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sabato 28 febbraio 2015

I custodi della Storia (Capitolo I) - Addio Sardegna

Il nuraghe vicino a casa mia era un ottimo nascondiglio.

L'aria al suo interno era sempre fresca, il buio profondo accoglieva gli ospiti non appena si varcava la soglia, proiettandoli in un mondo antico e ancora sconosciuto.

Ogni volta che vi entravo mi sembrava che il tempo si fermasse. Respiravo lentamente addossato alle rocce fredde, ascoltando il battito del cuore, osservando protetto dal buio, che nessuno venisse a cercarmi.

Ero sempre stato ossessionato dal mistero rappresentato da quegli enormi torrioni di roccia costruiti con blocchi appena sbozzati. 
Non ne avevo paura, anzi, tra le rocce mi sentivo a mio agio, mi trasmettevano una sensazione di sicurezza e forza che aveva del soprannaturale.

I miei compagni di gioco correvano per i campi, frugavano tra i cespugli, giravano attorno al nuraghe ma raramente vi si addentravano, forse spaventati dal buio, forse dall'odore penetrante del muschio che indipendentemente dalla stagione era sempre presente al suo interno.

Il nuraghe era un nascondiglio perfetto e al suo interno, appiattito contro le spesse pareti, mi sentivo perfettamente a mio agio, come se vi fossi nato.

Uno dei miei preferiti era il nuraghe “Is paras”, così chiamato perché nell'ottocento era appartenuto ai padri scolopi. Si trovava a poche centinai di metri dalla scuola media e io vi andavo spesso a giocare con i miei fratelli o con gli amici.

Vi giravo attorno come per controllare che niente fosse cambiato dall'ultima visita e poi mi arrampicavo lungo le mura per raggiungere la sommità. Non era difficile salire anche perché qualcuno aveva inserito dei ferri tra le rocce che permettevano di salire agevolmente, anche se occorreva fare attenzione perché se si cadeva si rischiava un volo di diversi metri con atterraggio sulle rocce. Arrivato in cima mi sedevo su uno dei grossi massi e restavo a pensare, cingendo le ginocchia con le braccia, insensibile al vento freddo che non più ostacolato dalla vegetazione mi colpiva la faccia. Immaginavo guerrieri antichi dalle forme più strane che protetti dalle mura lanciavano frecce dalla punta di pietra verso aggressori stranieri che avanzavano veloci. I guerrieri nuragici indossavano corte tuniche e elmi cornuti. Braccia e gambe erano protette da placche di cuoio, come nelle riproduzioni dei bronzetti ritrovati nei nuraghi e spesso raffigurati nei libri di storia presi in prestito dalla biblioteca. Altre volte raggiungevo la mia postazione di osservazione portando con me un vecchio album da disegno e disegnavo il paesaggio circostante. 
Nel mio disegno solitamente le colline, ciuffi d'erba e vecchie querce da sughero circondavano l'elemento principale, il nuraghe alto e maestoso, che si stagliava contro il cielo al tramonto. Oppure salivo e scendevo per la stretta scala in pietra, ricavata all'interno delle mura facendo attenzione a non mettere un piede in fallo per evitare brutte cadute. Quelle pietre enormi utilizzate per costruire mura spesse anche cinque metri mi proteggevano da tutto e da tutti e sicuramente avevano svolto lo stesso compito nei confronti delle antiche popolazioni.

-Alessandro, noi rientriamo a casa! Mi urlavano gli amici stanchi di aspettare, allontanandosi di corsa verso il paese. Solo allora mi destavo dai miei pensieri e li raggiungevo per continuare a giocare con loro a pallone lungo la strada.

Quello era il mio mondo o forse lo è ancora, ed io lo vivevo intensamente e senza preoccupazioni. Come era bello essere ragazzo!

Col tempo lasciai perdere il gioco ma continuai a visitare i nuraghi, alla ricerca di ricordi dell'antichità. Chissà quanti avevano abitato quelle torri, vi avevano vissuto e vi erano morti.

Ne visitai tantissimi, più e più volte, girando la Sardegna in lungo e in largo sempre alla ricerca di un punto di vista nuovo che mi permettesse di avvicinarmi maggiormente ai segreti che ai miei occhi, da chissà quanti millenni, essi custodivano.

Poi un giorno mi risvegliai cresciuto e a malincuore lasciai la mia terra per andare a studiare in Continente.

Era una cosa ancora molto frequente per noi sardi.

Arrivati ad una certa età l'isola sembra farsi stretta, troppo piccola per la voglia di scoprire il mondo, troppo povera per chi vuole costruirsi un futuro e una famiglia.

