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lunedì 22 ottobre 2007

ENIGMA (1989)

L’enigma è come facciano
A nuotare le stelle:
ma poi le domande
finiscono per rispondere
e le stelle mi accontento
di guardarle
senza capire.

Giuseppe MARCHI
(Differenze. Cultura Duemila Editrice 1992)

domenica 21 ottobre 2007

L'importanza strategica della lingua...

In questi ultimi anni ho sempre cercato di migliorare la conoscenza delle lingue straniere, in particolare della lingua inglese, un po per necessità un po per sete di conoscenza.
Eppure mentre leggevo un articolo in inglese o un libro di informatica o ancora una presentazione della NATO, pensavo all'importanza strategica per una nazione di una lingua forte e avente rilevanza a livello internazionale.
Nei secoli diverse lingue si sono alternate nel ruolo di lingua franca, il greco prima, il latino poi ed ora l'inglese. Il futuro potrebbe essere dello spagnolo o del cinese oppure... perchè no, dell'italiano!
Ma perchè è così importante avere una lingua forte e internazionale? I motivi sono tanti, economici, politici e strategici.
Cerchiamo di analizzare la situazione italiana e quindi della lingua italiana, in particolare nei confronti della lingua internazionale per eccellenza, l'inglese.
Chi ha frequentato l'università negli ultimi dieci anni in una facoltà scientifica si è potuto rendere conto della sudditanza culturale cui l'Italia è assoggettata. I libri di testo sono quasi sempre in lingua inglese come, peraltro, gli articoli delle riviste tecniche o i siti internet.
L'Unione Europea, in teoria, riconosce l'uguaglianza delle lingue ufficiali dei paesi membri ma è solo apparenza. La realtà è diversa. Nel tempo si è andato affermando il principio di “lingua di lavoro” - l'inglese - e poi si è passati a “lingue di lavoro” - inglese, francese e tedesco – le altre lingue non vengono utilizzate se non raramente.
In questa condizione si trovano, per essere chiari anche altre nazioni europee, la Spagna, il portogallo, la grecia, la Francia e la Germania per citarne solo alcune, anche se non per tutti il problema è della stessa gravità...
Vi va di parlarne?
Anche su Facebook...
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Dieci parole...

Acqua...
Avevamo tutti una sete del diavolo, dopo la corsa a cavallo sotto il sole, sulle sabbie dorate di Alghero...
Se ci avesse visto qualcuno ci avrebbe potuto scambiare per "bandidos", quelli messicani che rubavano cavalli nei fumetti di Tex Willer e poi finivano impiccati ad un ramo di un albero!
E invece eravamo ragazzi di buona famiglia, allevati a base di caffellatte e crostata di mele della nonna...
La casa era proprio sulla spiaggia, vicino al fiume... un tempo era un fiume, ora era diventato un rigagnolo e l'acqua aveva cambiato colore...
Un tempo nonna mi mandava a prendere l'acqua in quel fiume, la usava per impastare la farina per il pane... Ricordo come fosse ieri quei giorni felici, quei sapori, quegli odori...
Ricordo quel profumo di pane caldo e poi l'aroma delle formaggelle...
Gioventù passata... gioventù tutt'altro che bruciata!
Ora, è cambiato tutto... mare... montagna... il mondo è solo l'immagine sbiadita del "mio mondo", quello dei ricordi...
Il mondo di allora, purtroppo, è scomparso... sconvolto in ogni sua parte cerca di sopravvivere all'Uomo... distruggendolo!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 20 ottobre 2007

Da bambino

Da bambino ero affascinato da curiosi lampadari che ornavano i portici della piazza del mio quartiere. Roma è una città strana. Anzi esistono più città. La mia si chiamava e si chiama tuttora col nome di un santo piemontese. Don Bosco. I salesiani gestiscono l’oratorio, la scuola e la chiesa. Una chiesa costruita negli anni ‘50. L’architetto pensava a San Pietro ma vedeva l’EUR. Due braccia di portici come quelli del Brunelleschi ma non più ellittici, quadri. Come se il futuro rappresenti la quadratura della sfera. Per se stessa e per gli antichi perfetta. Per noi moderni troppo rotonda. Colonne a parallelepipedo. Finestre piccole e quadrate. Troppi occhi ciechi sull’abbandonato giardino di ghiaia. Una fontana neanche al centro, piena di carte e rifiuti. Sul bianco del granito una scritta nera. “ La nato non è un fiore”.
Non so dire se oggi quei lampioni ci siano ancora. Dalla finestra del primo piano che ospitava il coiffeur per signore dove si acconciava i capelli mia madre, guardavo l'asta lignea che reggeva una sorta di esaedro da cui scaturiva la luce. Avevo otto anni. Troppo piccolo per restare solo a casa, troppo grande per starmene lì buono a giocare, mentre le signore parlavano, parlavano. Dino era il parrucchiere. Mi piaceva, avrà avuto qualche anno meno di mia madre, giocava col nome, io per tutti ero Pino.
Adesso ha attraversato l’oceano e accompagna turisti a Santo Domingo.
Dal centro del mondo alla periferia dei nostri sogni.
Era così vicino che sembrava potessi toccarlo, solo fossi stato più grande. Qualche centimetro più alto. Era inutile protendere le braccia poiché risultavano sempre troppo corte per afferrare il lampadario.
E poi perché prenderlo? Forse per usarlo come uno strano trapezio da circo, per dondolarmi nell'aria del sottoportico.
Lo escludo, perché ho sempre sofferto delle altitudini ! Ancora adesso, i ponti guardando giù in basso, mi fanno star male. Ma un male atipico, che fa girare le budella, che da nausea, ma è controllabile, basta allontanarsi un poco dalla balaustra. E dà l'ebbrezza della sofferenza, della caducità.
Il sapore sconosciuto del suicidio. Parola magica e tabù. Chi ha saputo superare la barriera estrema dell'amor proprio. “Salvata da un pino" recitava il giornale della Sera. Mai viste conifere in periferia di Roma. Forse per il distratto giornalista di cronaca nera era meglio che la folle donna morisse e invece si ruppe solo le ossa principali, meschina! Trattenuta nel volo a cadere da un povero oleandro mezzo piegato. Eppure non erano bastati sei piani per mandare in frantumi quel corpo. Ma chi cura quell'anima fratturata ? Senza via di scampo...o scelta lucida. Non ho avuto possibilità di chiedergli la cosa più importante, la domanda che il frettoloso giornalista botanico non si è posta: dove stavi andando, volando o cadendo signora cinquantenne di un condominio popolare del mio quartiere-città?
Noi, che stiamo dall'altra parte a guardare attoniti, non sappiamo nemmeno immaginare il vuoto dentro e fuori. In ogni posto del mondo, c'è la morte. Lo so da quando ero bambino e gioivo silenzioso e incauto dietro qualche funerale di parenti. Poi l'uomo è maturato e quel cinismo innocente è diventato angoscia, tutte le volte ed ogni volta ancora. Quando la morte è passata, non so se soddisfatta del suo lavoro, ingrato. Chi prima e chi dopo. E noi ad insultare l'intelligenza e la vita stessa, col pianto. Ovunque ho visto la morte. Quegli occhi neri come buchi vuoti sfiorarmi o prendermi decisamente la mano senza vedermi.
Una stretta rapida e calda. E poi mi è rimasto il tiepido ricordo dell'inesistente. E noi ciechi a non vedere la vita, perché è questa la vertigine invisibile, l'unica giustificazione alla morte. La vita stessa che è necessaria, tanto veloce da non sentirne i passi, come un viaggio da solo, senza o con ritorno.
Adesso sto seduto su un treno e si fa notte. Non sono più bambino. Seguo ancora un attimo i fili paralleli dell'elettricità e il leggero nistagmo rappresenta un paesaggio sfocato, che non può appartenermi, visto nella velocità.
Il silenzio si impadronisce dei miei sensi, in mezzo a tanta gente. Qualcuno dorme e aspetta di arrivare , quell’altro per fretta parla di niente allo sconosciuto al suo fianco.
Solo un brusio di fondo del respiro, un mondo intero dalle dimensioni impossibili. Questo tacere è il preludio al suono magico della preveggenza. Così si allontana la vertigine di certi ricordi imbarazzanti, di certi cedimenti alla sconfitta. Non alla morte sorella, perché pur essendo ottimista, ammetto di essermi alla fine arreso alla vita.
Da bambino non ce l'ho fatta ad arrampicarmi a quel lampadario e volare. Sono rimasto coi piedi nelle scarpe, davanti al davanzale. La finestra socchiusa e lontano il via-vai delle strade della metropoli. La capitale del mondo. Così lontana eppure raggiungibile un tiepido giorno di maggio , prendendo un treno come questo. Siccome c'era troppo da sognare, da scrivere e da vivere.
 
Giuseppe Marchi

GILGAMESH, la storia del ritrovamento.

Come ho già accennato, Gilgamesh è il protagonista di un poema epico della Mesopotamia, il personaggio è probabilmente esistito realmente come re sumerico.
Il mito di Gilgamesh emerge dal passato solo nel XIX° secolo ed è strettamente legata alle vicende di un inglese (Austen Henry Layard) che durante un viaggio si fermò in Mesopotamia e iniziò gli scavi che condussero al ritrovamento di due antichissime città: Ninive e Nimrod. In quella occasione fu ritrovata una immensa biblioteca di tavolette in scrittura cuneiforme... era la biblioteca di Ninive.
Grazie alla scoperta di una iscrizione conosciuta come "Le Gesta di Dario", ad opera di Henry Rawlins, un Ufficiale dell'Esercito britannico, che riportava lo stesso testo in lingua persiana, elamitica e babilonese, fu possibile tradurre buona parte delle tavolette provenienti da Ninive e non solo. Tra le varie cose ritrovate e tradotte da George Smith, una tavoletta riportava delle notizie del "Diluvio", fino ad allora presente solo nella Bibbia. Fu proprio questo ad eccitare gli animi e ad infondere nuova forza nei ricercatori e nei traduttori...
Qualche anno dopo i tedeschi compirono degli scavi nella zona e riportarono alla luce le rovine dell'antica città di Uruk unitamente ad un buon numero di tavolette...
L'Università della Pennsylvania alla fine dell'ottocento si occupò degli scavi di Nippur riuscendo a raccogliere circa 40.000 tavolette finite negli archivi di vari musei.
Le tavolette contenenti parti del testo della saga di Gilgamesh sono distribuite ormai sul mondo intero e probabilmente non tutte sono state ancora identificate e magari si trovano negli archivi di qualche museo... in ogni caso molto è stato fatto e il racconto è abbastanza chiaro.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

La preistoria dell'Egitto

Sino al VII, VI millennio a.C. un clima umido e caldo con una lussureggiante vegetazione subtropicale, caratterizzava l’Egitto. Le zone ricoperte da boschi e le colline (ora desertificate) erano terreno di caccia. Ci vollero millenni prima che il Nilo originariamente a clima torrentizio, scavasse il suo letto portando benefici al suolo egizio. Le vallate a lungo furono completamente inospitali, costellate di lagune e malsane paludi.
Poche sono le testimonianze dell’età paleolitica.
Reperti più abbondanti relativi alla fase mesolitica, si trovano a Helwan, Kom Ombo e nell’oasi di Laqeita, periodo che corrisponde anche ad un cambiamento di clima divenuto più asciutto. L’altopiano del Sahara, ormai inabitabile tranne che per poche oasi, spinse le popolazioni verso la valle del Nilo, che lentamente aveva assunto l’aspetto attuale. Ritrovamenti nelle zone di Merimda, Beni Salama e nella zona del Faiyum, mostrano che l’economia durante l’età neolitica, era basata sull’allevamento e sull’agricoltura e le tombe avevano un’abbondante corredo funebre, amuleti e oggetti ornamentali.
Allo stesso periodo risalgono ceramiche lavorate, lance, asce levigate e frecce.
Solitamente si usa dividere l’eneolitico egiziano in tre grandi fasi.
- La civiltà di Badari che, basata sull’economia agricola e pastorale era caratterizzata dalla presenza di utensili di pietra, d’osso, di conchiglia, di rame e da ceramiche. Le necropoli in cui sono state ritrovate statuine femminili, vasi e tavolozze sorgevano lontano dai villaggi.
- Il periodo di Naqada I in cui sono evidenziate non soltanto influenze nubiane, ma anche asiatiche. Alcune raffigurazioni di cane testimonierebbero il culto di Seth, appaiono i primi sarcofagi e come nell’epoca faraonica, nell’Alto Egitto i morti sono sepolti con la testa a oriente.
- Il periodo di Naqada II dove è sempre più frequente l’uso del rame cui si aggiunge l’argento. Dagli elementi iconografici di origine mesopotamica su oggetti egizi si potrebbe supporre invasioni nella valle del Nilo di popolazioni asiatiche.

Sabrina BOLOGNI

venerdì 19 ottobre 2007

Parkinson's second law...

Mi piacerebbe spendere alcune parole sul libro che sto leggendo...

"Parkinson's second law, like the first, is a matter of everyday experience, manifest as soon as it is stated, as obvious as it is simple.
When the individual has a rise in salary, he and his wife are prone to decide how the additional income is to be spent [..]
The extra salary is silently absorbed, leaving the family barely in credit and often, in fact, with a deficit which has actually increased."

Beh, Mr. Parkinson ha detto una grande verità!
Non pensate?

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO