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sabato 23 febbraio 2008

Strategia - André Beaufre


In questi giorni sto cercando di approfondire nel tempo libero alcuni concetti... e per farlo, il viaggio in treno sulla linea Roma - Nettuno, quando trovo posto a sedere... mi fornisce l'occasione di leggere qualcosa!

In biblioteca (grazie ai bibliotecari...) ho trovato un bel volume in francese del "Centre d'études de politique étrangère, scritto dal Général Beaufre, dal titolo "Introduction a la strategie"...

Il volume, pubblicato nel 1963, mi é sembrato subito interessante e così, rispolverando le mie basilari conoscenze della lingua francese e grazie alla consulenza gratuita di un mio amico (che ringrazio...) mi trovo a procedere attraverso il pensiero dell'autore.

Il Generale Beaufre, nell'introduzione al volume, ci dice che il motivo dei grandi problemi avuti dalla Francia nella politica estera del '900 sono imputabili a suo modo di vedere all'ignoranza della strategia! Ma dice anche che non solo la Francia soffre di questo problema.

Infatti...

"Mais je pourrais tracer un tableau semblable, en noir ou en blanc, pour la Corée, Cuba, Berlin et l'OTAN. La conclusione qui pour moi s'impose, c'est que, pour une grand parte, l'ignorance de la stratégie nous a été fatale."


Ma cosa è la strategia per il Generale?

Beh, sempre nell'introduzione ci dice:

"C'est que en effet, on le verra, la stratégie ne doit pas etre une doctrine unique, mais une méthode de penseé permettant de classer et de hiérarchiser les événements, puis de choisir les procédés plus efficaces. A chaque situation correspond une stratégie particulièr; toute stratégies peut etre la meilleur dans l'une des conjonctures possibles et détestable dans d'autres conjonctures. C'est là la vérité essentielle."

Dunque la strategia non è un'unica dottrina ma un metodo di pensiero che consente di classificare e gerarchizzare gli avvenimenti, quindi di scegliere le procedure più efficaci per le situazioni specifiche...

Chissà cosa mi riserva il seguitò del libro?

Vi terrò informati, promesso!


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Il sogno preferito di quando eri bambina...

Una foto, un'immagine, un sogno...

Il sogno preferito di quando eri bambina... volare nel cielo, libero!
Guardare la Terra dall'alto...
inseguire l'aquila nel suo limpido mondo,
rincorrere i pensieri, gli amori...

E poi soffiare...
soffiare via il buio che ci separa!

E scoprire la realtà in una carezza...
che non volendo ha interrotto il sogno...
il sogno più bello di quando eri bambina.

Ora sei grande,
ma volare è comunque il tuo sogno...
ed anche il mio...

Ti amo...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 19 febbraio 2008

Influenza...

E' strano,
si invertono i ruoli,
solo per pochi giorni...
il tempo di guarire!

Dolori d'ossa, tosse, raffreddore...
Le pillole si sprecano
e spesso non servono ad altro che arricchire i farmacisti...
Sciroppi, soluzioni, pomate, antibiotici...
per uccidere qualcosa di cui non si sa niente...
neanche se si tratti di una forma vivente... virus!

Buio tiepido della stanza da letto,
the caldo al limone,
riso in bianco...
per cercare di ridare un po di forze a chi soffre.

Un po di compagnia
per allietare l'animo...
cercando di evitare il contagio
dell'influenza di stagione!

Uno starnuto, un'altro...
ecco, lo sapevo, è arrivata anche per me!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 17 febbraio 2008

Quante cose si possono fare nell'arco di una vità?

Hai mai provato a elencare le cose che ti piacerebbe fare?
Domanda facile, risposte banali... penso...
Eppure, pensandoci bene... quante cose si possono fare nell'arco di una vita?

Se dovessi rivolgere a me stesso la domanda, mi troverei in imbarazzo!
Tanto per cominciare, direi le cose che mi piacerebbe fare...
Vorrei fare lo scrittore... da grande!
Chissà...

E poi?
Beh, le cose che mi piace fare, bene o male, le faccio già!
Vorrei viaggiare, ecco, si... vorrei vedere il mondo con i miei occhi...
Ne ho trovate già due...
O solamente due, questione di punti di vista... bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, insomma!
Due... pensavo di più!
Viaggiare e scrivere...
si, credo che mi piacerebbe...
Ma ancora devo crescere... e così vado avanti a fare ciò che posso per cambiare il mondo...

Cambiare il mondo... e così siamo a tre!
Nient'altro?
Nessun'altra idea per il futuro?
Si potrebbe obiettare che "cambiare il mondo" potrebbe richiedere più di una vita...
Si, sono d'accordo, ma forse cambiare il mondo è più semplice di quanto si pensi...
Uno nasce e cambia il mondo dei suoi genitori, dei nonni, dei fratelli...
Vive e istante dopo istante cambia il mondo di chi gli stà affianco...
poi magari, nell'era di internet, uno si mette a scrivere le sue riflessioni su di un blog e cambia il mondo di chi lo legge, magari a tremila chilometri di distanza...
E così, con un colpo solo ho realizzato tutti i miei desideri...
Ho scritto, ho viaggiato... e ho cambiato il mondo!
Ed ora che faccio?!?
Un bel viaggio nel passato... magari, con un bel libro di storia tra le mani!

Alessandro Giovanni Paolo Rugolo

DA BAMBINO (Settembre 2000)

Da bambino ero affascinato da curiosi lampadari che ornavano i portici della piazza del mio quartiere. Roma è una città strana. Anzi esistono più città. La mia si chiamava e si chiama tuttora col nome di un santo piemontese. Don Bosco. I salesiani gestiscono l’oratorio, la scuola e la chiesa. Una chiesa costruita negli anni ‘50. L’architetto pensava a San Pietro ma vedeva l’EUR. Due braccia di portici come quelli del Brunelleschi ma non più ellittici, quadri. Come se il futuro rappresenti la quadratura della sfera. Per se stessa e per gli antichi perfetta. Per noi moderni troppo rotonda. Colonne a parallelepipedo. Finestre piccole e quadrate. Troppi occhi ciechi sull’abbandonato giardino di ghiaia. Una fontana neanche al centro, piena di carte e rifiuti. Sul bianco del granito una scritta nera. “ La nato non è un fiore”.
Non so dire se oggi quei lampioni ci siano ancora. Dalla finestra del primo piano che ospitava il coiffeur per signore dove si acconciava i capelli mia madre, guardavo l'asta lignea che reggeva una sorta di esaedro da cui scaturiva la luce. Avevo otto anni. Troppo piccolo per restare solo a casa, troppo grande per starmene lì buono a giocare, mentre le signore parlavano, parlavano. Dino era il parrucchiere. Mi piaceva, avrà avuto qualche anno meno di mia madre, giocava col nome, io per tutti ero Pino.
Adesso ha attraversato l’oceano e accompagna turisti a Santo Domingo.
Dal centro del mondo alla periferia dei nostri sogni.
Era così vicino che sembrava potessi toccarlo, solo fossi stato più grande. Qualche centimetro più alto. Era inutile protendere le braccia poiché risultavano sempre troppo corte per afferrare il lampadario.
E poi perché prenderlo? Forse per usarlo come uno strano trapezio da circo, per dondolarmi nell'aria del sottopotico.
Lo escludo, perché ho sempre sofferto delle altitudini ! Ancora adesso, i ponti guardando giù in basso, mi fanno star male. Ma un male atipico, che fa girare le budella, che da nausea, ma è controllabile, basta allontanarsi un poco dalla balaustra. E dà l'ebbrezza della sofferenza, della caducità.
Il sapore sconosciuto del suicidio. Parola magica e tabù. Chi ha saputo superare la barriera estrema dell'amor proprio. “Salvata da un pino" recitava il giornale della Sera. Mai viste conifere in periferia di Roma. Forse per il distratto giornalista di cronaca nera era meglio che la folle donna morisse e invece si ruppe solo le ossa principali, meschina! Trattenuta nel volo a cadere da un povero oleandro mezzo piegato. Eppure non erano bastati sei piani per mandare in frantumi quel corpo. Ma chi cura quell'anima fratturata ? Senza via di scampo...o scelta lucida. Non ho avuto possibilità di chiedergli la cosa più importante, la domanda che il frettoloso giornalista botanico non si è posta: dove stavi andando, volando o cadendo signora cinquantenne di un condominio popolare del mio quartiere-città?
Noi, che stiamo dall'altra parte a guardare attoniti, non sappiamo nemmeno immaginare il vuoto dentro e fuori. In ogni posto del mondo, c'è la morte. Lo so da quando ero bambino e gioivo silenzioso e incauto dietro qualche funerale di parenti. Poi l'uomo è maturato e quel cinismo innocente è diventato angoscia, tutte le volte ed ogni volta ancora. Quando la morte è passata, non so se soddisfatta del suo lavoro, ingrato. Chi prima e chi dopo. E noi ad insultare l'intelligenza e la vita stessa, col pianto. Ovunque ho visto la morte. Quegli occhi neri come buchi vuoti sfiorarmi o prendermi decisamente la mano senza vedermi.
Una stretta rapida e calda. E poi mi è rimasto il tiepido ricordo dell'inesistente. E noi ciechi a non vedere la vita, perché è questa la vertigine invisibile, l'unica giustificazione alla morte. La vita stessa che è necessaria, tanto veloce da non sentirne i passi, come un viaggio da solo, senza o con ritorno.
Adesso sto seduto su un treno e si fa notte. Non sono più bambino. Seguo ancora un attimo i fili paralleli dell'elettricità e il leggero nistagmo rappresenta un paesaggio sfocato, che non può appartenermi, visto nella velocità.
Il silenzio si impadronisce dei miei sensi, in mezzo a tanta gente. Qualcuno dorme e aspetta di arrivare , quell’altro per fretta parla di niente allo sconosciuto al suo fianco.
Solo un brusio di fondo del respiro, un mondo intero dalle dimensioni impossibili. Questo tacere è il preludio al suono magico della preveggenza. Così si allontana la vertigine di certi ricordi imbarazzanti, di certi cedimenti alla sconfitta. Non alla morte sorella, perché pur essendo ottimista, ammetto di essermi alla fine arreso alla vita.
Da bambino non ce l'ho fatta ad arrampicarmi a quel lampadario e volare. Sono rimasto coi piedi nelle scarpe, davanti al davanzale. La finestra socchiusa e lontano il via-vai delle strade della metropoli. La capitale del mondo. Così lontana eppure raggiungibile un tiepido giorno di maggio , prendendo un treno come questo. Siccome c'era troppo da sognare, da scrivere e da vivere.
Giuseppe MARCHI

giovedì 14 febbraio 2008

Tradizioni della Sardegna, la Sartiglia di Oristano

La sartiglia e il suo rituale traggono forza dalla maschera della sua figura principale: il "Cumponidori", e a quella maschera in tanti hanno dedicato anni di studio e proposto ipotesi sulla sua origine. Suggestiva, suffragata da studi storici e spirito di osservazione.
La domenica mattina, tentennanti (pioveva a dirotto) partiamo per Oristano. Al nostro arrivo come per incanto smette di piovere, il sole fà capolino, ci terrà compagnia per tutta la giornata. Lasciata la macchina, ci accodiamo al corteo del "Cumponidori" diretto verso la sede dove avverrà la sua vestizione. Il gruppo dei tamburini e trombettieri apre il corteo composto dalle "massaieddas" (le giovani ragazze vestite nel costume tradizionale oristanese, che portano sulle corbule gli abiti del Cumponidori), dalla" massaia manna" (la donna che dovrà sovrintendere al cerimoniale della vestizione), dai componenti del "GREMIO" (i contadini), che custodiscono le spade e gli stocchi per la corsa e dal Cumponidori. Una sala, penso, addobbata per l'occasione e gremita di gente, accoglie il corteo. Il cavaliere, tra gli applausi della folla e il rullo dei tamburi raggiunge quindi "sa mesita", il tavolo sul quale si compirà il rito. A partire da quel momento solo al rientro dalle corse, al termine della cerimonia di svestizione, potrà nuovamente scendere dal tavolo e quindi toccare suolo. Seduto sullo scanno il cavaliere indossa gli antichi abiti, aiutato dalle giovani ragazze. Sulla camicia viene indossato il "coietto", una giacca smanicata che termina a gonnellino a protezione delle gambe e che ricorda un antico indumento da lavoro, stretta da lacci di pelle sul petto del cavaliere che guida la corsa della domenica. La giacca è chiusa da borchie d'argento a forma di cuore. L'impiego delle fasce intorno alla fronte e sotto il mento prepara il viso ad accogliere la maschera. Un brindisi d'augurio e un ultimo saluto segna l'ormai imminente metamorfosi del cavaliere. Squilli di trombe e l'incessante rullo dei tamburi accompagnano la posa della maschera sul viso del cavaliere ormai trasfigurato in Cumponidori... Con la posa della misteriosa maschera il passaggio è avvenuto. Per tutti ora è su Cumponidori. La maschera impenetrabile color terra distingue il "cumponidori dei contadini". La maschera pallida ed impassibile è invece indossata dal "Cumponidori dei falegnami". Il posizionamento del velo ricamato e del cilindro sul capo avviano il cerimoniale alla conclusione. Il cilindro e il velo, rappresentano l'essenza delle divinità maschile e femminile... Ultima le operazioni la sistemazione di una camelia sul petto del Cumponidori: sarà rossa quella del capocorsa della domenica, rosea quella del Cumponidori del martedì... cessa in quel momento il tripudio di trombe e tamburi. Cessano gli applausi... In religioso silenzio un artiere introduce nella sala il cavallo del capo corsa che viene accompagnato sotto "sa mesitta". Dal tavolo su Cumponidori monta direttamente sul cavallo... In quel momento il presidente del "GREMIO" gli consegna "Sappia e maiu", il doppio mazzo di pervinche e viole mammole, simboleggiante la primavera che incalza. Con segni di benedizione, salutando, il Cumponidori si porta verso l'uscita... Nel piazzale lo accolgono i suoi due aiutanti di campo, tutti i cavalieri e una folla immensa festante. Il corteo si dirige alla volta del sagrato della cattedrale per dare inizio alla corsa della stella... Anche lì vari rituali, cerimonie, cavalieri al galoppo sfrenato per cercare d'infilzare la stella, posta a una certa altezza... poi per chiudere la giornata... le pariglie... acrobazie dei cavalieri sui cavalli lanciati al galoppo sfrenato... tutto molto bello e coinvolgente. La sartiglia è una giostra equestre che esiste da oltre 500 anni...
Per concludere, tra sacro e profano, colori, gente, zippole, pische de Oristano e vernaccia, è stata una giornata fantastica, che vale la pena di essere vissuta!




Paola e Gavino FADDA

lunedì 11 febbraio 2008

DIARIO DAL KOSOVO II 30 Giugno 1999

Alla finestra dell’Albania
Stanno milioni di bambini piccoli e sporchi
A salutare i cingolati dei vincitori
Come nei ricordi dei padri e delle madri
Come in certi vecchi e nuovi films
Le manine alzate le vocine acute
Gridate con una rabbia non fanciullesca
“italiani, ciocolata”
un po’ come gli americani mi sento
cinquant’anni dopo le stesse case bruciate
le stesse donne ai bordi delle strade
delle vie di sabbia e sassi
i negozi devastati i tetti sfondati.

Il dopoguerra coi carretti appena in piedi
A portare qualche frutto qualche verdura
Ma i visi della gente inspiegabilmente felici
Docile semplice apparenza
Nei dopoguerra!

Giuseppe MARCHI