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Esaminare
un fenomeno, per ogni ricercatore, costituisce un’occasione
eccezionale per studiare su vetrino dinamiche altrimenti solo
teoriche; la Turchia, con i casi analoghi che stanno interessando la
scena internazionale, è un unicum da laboratorio geopolitico da non
tralasciare. Geopolitica e geoeconomia si trovano intessute in
un’unica trama condizionandosi l’un l’altra, e coinvolgono
soggetti politici diversi e tra loro interagenti. La crisi economica
che sta sconvolgendo lo Stato Turco ha radici profonde, ed il
complesso sanzionatorio americano non ha fatto altro che acuire un
male già presente; di fatto, le sanzioni comminate dagli USA
rientrano in un quadro più ampio, dove assumono l’aspetto di
un’arma che concorre a portare un attacco ad un sistema economico
emergente ma dai piedi di argilla, bisognoso di finanziamenti in
valuta estera. Che l’economia fosse il grande
malato era
cosa nota anche ad Erdoğan, tanto da indurlo a formare un governo
tecnico capace di ispirare fiducia nei mercati; la variabile legata
all’ego del sultano,
tuttavia, ha contribuito a vanificare l’intento. La nomina
nepotista di Berat Albayrak, genero di Erdoğan, con incarico
congiunto tra Tesoro e Finanze, e l’inedita facoltà presidenziale
di intervenire sulla politica economica delegittimando l’indipendenza
della Banca Centrale, sono ambedue figlie di un imperialismo
confessionale neottomano, e hanno sortito un effetto destabilizzante
sulla credibilità dell’apparato economico statale, assimilato
dagli investitori ad un’impresa a carattere familiare priva di
garanzie. Erdoğan, assicuratosi il sostegno delle FF.AA., mai così
lontane dalla funzione di garanzia laica loro assegnata da Ataturk ed
impegnate nel Siraq, ha agito su due direttrici: all’interno ha
promesso di continuare a sostenere crediti agevolati ad imprese e
famiglie; all’estero ha confermato il suo intento di perseguire una
politica di potenza che, di fatto, già con gli incidenti diplomatici
con Israele, ha da tempo superato la dottrina della profondità
strategica di Davutoglu, e ha inaugurato una sorta di Erdoganesimo
assertivo e di rottura verso gli equilibri regionali consolidati.
Ambedue le iniziative presentano tuttavia una necessità
imprescindibile: la copertura finanziaria. La crisi economica
strutturale assume dunque valenza geopolitica, ed esalta
un’inflazione che vanifica la crescita del PIL; la classe media
imprenditoriale, arricchita da una politica monetaria espansiva, ha
garantito un fondamentale bacino di voti all’AKP, divenuto così
partito predominante. Il modello, basandosi sulla necessità di un
significativo afflusso di capitali esteri necessari al finanziamento
di opere infrastrutturali, ha però esposto il sistema a speculazioni
contrastabili solo con una valuta nazionale forte; il siluro delle
sanzioni USA, determinando una liquidazione improvvisa, ha aumentato
il costo del rifinanziamento, aggravato peraltro e dal deficit delle
partite correnti, dove l’import di beni e servizi supera l’export,
e dalla decisione di mantenere bassi i tassi di interesse con una
politica fiscale accomodante. Da considerare, inoltre, sia il non
aver previsto la fine del Quantitative Easing negli USA ed in zona
EU, cosa che sta inducendo gli investitori a spostare il focus dai
Paesi emergenti verso mercati più stabili anche se con rendimento
più basso dei titoli di stato, sia l’introduzione delle sanzioni
americane contro l’Iran, fondamentale fornitore energetico. In
sintesi: la tempesta perfetta dello speculatore, con gli esempi
dell’Argentina che, quale mercato emergente alla stregua turca, ha
dovuto fare ricorso all’impolitico FMI, del Sudafrica e della
Russia che hanno perso percentuali valutarie significative. Ecco che
le sanzioni diventano strumento di guerra asimmetrica, in un momento
in cui la ristrutturazione dei rapporti internazionali post guerra
fredda ha indotto la Turchia ad assumere una postura diversa a
livello regionale, con gli USA indispettiti dalla vicinanza di
Erdoğan
all’asse russo – iraniano sulla Siria, percepito come una
minaccia per gli alleati sauditi ed israeliani. La posizione
geografica, a cavallo di regioni strategiche e contigue (e capace di
permettere l’accesso nel Mediterraneo alla flotta russa) se da un
lato ha portato la Turchia ad aspirare ad un ruolo più centrale ed
assertivo, con aperture di politica estera destabilizzanti,
dall’altro ha persuaso gli USA a bloccare qualsiasi velleità
espansionistica regionale, a congelare la vendita degli F35, anche in
relazione all’acquisizione del sistema missilistico russo S-400 in
luogo del sistema italo francese Eurosam, ed a sostenere le forze
curdo siriane dello YPG. Al di là della retorica turca, la ricerca
di nuovi partner si inquadra in un tentativo di salvaguardare
l’interdipendenza economica ed energetica del paese, dove le
possibili exit
strategies
sono 4, e tutte impervie: prestito FMI con austerità, tagli e
percepito come un avvicinamento forzato al difficile contesto
occidentale e ad un allontanamento dal temporaneo alleato russo;
default selettivo; un’improbabile moratoria internazionale sul
debito; un nuovo gold
exchange standard,
agganciando la lira alle riserve auree, peraltro in calo nel corso
del mese di luglio. Con queste chiavi di lettura vanno interpretati i
passi intrapresi, sia in direzione franco – tedesca, con la
Germania timorosa e di un possibile contagio finanziario e di una
conseguente ondata migratoria alimentata dall’offensiva siriana su
Idlib, sia verso il Qatar, pronto a sostenere con prestiti ad hoc
l’economia anatolica. Ma è ipotizzabile un’uscita dal sistema
NATO a queste condizioni, vincolandosi ad una coalizione regionale
pur rimanendo tatticamente legati all’Occidente? Difficile, anche
perché la Russia rimane un avversario strategico anche se con
limitate disponibilità; perché gli altri Paesi del Golfo, ispirati
dall’Arabia Saudita difficilmente accorreranno in aiuto di Ankara;
perché la Cina è interessata al business, ma non ai risvolti
politici a carattere regionale che possano pregiudicare i suoi
interessi. Il diniego americano allo scambio tra Gülen,
l’imam avverso ad Erdoğan e residente ormai da tempo negli USA, ed
il pastore americano Brunson detenuto in Turchia, vale dunque la
crisi che le sanzioni su acciaio, alluminio e due ministri, hanno
peggiorato? L’Europa non può certo chiamarsi fuori dai giochi, sia
per l’esposizione finanziaria di importanti istituti di credito in
territorio turco, sia per il fatto che, previa dazione, Erdoğan
rimane il garante del contenimento dell’ondata migratoria da est,
sia perché l’Anatolia costituisce lo snodo energetico capace di
ridurre la dipendenza dalla Russia. È’ lecito quindi attendersi,
in mancanza di un accordo con gli USA, la presentazione a Bruxelles
di una nota
spese
rilevante, indirizzata a sfruttare l’inconsistenza geopolitica
europea. Insomma, le sanzioni comminate dagli USA, condizionano più
di un Paese; un’arma, senza dubbio, capace di influenzare
pesantemente gli equilibri globali; Russia, Iran, Turchia, tutti
compressi dall’imposizione di vincoli economici rilevanti, tutti
obbligati a dover fare comunque i conti con la valuta forte di
riferimento, il dollaro, malgrado i tentativi di sganciarsi dal
biglietto verde ricorrendo anche alla criptovaluta venezuelana, il
Petro,
potenzialmente valorizzato dall’estrazione del greggio ma di fatto
di scarso peso intrinseco e, soprattutto, già messo all’indice dal
Dipartimento di Stato USA; Paesi accomunati da crisi economiche
interne e da instabilità sociali che le sanzioni americane
potrebbero far ulteriormente detonare. La vera sanzione, di fatto, è
l’attacco contro la valuta turca, legittimato dalla sezione 232
della legge commerciale USA. Turchia dunque in sofferenza
finanziaria; e gli USA? I ritorni del regime sanzionatorio in termini
finanziari hanno sicuramente la loro importanza, ma quel che più
interessa sono i risvolti geopolitici. Gli americani, nel loro
relativo disimpegno dal Medio Oriente e con uno strumento asimmetrico, hanno
colpito un alleato riluttante con un’azione ad effetto domino sia
sulla finanza europea, sia su quella iraniana e quella russa, già
provate dai provvedimenti relativi al JCPOA (1) ed alla perdurante
querelle ucraina. Il richiamo alla Turchia, da un lato, nel voler
ammorbidire le posizioni di Erdoğan,
ha inteso rammentare come il declino dell’egemonia USA è ancora di
là da venire, e dall’altro ha voluto dare un ulteriore warning
anche all’Iran: le proiezioni di potenza regionali non sono state
date in appalto a nessuno: nulla può essere accettato o imposto,
finanche si tratti dello scambio di semplici “ostaggi”.
Fondamentale, in questa azione, sarà riuscire, per gli americani, a
non prostrare definitivamente i Paesi sanzionati, correndo il rischio
di creare pericolosi vuoti di potere, per i turchi, riuscire a
discernere in tempo qual è la strada di una possibile
sopravvivenza.
Gino Lanzara
(1) Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) è l'accordo raggiunto tra Iran e il gruppo dei 5+1 (Cina, France, Germany, Russia, the United Kingdom, and the United States), il 14 luglio 2015.
(1) Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) è l'accordo raggiunto tra Iran e il gruppo dei 5+1 (Cina, France, Germany, Russia, the United Kingdom, and the United States), il 14 luglio 2015.