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venerdì 13 dicembre 2013

Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte quarta)

Proseguo la traduzione dell'articolo della Revue des deux mondes, del primo febbraio 1863: "Souvenirs de la Sardaigne" del Conte di Minerva.

Per chi non avesse letto i precedenti ecco i link ai precedenti:

- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte prima);
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte seconda).
- Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte terza).

Ricordi dell'isola di Sardegna
del Conte di Minerva
(Parte quarta)
 
Al momento del nostro arrivo, dei paesani della fattoria e alcuni pescatori facevano una frugale colazione all'ombra degli olivi. Dei cani da guardia arrivarono furiosi su di noi; si affrettarono a trattenerli. Il signor Feralli non era ancora alla fattoria, ma una elegante barca che avevamo appena intravvisto in direzione sud-ovest, verso la punta del giglio, sembrava essere la sua e si calcolava che non avrebbe tardato a toccar terra. In effetti ben presto si poterono distinguere due uomini e tre donne sotto la tenda che ricopriva la parte posteriore del bastimento. Gian-Gianu me li nominò. C'era il signor Feralli, la sua donna e la loro figlia Argenia; un amico del signor Feralli, zio di Gian-Gianu, lo zio Gambini, come lui lo chiamava, con sua figlia Efisia.
Quando la Feluca arrivò a non più di cento metri dalla riva buttarono giù le vele e i due uomini scesero su un canotto che li condusse sulla spiaggia, dove noi eravamo andati loro incontro.
Il signor Feralli a prima vista non aveva niente che colpisse. Il suo viso, osservato ugualmente con attenzione, non esprimeva altro che sincera bonomia, unita a una certa sagacità dovuta alla conoscenza umana e l'abitudine agli affari.
Il suo modo di essere era quello d'un ricco proprietario di campagna della Beauce o della Brie.
"Vi chiedo scusa signore", mi disse avvicinandosi velocementee tendendomi la mano. Avvisato troppo tardi, non ho potuto venirvi incontro fino a Porto Torres. Sono stato trattenuto ad Alghero per un affare urgente con il mio amico Gambini, e lui stesso è voluto venire a scusarsi di essere stato, in qualche modo, causa della mia mancanza di cortesia-
Mi girai verso il signor Gambini per salutarlo e la sua fisionomia (me lo lasciate dire?) mi diede una impressione poco favorevole.
Si poteva sentire una sorta di fierezza selvaggia mal contenuta. I suoi capelli, completamente ricci, erano un tutt'uno con la sua barba e nonostante la sua corporatura diritta e ben composta, la sua attitudine orgogliosa, i suoi gesti bruschi e nervosi, annunciavano un vigore praticamente giovanile.
Appresi più tardi che egli aveva quarantotto anni e che possedeva tutta una grande regione del Campidano, il monte Minerva. Discendeva dai conti dei quali questa montagna porta il nome e sembrava che lui personificasse tutte le loro passioni violente. Il Conte di Minerva, che chiameremo più familiarmente Gambini era, come Gian-Gianu, restato fedele al costume nazionale: aveva solamente sostituito il "collete" in pelle di cervo con un giustacuore di drappo nero e il berretto frigio con un grande cappello di feltro. Alla cintura, una specie di cartucciera a tubi allineati, era inserito un pugnale col manico d'ebano, incrostato di madreperla, sul quale era poggiata la sua mano, fine, secca e nera. Portava in bandoliera un bel fucile a due colpi.
Si era appena chinato, con gravità cerimoniosa, per rendermi il saluto quando si raddrizzò bruscamente mettendosi a correre verso la spiaggia. Un bambino che proveniva dalla fattoria con una galletta di mais in mano era alle prese con un enorme cane di montagna, il cane dello stesso Gambini, che aveva rotto la catena, lasciata la feluca e guadagnato la riva a seguito del suo padrone. Una volta a terra, il cane s'era gettato sul bambino e gli aveva strappato la galletta, non senza dilaniare una delle sue piccole povere mani. E' in quel momento che Gambini intervenne tra i due in lotta. Correre sul vincitore, che si accucciò terrorizzato, estrarre dalla sua gola schiumante la galletta per gettarla al bambino, lanciare quindi il cane in mare, quasi accoppato dai quattro o cinque pugni ricevuti, fu questione di qualche secondo; ma il cane non aveva intenzione di tornare sul vascello sul quale era stato recluso: si mise a nuotare in direzione d'una roccia vicino alla riva.
"Riccio! Riccio! gridava Gambini con voce allettante e rauca, correndo lungo la riva. Il cane nuotava ancora. Allora Gambini si fermò, afferrò velocemente il suo fucile e dopo un ultimo appello premette il grilletto. Il cane, colpito a morte, si rigirò su se stesso e cadde in acqua che presto divenne rossa del suo sangue. In quanto a Gambini, tornò verso di noi, e con tono calmo disse: "Scusatemi, questi cani sono così indisciplinati di natura."
Strano carattere, mi dissi tra me e me. In un momento di collera avrebbe potuto uccidere un uomo come ha ucciso il suo cane?
In acqua! in acqua! gridò tosto Gianu, che faceva avanzare il canotto. Noi vi discendemmo tutti assieme e qualche minuto dopo ci trovavamo a bordo della feluca. Il signor Feralli mi presentò alle signore. La moglie dell'armatore era genovese e la figlia lo era divenuta. L'una aveva ancora, l'altra aveva avuto, quel genere di bellezza esuberante propria delle donne genovesi. Il carattere saliente della loro fisionomia era una docile benevolenza. Entrambe erano vestite come le donne di ricchi commercianti di città. Il taglio dei loro abiti era improntato ai giornali di moda francesi e la cultura locale veniva rivelata nei loro abiti solo dal "pezzoto" di mussola che costituiva la loro cuffia. La signorina Gambini era una persona di tutt'altra originalità. Alta, svelta, con un viso d'un ovale affascinante e quasi infantile, aveva pertanto l'aspetto serio e quasi severo, una piccola bocca vermiglia con un filo di broncio, la fronte unita e leggermente stretta, occhi neri, calmi e profondi. Il suo costume era completamente diverso da quello del paese di Alghero: ricordava invece quella regione montagnosa e selvaggia dell'isola di Sardegna che si chiama campidano d'Oristano, il paese in cui era nata la madre e in cui lei stessa era stata cresciuta.
 
Ora però, chi è interessato dovrà attendere alla prossima puntata,
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


giovedì 12 dicembre 2013

Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte terza)

E' passato un po di tempo da quando ho pubblicato la seconda parte, vi chiedo scusa, proseguo ora la traduzione dell'articolo della Revue des deux mondes, del primo febbraio 1863: "Souvenirs de la Sardaigne" del Conte di Minerva.

Per chi non avesse letto i precedenti ecco i link ai precedenti:
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte prima);
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte seconda).


Ricordi dell'isola di Sardegna
del Conte di Minerva
(Parte Terza)
Questa campagna è la Nurra, che conserva ancora il suo soprannome primitivo di "terra dei pastori".
Prima di arrivare a Porto Conte, dovevamo scendere in questa vasta regione e attraversarla rapidamente. I nostri cavalli si sarebbero buttati al galoppo lungo un sentiero che fungeva da limite tra due alti splendidi pascoli (1). Non si sarebbero fermati che alla capanna situata sull'ultimo pendio della montagna, dove Gian-Gianu mi propose di entrare. Accettai l'offerta, certo che la sosta non sarebbe durata più di qualche istante.
La capanna era preceduta dall'"ovile"recinto riservato alle mandrie e formato da pali intrecciati con traverse. All'udire il rumore che annunciava il nostro arrivo, un giovane uomo coperto con una larga sopravveste in pelle d'agnello apparve sulla soglia. Dietro di lui arrivarono prontamente suo fratello e un vegliardo dall'aspetto fiero. Quest'ultimo mi strinse la mano così premurosamente, allo stesso tempo degno e cordiale, che ricordava veramente le età bibliche.
Venimmo invitati a passare un'ora in un "madao" o capanna dei pastori sardi. Entrammo.
L'abitazione, all'interno, era composta da un solo ambiente in cui il focolare, contornato da un cerchio di mattoni al centro del quale si elevava l'antico treppiede, occupava il centro. In quel momento nel focolare vi era acceso un gran fuoco e tanto fumo dentro la capanna, perché un foro obliquo praticato sul tetto offriva un'uscita di molto insufficiente al passaggio del fumo denso che riempiva il madao. I preparativi per la cena cominciarono sotto i nostri occhi: due spiedi reggevano l'uno due quarti d'agnello, l'altro le interiora dell'animale (uno dei cibi più ricercati della cucina sarda) furono esposti abilmente, dal padre e da uno dei figli, alla fiamma del focolare, mentre l'altro preparava la tavola.
Carlo Stefanoni, cui noi dovemmo questa rustica ospitalità, aveva quattro figli: possedeva quattrocento pecore e centoventi buoi. Egli era proprietario del "salto" di Dentolaccio e di due tancas su San-Govino.
Mentre ci dava questi dettagli i suoi ultimi figli, seguiti da due enormi cani, entrarono nella capanna e qualche istante dopo i due arrosti d'agnello fumavano tra un piatto di legumi ed uno di uova sode, sulla tavola di quercia, sulla quale erano state poste ancora, con una corbula piena di piccoli pani bianchi di forma bizzarra, una grande terrina contenente fianco a fianco delle salsicce e dei formaggi cagliati. Due vasi d'argilla somiglianti alle anfore antiche completavano il servizio, da una si poteva attingere dell'acqua fresca, dall'altra un vino denso, ma saporito.
La storia di questa onesta famiglia mi venne raccontata mentre facevamo onore all'arrosto d'agnello e alla cordula di interiora.
Il vegliardo si scusava, diceva lui, per non averci potuto ricevere come avrebbe voluto. Egli aveva perduto, ormai erano cinque anni, la sua povera figlia Maria: da allora lui diveva ricorrere alle figlie di Brangiu, il suo vicino, per impastare il pane e fare i formaggi; inoltre si attendeva di vedere uno dei suoi figli lasciare la famiglia prossimamente per andare a sposarsi. Tutte queste confidenze furono fatte senza amarezza.
Il pasto fu breve. Dopo l'espediente di Gian-Gianu, si sarebbe giunti a Porto-Conte in quattro ore, e sarebbe stato circa mezzogiorno. Nel giro di qualche istante prendemmo congedo dai nostri ospiti. Ad un segno del padre, due dei giovani pastori corsero in avanti e all'uscita del madao trovammo i nostri cavalli completamente sellati. Altri quattro cavalli erano pronti per i quattro fratelli che vollero scortarci fino ad un torrente vicino alla capanna. Tre ore dopo aver preso congedo da loro con una stretta di mano, così nobilmente ospitali, scoprimmo il mare immenso, d'un blu nerastro, tutto scintillante sotto il sole e coperto di piccole vele latine. Erano le barche dei pescatori di coralli sardi, toscani o anche napoletani, che in quel periodo dell'anno si davano appuntamento nel golfo deserto di Porto Conte e vi installavano per alcuni mesi la loro colonia errante. E' a Porto Conte, ci si ricordi, che dovevo incontrare il signor Feralli.
Nei pressi del golfo Gian-Gianu possedeva una piccola fattoria in cui sembrava impossibile entrare in altro modo che dalle finestre e qui egli ageva dato appuntamento all'armatore genovese.
Dovemmo arrampicarci per un pendio tra i più scoscesi, scendere una sorta di scala curva scavata nella roccia, impraticabile per dei cavalli diversi da quelli sardi, e ci trovammo all'ingresso di un cortile molto ingombrato e rustico. Ci trovavamo alla fattoria di Gian-Gianu e otto ore erano trascorse da quando avevamo lasciato Porto Torres.
Anche per oggi credo sia sufficiente, la prossima parte al più presto.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
Nota 1: I pascoli di pianura si chiamano "tancas", da una parola (senza dubbio celtica) che si ritrova presso i Pirenei e nella bassa Bretagna - tanca, chiudere.