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sabato 13 ottobre 2018

I sistemi d'arma statunitensi sono vulnerabili ad attacchi cyber? Così sembra secondo...

Se ci si limita a leggere le notizie sul cyber space (e relativi attacchi) si è portati a pensare che questi problemi siano tipici del mondo civile e che non hanno niente a che vedere con i sistemi d'arma degli stati più avanzati ma a ben guardare e rivolgendosi verso strutture informative più specifiche del mondo cyber, come per esempio il SANS Institute, si scopre che anche i sistemi d'arma statunitensi sono soggetti a vulnerabilità.
E' proprio nella newsletter del SANS institute che questa mattina ho letto del rapporto governativo US compitato dal "Governmental Accountability Office" per il Senato degli Stati Uniti dal titolo "Weapon System Cybersecurity, DOD just beginning to grapple with scale of vulnerabilities". 
Il report analizza le criticità del settore relativo agli armamenti e mette in evidenza le lacune di alcuni sistemi, soprattutto di quelli più vecchi realizzati quando ancora si avevano poche evidenze delle potenzialità di un cyber attack. 

Ma il fatto che un sistema sia di recente progettazione e realizzazione non mette al riparo da problemi di sicurezza. La complessità, l'interdipendenza da altri sistemi, la necessità di provvedere ad aggiornamenti funzionali e, talvolta, la scoperta di vulnerabilità legate ai software di base (è il caso dei sistemi operativi per esempio) costringe l'industria e la Difesa a riprendere più e più volte i sistemi per effettuare i correttivi del caso.
Il report è dunque un ottimo documento per capire quali sono i rischi cui un sistema d'arma moderno è soggetto e come si deve procede per evitare errori macroscopici partendo dal fatto che la "cybersecurity è il processo relativo alla protezione delle informazioni e dei sistemi informativi attraverso la prevenzione, l'individuazione e la risposta agli attacchi. La cybersecurity mira a ridurre la probabilità che un attaccante possa accedere ai sistemi del DoD e limitare i danni che esso potrebbe fare qualora riuscisse ad accedervi". 
Il report riporta alcuni potenziali effetti negativi che possono essere sfruttati da avversari dotati di capacità di cyber attack, contro sistemi d'arma in qualche modo dipendenti da software, dai più banali quali ad esempio la possibilità di accensione e spegnimento di un sistema d'arma o la modifica di un obiettivo di un missile fino a attacchi più elaborati come la modifica del corretto livello di ossigeno di un pilota di caccia.
Gli Stati Uniti hanno in programma investimenti per circa 1.600 miliardi di dollari per i prossimi anni e i rischi legati alle nuove tecnologie e alle potenziali vulnerabilità cyber sono considerati elevati.
Questo li ha spinti a mettere in piedi delle strutture e dei processi di controllo allo scopo di limitare i danni economici e il fallimento di progetti ma gli ha anche consentito di raccogliere dati sui software e sulle vulnerabilità presenti nei sistemi d'arma di valore inestimabile.
Ci si potrebbe domandare se qualche cosa di simile viene posta in essere negli altri paesi, per esempio nel nostro, dove gli investimenti sono naturalmente minori in quanto attagliati alle ambizioni e agli obiettivi da raggiungere ma, proprio per questo, molto più soggetti a pericolo di fallimento. 
Negli USA, se un progetto fallisce, è molto probabile che ve ne sia un altro con obiettivi simili che arrivi a buon fine, ma da noi (o più in generale nei paesi di piccola e media grandezza europei) il fallimento di un progetto di un sistema d'arma condurrebbe probabilmente alla mancata realizzazione di una capacità operativa con le conseguenze che è possibile immaginare.
Tutto ciò spinge a pensare che l'unica soluzione percorribile sia superare le distanze esistenti (e a volte create ad arte) tra i paesi europei e realizzare dei programmi comuni: l'alternativa è quella di restare legati a politiche delle grandi potenze e anche ai loro "dictat" in campo economico e di sviluppo dell'industria militare e delle nuove tecnologie. 

Alessandro RUGOLO

Per approfondire:


- https://www.sans.org/;
- https://www.gao.gov/assets/700/694913.pdf;

sabato 15 settembre 2018

Le lingue come elemento di unità nazionale

Immagine tratta da internet (1)
La lingua, come la storia, la religione, la cultura e le tradizioni, è uno dei fattori essenziali che costituiscono una nazione. E' tra tutti sicuramente uno dei più importanti in quanto, fu proprio la lingua a dare una marcia in più alla creazione di tutti gli stati che oggigiorno conosciamo. La Francia tra tutte le nazioni fu la prima a evidenziare uno spirito di unità nazionale legato al fatto che già agli inizi del Medio Evo si andavano a diffondere, in quello che allora era il territorio francese, due lingue, entrambe romanze: quella d'oc nel sud e quella d'oil nel nord. Fu proprio grazie a queste lingue e alla presenza di una classe sociale in grado di emergere rispetto alle altre ed esprimere pensieri e sentimenti, che ben resto in Provenza nacque la letteratura. Da questo punto si ebbe una marcia in più verso la creazione di una cultura letteraria che potesse raggruppare la popolazione francese, fino ad arrivare alla forte monarchia di Filippo II Augusto che darà effettivamente vita alla Francia.
Non si può dire lo stesso per l'Italia, che dovette aspettare molti secoli prima di veder nascere una lingua comune in grado di poter unificare il popolo della penisola. Sappiamo infatti che subito dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente la lingua più utilizzata nei territori dell'impero, il latino, pian piano scomparve, unendosi a dialetti e lingue preesistenti per formare le cosiddette lingue neolatine o romanze. L'italiano, appartiene a queste, anche se la formazione di questa lingua fu piuttosto complicata e si protrasse infatti secoli e secoli. Questo è dovuto certamente al fatto che dopo la caduta dell'Impero carolingio e delle innumerevoli battaglie di indipendenza, che alcune città italiane conducevano nei confronti del''imperatore del Sacro Romano Impero, si arrivò al punto in cui il territorio italiano che oggi conosciamo era dominato da grandi famiglie che gestivano piccoli stati come per esempio nel Meridione italico il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli che sarebbero divenuti poi il Regno delle due Sicilie; al Centro, i quattro giudicati sardi che sarebbero stati sconfitti dagli aragonesi e divenuti poi territori del Regno di Sardegna, lo Stato della Chiesa e altri piccoli territori autonomi; mentre nel Centro-Nord e Nord erano presenti le Repubbliche Marinare di Pisa, Genova e Venezia, la Repubblica di Firenze e di Siena, il Ducato di Savoia e di Milano e nella Romagna altre piccole entità statali.
Tutti questi stati possedevano ognuno la propria economia, il proprio sovrano o la propria classe dirigente e il proprio dialetto: erano praticamente uniti (oltre alla forza del loro signore) solamente dalla religione e perciò il loro unico punto in comune era Roma. Troviamo prove della mancanza di una lingua comune anche nelle opere di Petrarca, Boccaccio e in particolare di Dante che scrissero in latino e in volgare: una sorta di dialetto che variava a seconda del territorio. Di ciò abbiamo prove sicuramente nella famosa opera dantesca del “De vulgari eloquentia” prodotta dal Sommo Poeta tra il 1303 e il 1305. Si tratta di un trattato di retorica in cui Dante presenta le caratteristiche di un volgare che possa unificare tutti gli stati italiani sotto di esso. Per chi ha studiato quest'opera e la conosce sa che il volgare che il poeta ricerca nelle corti italiane non sarà mai trovato. L'italiano deriverà successivamente, in particolare dal volgare fiorentino, che fu a sua volta influenzato dai latinismi, francesismi e provenzalismi della Scuola Siciliana. Tuttavia sarà solo con la creazione del romanzo dei Promessi Sposi nel 1842 che Manzoni eleverà il fiorentino a modello nazionale linguistico.
In Germania accaddero fatti simili a quelli italiani: i confini tedeschi si consolidarono intorno al 1871 tuttavia sappiamo che anche in Germania erano presenti vari regni, ducati e altre tipologie di identità statali che avevano in comune un imperatore eletto tra tutte gli stati presenti nei territori del Sacro Romano Impero. C'è da dire, per quanto riguarda la lingua, che prima della formazione della lingua tedesca erano presenti tre differenti idiomi chiamati alto tedesco, basso tedesco e medio tedesco. Una svolta linguistica si ebbe tra il 1522 e il 1534 quando Martin Lutero decise di tradurre la Bibbia dal latino al tedesco, utilizzando proprio l'idioma medio-alto tedesco della regione della Sassonia. Indirizzò in questo modo tutta la popolazione della Germania a leggere e basarsi su un determinato tipo di tedesco. Fu proprio il tedesco usato da Lutero, che fino al 1800 era utilizzato solo in forma scritta e dalla pronuncia incerta, ad identificarsi poi con il mondo politico-culturale tedesco.
Questi sono solo tre grandi esempi di come la nascita di una lingua abbia come conseguenza la nascita di un senso di appartenenza di più persone in un unica comunità che porta alla creazione delle nazioni. 
E se si parlasse di un senso di appartenenza ad una comunità di più stati come l'Unione Europea? 
I ventotto stati dell'Unione si sentono uniti da un unica lingua nella quale tutti si possano esprimere? 
E' da segnalare il fatto che attualmente, dal Regolamento nº1 del 1958, si stabilisce che le lingue che la Comunità Europea può adottare come lingue ufficiali e di lavoro sono ventiquattro:
-bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese.
Tuttavia è da specificare il fatto che la Commissione Europea ha deciso di adottare come lingue procedurali solo tre tra quelle sopra elencate: l'inglese, il francese e il tedesco. Vale a dire le tre lingue più parlate, diffuse e studiate in tutta l'eurozona.
Secondo dei dati rilevati dall'Eurobarometro la lingua parlata come madrelingua più diffusa è il tedesco con il 24% della popolazione della zona euro, segue al secondo posto con il 16% il francese e con la stessa percentuale l'inglese e l'italiano. Tuttavia, ci si può immaginare che, la lingua parlata come lingua straniera più diffusa è l'inglese, parlato in questa categoria dal 31% della popolazione dell'UE. Perciò l'inglese viene parlato in totale dal 47% della popolazione dell'unione, scavalcando in questo modo il tedesco con una percentuale totale del 32%. Inoltre c'è da evidenziare il fatto che nella maggior parte delle scuole, e in particolare in Italia, la lingua straniera che viene privilegiata nell'insegnamento è sicuramente l'inglese, a seguire il francese e il tedesco. E' perciò piuttosto chiaro sotto quale lingua la popolazione dell'Unione Europea si potrebbe riconoscere un giorno, l'inglese potrebbe essere la lingua con la quale gli stati d'Europa potrebbero comunicare tra loro senza nessun problema. Dato che potrebbe essere considerato tutt'altro che utopico poiché già il 45% della popolazione della zona euro riesce a comunicare almeno utilizzando una lingua straniera.
Ma cosa accadrà con la Brexit?
E' possibile infatti che...


Filippo Schirru

(1) http://www.abbanews.eu/educazione-lavori-e-ricerca/lingue-era-digitale/