Così un giorno si acquista un biglietto di sola andata e ci si lascia dietro i parenti, il paese, gli amici, la ragazzetta e tutte le fantasie accumulate negli anni su quelle fantastiche costruzioni tronco coniche per partire alla ricerca di qualcosa che nella maggior parte dei casi non arriverà mai: un pizzico di fortuna!

Molti di questi giovani un giorno faranno ritorno nella loro terra, acquisteranno una casa in un paese di mille abitanti e vi passeranno gli ultimi anni della loro vita, spesso soli e dimenticati.

Ma non io, questa cosa non l'avevo mai messa tra le opzioni possibili. Io avrei fatto una vita diversa, mi sarei realizzato, sarei diventato un archeologo o giornalista (o forse scrittore) e sarei tornato in Sardegna di tanto in tanto per vedere i miei parenti nel piccolo paese di Gesico, nella Trexenta del Campidano, in provincia di Cagliari o a Isili per trovare gli amici e magari entrare ancora una volta nel nuraghe della mia gioventù.

Solo buoni propositi, forse sogni di un ragazzo la cui vita era ancora tutta da scrivere!

Partii per Milano dove avrei frequentato l'Università degli Studi, avrei seguito un percorso che mi consentisse di approfondire la storia, la mia materia preferita e le lingue antiche.

Avevo vinto una borsa di studio, l'impegno alle scuole superiori mi consentì di iscrivermi gratuitamente al primo anno di corso. Avevo diritto all'alloggio e alla mensa e con i risparmi che avevo messo da parte lavorando durante l'estate la vita non sarebbe stata male almeno per i primi tempi.

Comunque, arrivato a Milano mi resi conto che la vita era più cara di quanto potesse apparirmi da ragazzo, quando le spese sono sostenute dai genitori. Così, per cercare di vivere un po' meglio senza gravare sulle loro spalle mi trovai un lavoretto che mi portava via poco tempo e mi consentiva di studiare. Solo alcune ore al giorno ma andava bene così.

Appena arrivato all'università avevo notato un cartello appeso al cancello di un ricco condominio, “cercasi portiere”, diceva. Sembrava proprio il lavoro adatto a me. Mi presentai all'amministratore, un vecchio avvocato piegato in due dagli anni e con indosso un impeccabile completo nero d'altri tempi che mi interrogò come fossi stato un ragazzino delle elementari. Le domande vertevano sulle mie origini, la famiglia, la mia presenza a Milano e sul perché volevo lavorare. Risposi a tutto senza esitazione e così superai il colloquio. Cominciai a lavorare prima ancora di iniziare a frequentare i corsi all'università. Un vero colpo di fortuna!

Milano era una città caotica.

Passare da un paese di poco più di mille abitanti dove tutti si conoscono ad una metropoli di quelle dimensioni era stato scioccante ma mi abituai velocemente. Imparai subito a muovermi con la metropolitana e cominciai a girare a piedi per visitare i luoghi più suggestivi. La mia prima volta in centro fu indimenticabile.

Sbucai fuori dalla metroproprio ai piedi della Galleria Vittorio Emanuele II, che con il suo imponente Arco Trionfale ti fa sentire una formica! Che mente doveva essere il suo architetto, Giuseppe Mengoni; che abilità gli artisti che vi lasciarono la loro impronta a metà Ottocento. Impiegarono due anniper congiungere Piazza del Duomo e Piazza della Scala. Epoi finalmentel'inaugurazione alla presenza del Re! Il loro lavoro era tutt'ora ammirabile. Mi chiedo se oggi esistano ancora simili ingegni.

Ricordo che mi voltai d'istinto e sulla mia sinistra comparve il Duomo. Come descriverlo? Era una costruzione maestosa per le dimensioni e la ricchezza delle decorazioni. Restai senza parole e vi girai intorno con il naso all'insù rischiando in diverse occasioni di andare a sbattere contro alcuni turisti che come me ammiravano il duomo.

Appresi poi che la costruzione ebbe inizio nel 1386, come ricordava la targa della posa della prima pietra, su impulso dell'Arcivescovo Antonio de Saluzzi e del Duca della Città, Gian Galeazzo Visconti e terminò cinque secoli più tardi per volere di Napoleone. Più grande del Duomo di Milano c'era solo San Pietro, la Cattedrale di Siviglia eSaintPaul a Londra.

All'interno mi persi. L'oscurità del luogo mi intimoriva! O forse era lo spazio immenso che mi sovrastava a darmi le vertigini.

Le vetrate, enormi, stupende, lasciavano filtrare pochissima luce che rendeva appena apprezzabile la maestosità della costruzione e le opere che conteneva. Sopra il Duomo, protetta dalle guglie della Cattedrale, la Madonnina realizzata da Giuseppe Perego e messa in opera nel 1774, diventata simbolo di Milano.

Uscii dal Duomo impressionato dalle dimensioni e passeggiai a lungo per le vie attorno.

Una delle cose che notai subito fu l'immagine di un serpente che ingoia un bambino. La si trovava ovunque, dipinta o scolpita su stemmi in pietra nei grandi palazzi lungo le vie di Milano.

Cosa poteva significare, mi chiedevo? Era il simbolo del casato dei Visconti – scoprii poi – e simboleggiava potenza ed eternità della stirpe. Eraun simbolo particolare e inquietante che mi metteva a disagio.

Apoche centinaia di metri dall'uscita della galleria Vittorio Emanuele II si apriva piazza della Scala conal centro la statua dedicata a Leonardo da Vinci. Avevo sempre provato una grande ammirazione per il grande scienziato toscano e mi fermai qualche istante a riposare nella panchina ai suoi piedi.

Mi guardai attorno e cominciai a percorrere la strada che portava in direzione del Castello che si intravvede in lontananza, appartenuto prima ai Visconti e poi agli Sforza. Visitai il castello impressionato dalle dimensioni. Conoscevo bene l'immagine per averla vista tante volte impresso sul francobollo marroncino da dieci lire ma dal vivo era tutta un'altra cosa. Il castello più grande che avevo visitato in precedenza era quello di Sanluri ma non si poteva fare nessun paragone. Quella sera, al mio rientro in stanza, passai delle ore a studiare la guida di Milano che avevo acquistato la mattina per cercare di capire ciò che avevo visto e di conoscere la storia della città che mi avrebbe ospitato per i prossimi anni. Era tutto così grande intorno a me che i nuraghi in un attimo erano diventati minuscoli.

L'idea che tra loro e la Milano che mi circondava erano passati almeno tremila anni non mi passava minimamente per la mente.

Vai al capitolo II: Il viaggio

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


mercoledì 25 febbraio 2015

Siamo fatti di stelle, di Margherita Hack e Marco Morelli


Margherita Hack... un nome che mi porta indietro a quando, ancora ragazzino, guardavo i documentari di Piero Angela in TV. Non ricordo di preciso ma sono sicuro che fu in quegli anni, fine anni settanta o inizi anni ottanta che vidi per la prima volta quella donna con forte accento toscano e subito rimasi affascinato dal modo in cui raccontava l'Universo che ci circondava. 

E' da quegli anni che mi è rimasta la passione per l'Astronomia. 
Qualche tempo fa appresi della sua morte e mi resi conto che il tempo passa per tutti e anche quelli che uno considera punti fermi nella propria vita, prima o poi scompaiono.
Così quando alcuni mesi fa nel corso di una delle solite ma sempre piacevoli visite in libreria mi imbattei nel libro di Margherita senza pensarci su troppo lo acquistai. Margherita avrebbe continuato ad accompagnarmi, come fanno le stelle fisse nel cielo, dalla libreria di casa.
Il libro è scritto a quattro mani, con Marco Morelli, direttore del Museo di scienze planetarie di Prato.
I due autori sono a Trieste e seduti su una panchina di fronte al mare, in attesa di un ospite che non arriverà mai, si tuffano nei ricordi della vita di Margherita.
E' la storia di una vita fatta di successi e delusioni, di amore per la scienza e dispiacere per la situazione dell'Italia.
Margherita e Marco, con l'aiuto di Aldo, marito di Margherita, ripercorrono la vita fatta di tanti piccoli episodi con leggerezza, mettendo in evidenza le cose in cui margherita ha sempre creduto. Il libro non è una vera biografia, semmai è un libro di ricordi, condito dalle battute piccanti di una donna che oltre ad essere la più grande astrofisica italiana era anche una donna senza peli sulla lingua.
Mi piace ricordare solo un episodio del libro, quando Morelli parla delle tipologie di studenti universitari, "sono cinque gli studenti con la S maiuscola, i mezzi studenti, gli studenticchi, i paraculo e i quaquaraqua..."
Al termine della disamina Margherita chiede infine cosa si intenda per quaquaraqua, "I quaquaraqua sono quelli che parlano, parlano, parlano e non fanno nulla! [..] Si arrabattano tra la loro meschinità, l'ambizione di voler essere qualcuno e l'intima consapevolezza di non essere nessuno..."
E margherita sbottò: "Ma questi sono i nostri politici! Altro che gli studenti...

Libro veramente bello, pungente, toccante, da leggere tutto d'un fiato e conservare per sempre nella propria biblioteca...

Grande Margherita Hack e un grazie anche a Marco Morelli!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO