dalla Francia del capostipite americano, Pierre Samuel du Pont de Nemours, subito dopo la rivoluzione francese, agli anni '60 del ventesimo secolo.
Pierre Samuel nacque orologiaio ma ben presto riuscì a entrare all'interno del gruppo degli enciclopedisti, grazie ai suoi saggi di economia politica. E' a lui che dobbiamo il termine "fisiocrazia", con cui si indica la teoria di economia politica che riteneva che i prodotti della terra hanno maggiore importanza dei prodotti dell'industria o del commercio.
Doveva essere ingamba Pierre Samuel du Pont, in pochi anni divenne famoso al punto che Franklin si augurava di poterselo portare in America.
Siamo alla fine del 1700. In Francia è tempo di rivoluzioni e Pierre Samuel è vicino al Re di Francia. 
E' in questo periodo che il Re, Luigi XVI, gli concede una patente di nobiltà per i suoi meriti, così nasce il suo stemma. Da allora i du Pont sottopongono i figli ad una speciale investitura, una breve cerimonia in cui si spiega ai giovani che "Non esiste alcun privilegio che non sia inseparabilmente legato ad un dovere".
Nel 1787 Pierre Samuel è consigliere di Stato e direttore del commercio e fa si che il suo primo figlio, Victor, sia impiegato presso la legazione francese a New York. Il secondo figlio, Irénée, trova lavoro presso la fabbrica nazionale delle polveri da sparo, alle dipendenze di Lavoisier.
Gli anni che seguono sono funestati da alterne vicende, dovute alle vicissitudini della Francia, che passa attraverso uno dei periodi più bui della sua esistenza.
Pierre Samuel finì in carcere due volte e la tipografia di famiglia fu saccheggiata. E' giunta l'ora di lasciare la Francia.
Il 2 ottobre 1799 la famiglia du Pont, tredici persone in tutto, a bordo dell'American Eagle salpa alla volta dell'America.
I du Pont sbarcarono a New Port il 1° gennaio 1800. 
Da li si spostarono subito a New York, dove cominciarono immediatamente a lavorare al loro progetto: mettere in piedi una compagnia d'affari che avrebbe consentito loro di diventare ciò che sono oggi, una delle più ricche e potenti famiglie d'America.
Già allora i du Pont vantavano conoscenze ad altissimo livello e non erano certo degli sprovveduti, eppure, la loro fortuna la devono ad un caso. Un giorno d'autunno del 1800, il Colonnello Louis de Tonsard, in compagnia di Irénée, si trovava a caccia nel territorio del Delaware. Finite le munizioni i due uomini si fermano in un negozio di campagna per acquistare della polvere da sparo. Irénée, dati i suoi precedenti di lavoro, si rende subito conto che i prodotti dell'industria francese erano molto più economici ma soprattutto di migliore qualità. La famiglia si mise subito in moto per trovare i finanziamenti necessari per aprire una fabbrica di polvere da sparo e per trovare i necessari appoggi affinchè i prodotti potessero essere venduti nei mercati americani.
Nel luglio 1802 la famiglia di Irénée si sposta in un terreno ideale per impiantare la fabbrica, nel Delaware, sul fiume Brandiwine...

Il libro prosegue ripercorrendo i principali avvenimenti storici americani e mondiali cui i du Pont, principali produttori di polvere da sparo, presero parte.
I du Pont furono sempre molto uniti, anche se non mancarono screzi e problemi, e il personale impiegato nelle fabbriche era considerato parte della famiglia. 
Nella famiglia du Pont vi furono chimici, ingegneri, uomini politici, militari, tutti in qualche modo contribuirono alla crescità della società americana. 
Il più importante progetto cui parteciparono i du Pont, fu forse il progetto Manhattan, per il quale accettarono dallo stato americano una ricompensa simbolica di un dollaro!
Oggi la famiglia du Pont è ancora una delle più ricche d'America, i suoi prodotti continuano a trovarsi ovunque.
Libro da leggere d'un fiato e su cui riflettere. Libro che, oltre che presentare la storia di una grande famiglia, della Francia e dell'America, spinge a riflettere anche sul significato profondo del termine "famiglia".

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO