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giovedì 4 dicembre 2008

Storia della comunità ebraica di Ferrara

La presenza di una cospicua comunità ebraica contribuì in modo rilevante allo sviluppo della città di Ferrara che, divenuta nel 1267 signoria degli Estensi, fu uno dei principali centri culturali, economici ed artistici del Rinascimento. Le prime notizie certe riguardanti gli ebrei di Ferrara risalgono al 1275, anno in cui il podestà di Ferrara, Obizzo D’Este, conferì loro immunità e protezione, in virtù della loro utilità per la città.
Nei secoli successivi, con il rafforzarsi della signoria degli Estensi, la situazione degli ebrei andò facendosi sempre più florida, non solo per merito dei banchi di credito. Tra il 1400 e il 1500, prima sotto il duca Borso e più tardi sotto Ercole I, D’Este vennero benevolmente accolti in città ebrei profughi provenienti dalla Spagna, dal Portogallo e, sotto Ercole II, anche dall’Europa orientale. Ferrara divenne in quegli anni un crogiolo di varie culture e il livello sociale, finanziario e culturale fu altissimo. La situazione favorevole nei riguardi degli ebrei si deteriorò nel 1597 quando, morto il duca Alfonso senza eredi maschi, Ferrara passò al papato. Iniziò cosi un’epoca di mortificazioni e nel 1627 gli ebrei vennero rinchiusi nel ghetto.
Il vocabolo "ghetto" deriva dal nome comunemente usato a Venezia per indicare l’area urbana della città ad uso esclusivo delle famiglie israelite.
A Ferrara l’area del ghetto comprendeva la zona tra via Mazzini, chiamata anticamente via dei Sabbioni, perché sorta sul letto prosciugato di un corso d’acqua, via Vignatagliata e via della Vittoria. Questa zona venne chiusa da cinque cancelli tra il 1624 e il 1627 e designata come l’unico spazio concesso agli ebrei residenti nella Ferrara dell’epoca. Con tale provvedimento anche Ferrara si allineava alla politica papale vigente che aveva l’obiettivo di limitare l’unione tra le famiglie ebraiche e quelle cattoliche chiudendo le vie già abitate per la maggior parte da famiglie ebraiche e consentendo loro libera circolazione in città solo nelle ore diurne dall’alba al tramonto. Nel ghetto, spesso vittime di angherie e pressioni, gli ebrei rimasero fino alla fine del potere temporale, con due brevi parentesi di libertà: la prima in corrispondenza dell’epoca napoleonica, quando l’editto emanato l’8 settembre 1796 dal commissario del Direttorio esecutivo Salicetti decretò che "gli ebrei di Ferrara ci goderanno i medesimi diritti che gli altri cittadini di questa Legislazione"; la seconda nel 1848. I cancelli vennero abbattuti definitivamente nel 1859. Da quell’anno, pur avendo trascorso due secoli e mezzo nel ghetto, gli ebrei ferraresi si integrarono rapidamente nella comunità cittadina, a tutti i livelli e in tutti i settori. Le restrizioni a cui erano stati sottoposti avevano lasciato in essi un forte desiderio represso di assimilazione: per certi versi gli ebrei di Ferrara erano più ferraresi dei concittadini cattolici. Il loro dialetto ricalcava in larga misura il dialetto ferrarese del Rinascimento; infatti a causa del totale isolamento, gli ebrei quando uscirono dal ghetto parlavano più o meno la stessa lingua di quando vi erano stati rinchiusi. L'avvento del fascismo non interruppe il processo di integrazione, infatti all’ inizio del fascismo, molti ricchi ebrei ferraresi, erano attivi sostenitori, mentre gli antifascisti (sia ebrei che non ) furono esiliati e gli fu tolta la possibilità di lavorare.


Storia del mio prozio che diventò ebreo per amore.

Nel 1938 iniziarono le discriminazioni razziali. Mio Zio classe 1910 aveva 28 anni , si chiama Ermenegildo Sigismondo Ghetti attualmente vive in Brasile, esattamente a Florianopoli, nello stato di Santa Caterina nelle vicinanze di S.Paolo. In questo momento e’ un arzillo vecchietto di 98 anni ancora molto in gamba, si vanta di seguire l’ azienda di famiglia insieme ai figli, e parla correntemente 3 lingue. Con l’ aiuto di mia zia, gli ho fatto un intervista tramite MSN e lui mi ha risposto in modo preciso e scientifico, perché certi avvenimenti sono scolpiti in modo indelebile nella sua mente e tuttora viene chiamato a tenere conferenze per non dimenticare le tragedie della seconda guerra mondiale.

Allora zio come stai?

Devo fare una relazione sulla Comunità ebraica di Ferrara e credo che tu possa essere il diretto testimone di molti fatti accaduti dal 1938 in poi, a seguito delle leggi razziali, raccontami la tua storia e gli avvenimenti di quel periodo.

Ciao piccola Greta, io sto bene, qui c’è un bellissimo sole e un mare stupendo! Tutte le mattine quando apro la finestra della mia camera vedo i gabbiani e il sole che sorge e mi infonde molta tranquillità a parziale ricompensa di tutto quello che ho dovuto patire nella mia giovinezza!. Ma andiamo con ordine: Sono nato il 14 Dicembre 1910 (festeggiamo il compleanno lo stesso giorno! Spero che per il prossimo compleanno tu possa essere qui cosi’ lo festeggiamo insieme !) a Ferrara, da una famiglia cattolica, eravamo 7 figli ed io sono il terzo di 4 maschi e 3 femmine. Io ero la pecora nera della famiglia , infatti frequentai il Liceo Classico a Ferrara e successivamente mi iscrissi alla facoltà di Economia e Commercio a Bologna dove mi laureai brillantemente a 23 anni! I guai per me iniziarono all’ eta’ di 17 anni quando mi innamorai di Anna Levi la mia futura moglie, ma di origine e famiglia ebraica. Le nostre famiglie osteggiarono la nostra storia d’ amore perché di religione diverse, inoltre il padre di Anna voleva che la figlia sposasse un ricco Avvocato Ferrarese. Noi eravamo innamorati e alla minaccia della figlia di scappare di casa, il padre concesse a Anna di frequentarmi e in futuro (dopo la laurea di entrambi) di sposarmi, ma a una condizione: Io dovevo convertirmi alla religione ebraica! . Per me non e’ stato un problema io amavo Anna ma per i miei genitori fu un grosso trauma, ma alla fine capirono e accettarono la mia scelta. Ci sposammo all’ eta’ di 25 anni dopo la laurea di entrambi e andammo a vivere vicino ai genitori di lei in via Vignatagliata in una casa di proprietà della famiglia Levi. Io lavoravo presso uno studio commerciale mentre Anna, laureata in giurisprudenza (evento molto raro in quegli anni ) insegnava alle scuole superiori. In quegli anni si cominciava ad avvertire il clima pesante: Mio suocero era un convinto antifascista e già all’ epoca svolgeva un’attività antifascista clandestina , era anche amico di Italo Balbo al quale era legato da amicizia decennale nata molti anni prima e che andava oltre le ideologie politiche. Balbo aveva assicurato a mio suocero che Mussolini non avrebbe mai introdotto le leggi razziali in quanto all’ interno del partito vi erano forti opposizioni e inoltre Mussolini stesso godeva dell’ appoggio di molti ebrei.

Che cosa avvenne in quel periodo?

Nel 1938, Mussolini per compiacere all’ alleato tedesco, introdusse le leggi razziali, ovvero una serie di provvedimenti che limitavano gravemente i diritti e la dignità degli ebrei , si arrivò alla proibizione dei matrimoni misti, (fortunatamente con Anna io ero già sposato) vennero espulsi gli ebrei dalle forze armate, dalle industrie, dai commerci, dalle professioni, dagli enti pubblici. Si pose un limite alle proprietà immobiliari, si diminuì la capacità nel campo testamentario, in materia di patria potestà, di adozione, di tutela e di affiliazione. Io e mia moglie perdemmo il lavoro, fummo cacciati in modo ignobile dallo studio e dalla scuola, e in casa nostra iniziarono le perquisizioni quasi giornaliere alla ricerca di prove dell’ attività antifascista. Ai miei suoceri e a noi fu requisito il palazzo in cui vivevano. In quel periodo vivevamo in dieci nello stesso luogo sotto continue torture psicologiche. Tuttavia per permettere ai bambini e ai ragazzi ebrei di andare a scuola e di continuare gli studi fu istituito in Via Vignatagliata una scuola ed io e mia moglie insegnavamo li. Alcune autorità erano contrarie, non volevano che gli ebrei avessero l’opportunità di studiare, altri credevano che fosse una cosa positiva radunare tutti gli ebrei nella scuola, così si potevano controllare meglio. Gli insegnanti erano tutti ebrei: mia moglie ed io insegnavamo italiano . Io davo anche lezioni “clandestine “ di inglese. Noi, tutto sommato eravamo fortunati, perché lo zio di mia moglie era cieco e invalido di guerra (1915-1918) e quindi avevamo diritto a tenere, la radio e la televisione cosa che agli altri era proibita. Tra di noi ci consolavamo e aspettavamo che la guerra finisse. Non sapevamo cosa sarebbe poi capitato, al massimo credevamo che ci avrebbero portato nei campi di lavoro o di concentramento, ma tutti insieme. D’altronde dicevamo: "siamo tutti uguali." e lo zio ha una medaglia d’argento, tuttavia si avvertiva il pericolo perché io all’ epoca coordinavo la resistenza antifascista mantenendo i collegamenti con Bologna per mezzo di mio fratello che lui aveva libertà di movimento. Poi avvenne un avvenimento che di colpo spezzo’ la nostra vita.

Ovvero che cosa successe?

A Verona, il 14-15 novembre del 1943 ci fu un grosso convegno fascista e il federale fascista di Ferrara, Ghisellini, partì in macchina per andare a questo convegno, ma fu ammazzato. Non si sapeva se fossero stati gli stessi fascisti o i partigiani: fatto sta che quando tale notizia arrivò a Verona, molti fascisti partirono per Ferrara per punire gli antifascisti ebrei e c’è stata una lunga notte di strage ; Diffusa la notizia di tale assassinio, le squadracce di Verona e di Padova giunsero a Ferrara verso le 20 attraversando in camion le vie deserte del centro. In poche ore i fascisti strapparono dalle case settantaquattro persone, appartenenti a tutti i ceti sociali, metà delle quali ebrei e l’altra metà sospettate di essere antifascisti. In quella maledetta notte fui arrestato sotto gli occhi atterriti di mia moglie e gli strilli di paura di nostro figlio Mauro di due anni, e insieme a me anche mio suocero e lo zio cieco . Ricordo come oggi che uno dei militari disse “ Fai stare zitto il bambino o lo ammazzo!” Anna si paro’ davanti a Mauro e fortunatamente quell’ uomo fu richiamato da un altro !. Il giorno seguente a questa tragica notte mentre mia moglie camminava per la città vide i cadaveri degli uomini ammazzati per rappresaglia davanti al castello. I fascisti non volevano che venissero sepolti perché tale macabro spettacolo doveva essere un chiaro messaggio alla cittadinanza; per fortuna, in seguito il vescovo di Ferrara riuscì a convincerli a seppellirli. Io , mio suocero e lo zio eravamo in carcere non nello stesso ambiente ma in celle divise. Alla mattina verso le 5 le guardie fecero un appello e chiamarono alcune persone, una di loro alzandosi disse: “ per me e’ finita addio”. Io sono stato molto fortunato perché, in principio, mi avevano inserito nell’ elenco delle persone da fucilare poi hanno smesso le fucilazioni in quanto i morti erano sufficienti. Purtroppo dopo quella maledetta notte non ho Più visto ne’ lo zio cieco ne mio suocero al quale nel corso degli anni mi sono molto affezionato. In uno dei colloqui in carcere con Anna le dissi: “ Anna scappa da Ferrara vai in Montagna a Lizzano la sarai Più sicura e sai da chi devi andare”. Lei non voleva andare via, ma visto il precipitare degli eventi scappò con nostro figlio Mauro e sua sorella. Noi la situazione degli ebrei in Germania e in Polonia, non la conoscevamo chiaramente, ma correvano voci. Erano i profughi che passavano per Ferrara che mettevano in guardia gli ebrei ferraresi su quel che stava accadendo in Germania e quello che sarebbe accaduto in Italia. Una delle frasi ricorrenti che si sentivano fino all’ultimo in famiglia e dagli altri ebrei era: "Quello che è accaduto in Germania non è possibile che accada in Italia ".Motivo per cui alla fine solo mia moglie e sua sorella scapparono. Il resto della famiglia rimase a Ferrara.

Come ha fatto la zia Anna e sua sorella a sopravvivere in montagna?

Grazie agli aiuti dei contadini e dei montanari italiani; centinaia di famiglie ebree furono da essi ospitati con semplicità e altruismo. Se gli ebrei rifugiati in montagna avessero dovuto trascorrere due inverni senza tetto, senza coperte, sicuramente sarebbero morti di freddo e di fame; per fortuna ci sono stati gli aiuti delle popolazioni di montagna le quali con generosità ammirevole divisero con loro le poche risorse di cui disponevano. Il momento più difficile per i rifugiati si verificò quando fu ordinata la denuncia degli inquilini e l’indicazione sulla porta di casa delle generalità di ogni singolo locatario. A causa di tale disposizione, molti dovettero abbandonare le case in cui abitavano e ritirarsi in baite sperdute prive spesso di porte e di finestre; pure in questo caso le popolazioni circostanti prestarono il loro aiuto fornendo loro attrezzi e viveri, evitando a questi infelici la morte per inedia e per freddo. Anna e sua sorella ospiti di una famiglia locale ricambiarono l’ospitalità insegnando ai bambini sia l’ italiano che l’inglese (cosi’ quando arrivavano gli americani riuscivano a farsi capire), aiutando le famiglie nei lavori domestici e a mantenere i collegamenti con i partigiani che rimanevano sui monti. Io credo di essere stato molto fortunato perché durante un bombardamento riuscii a scappare dal carcere di Via Piangipane e tra mille peripezie raggiunsi mia moglie e mio figlio a Lizzano e non ti dico la gioia di questa riunione . Non ho saputo Più nulla fino alla fine della guerra ne’ di mio suocero ne’ dello zio, successivamente ho scoperto che erano morti di “morte naturale” cosi’ almeno diceva il rapporto dei carabinieri. Dopo cinquanta anni, nel 1993, aprirono gli archivi della questura, io mi ci recai li e ricevetti i miei dossier e sulla copertina c’era scritto : "Cercare assolutamente la moglie e il figlio, nascosti da qualche parte".

Finita la guerra che cosa avvenne?

Siamo tornati a casa, di quello che era la nostra casa non esisteva più nulla, solo macerie, il resto della famiglia era morto sotto i bombardamenti , mentre i miei genitori e le mie sorelle si erano miracolosamente salvati perché vivevano in campagna e i loro rifugi non erano stati bombardati. Dei miei fratelli non si sapeva nulla tranne che erano stati arrestati e deportati in un campo di concentramento. Dei tre deportati e’ tornato solo mio fratello Guido che come ben sai e’ morto lo scorso anno a 101 anni. Sono stati anni molto duri, erano i soldati americani che ci davano da mangiare, mentre i miei genitori ci ospitarono in campagna o almeno in quello che rimaneva della loro casa. Io parlavo molto bene l’ inglese e iniziai a lavorare con il comando americano come interprete, seguivo gli ufficiali in giro per l’ Italia appena liberata e mia moglie era dai miei genitori insieme a sua sorella e a Mauro che fortunatamente sembrava passato abbastanza indenne a questa terribile esperienza. Oramai a Ferrara non avevamo più nulla che ci legava e cosi’ quando mi proposero un lavoro negli Stati Uniti in un ente governativo accettai ed io, Anna e Mauro ci trasferimmo per iniziare una nuova vita e cercare di rimarginare le ferite e le umiliazioni a noi inferte. Siamo rimasti in America fino al 1975, nel 1960 sono venuti a vivere qui anche mio fratello Guido e la sorella di Anna. Purtroppo nel 1990 la mia amata Anna e’ mancata. In America ci siamo costruiti una nuova vita abbiamo avuto altri due figli Marco e Giovanni. Nel 1980, Mauro ha aperto azienda insieme ai suoi fratelli a Florianopoli , dove viviamo tuttora ,che si occupa di import export per l’Italia di macchine agricole ed io vivo in un appartamento circondato dall’affetto dei miei figli, mogli 9 nipoti e 2 pronipoti.

Che cosa fai ora ?

Dove vivo sono considerato un po’ la memoria vivente di fatti successi e per non dimenticare quello che e’ avvenuto le scuole della comunità italiana ma anche la comunità ebraica locale mi chiamano per raccontare quei terribili avvenimenti.

Provi odio o rancore verso queste persone per il male che ti hanno fatto?

Oggi riesco a raccontare questi avvenimenti con una certa serenità, ma le ferite e le umiliazioni subite non si sopiranno mai nella mia coscienza. Oggi non provo né odio, né rancore: le cose che ti ho raccontato sono terribili ma ci sono stati degli episodi positivi, io non sarei qui se non mi avessero aiutato, poi l’odio credo che sia una reazione sbagliata. Sicuramente oggi e’ molto meglio parlare ai giovani perché più che studiare sui libri di storia fatti che sembrano lontani credo sia meglio raccontare per far capire che la pulizia etnica effettuata in quei terribili anni e’ ancora molto vicina e non si può dimenticare.

Greta PETAZZONI


mercoledì 3 dicembre 2008

La conquista del Messico... sulle tracce dei giganti.

Bernal Diaz del Castillo, compagno fidato del conquistatore del Messico Fernando Cortez, ci racconta l'avventura di un pugno di uomini che accompagnati dal coraggio, da Dio e dalla fortuna riuscirono in pochissimo tempo a sconfiggere i popoli che abitavano le terre del Messico...
Ma come fu possibile ciò?
Beh, possiamo parlarne se interessa a qualcuno ma oggi voglio parlare d'altro.
Il racconto è di tanto in tanto inframmezzato da notizie storiche e etnografiche e, chi mi conosce sa bene che, a me queste notizie interessano!
I conquistatori hanno appena conquistato il paese dei cacichi (capi villaggio) Xicotenga e Maseescasi ed ora Cortez si trova con loro...
Allora andiamo subito a pagina 153 e sentiamo di che cosa parlano...
"Cortez [..] li pregò che gli dicessero tutto quel che sapevano sul conto di Montezuma..."
Xicotenga e Maseescasi raccontarono tutto ciò che sapevano su Montezuma, ma...
"tutte queste cose però Cortez le sapeva già e portò quindi il discorso su un altro argomento: come mai cioè essi erano venuti a popolare quelle terre, e da dove venivano per essere tanto nemici dei messicani (per messicani si intende il popolo di Montezuma, cioè gli Aztechi!) ch'erano pur loro vicini.
Risposero che, a quanto avevano saputo dai loro antenati, nei tempi antichi c'erano in quelle terre uomini e donne molto alti di statura; siccome erano molto malvagi e di pessimi costumi erano stati poi uccisi e i pochi superstiti erano morti naturalmente.Perché ci rendessimo conto della loro enorme statura , ci fecero vedere un femore, che era alto come un uomo di normale statura , ed anche altre ossa che, pur essendo ormai corrose dal tempo, apparivano di dimensioni veramente sproporzionate. Cortez disse subito che quel femore bisognava mandarlo in Castiglia, perché lo vedesse Sua Maestà; ed infatti glielo inviammo coi primi procuratori che ritornarono in Spagna."
Bene, ecco che ora anche voi sapete che la terra del Messico, secondo i popoli del luogo intervistati nel 1519, in antichità era popolata da esseri giganteschi... uomini di dimensioni inimmaginabili... giganti!
Già ho trattato in altri miei articoli delle testimonianze degli antichi sull'esistenza dei giganti, sarebbe interessante sapere che fine fece l'osso mandato a Sua Maestà... chissà se qualche scienziato spagnolo del tempo fu incaricato di studiarlo, catalogarlo, disegnarlo... qualcuno di voi sa niente?
Aspetto notizie...


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 1 dicembre 2008

Velleius Paterculus - Storia romana continua... II

L'altra sera mi son fermato poco dopo l'assassinio di Agamennone ad opera del cugino Egisto e da lì ora riprendiamo...
Dunque:

"Poco dopo lo stesso Agamennone venne ucciso da suo cugino Egisto, che lo seguiva in linea di eredità, grazie alla complicità di sua moglie.
Egisto regnò per sette anni."

La famiglia reale è distrutta da odii e vendette e poco dopo...

"Oreste [figlio di Agamennone e di Clitennestra] uccise Egisto e la sua stessa madre, aiutato nei suoi piani da sua sorella Elettra, una donna dal coraggio di un uomo... Gli Dei approvarono il suo agire, prova il fatto che visse a lungo e regnò felicemente. Visse fino all'età di novanta anni e regnò per settanta. Oreste provò ancora il suo coraggio vendicandosi, a Delfi, di Pirro [che é sempre quello di prima che abbiamo detto chiamarsi Neottolemo...] figlio di Achille. Pirro infatti le rubò la promessa sposa, Ermione, figlia di Menelao ed Elena.
In quel tempo i due fratelli Lido e Tirreno, regnavano in Lidia ma a causa della carestia che colpì il loro territorio chiesero alla sorte di decidere chi di loro dovesse lasciare la patria alla guida di una parte della popolazione. Il caso decise per tirreno. Tirreno partì verso l'Italia e da lui il posto in cui si stabilì, i suoi abitanti e il mare, presero il famoso e ultimo nome [e si, perché in antichità i luoghi e le popolazioni cambiavano spesso nome, in base all'ultimo famoso conquistatore...].

Ma lasciamo Tirreno al suo gravoso compito di colonizzare l'Italia, io ho terminato il tempo a mia disposizione così, ancora una volta vi lascio...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

La vendetta o il perdono?

Talvolta sono tentato
dal provare il gusto della vendetta,
ma poi penso
quale gusto mi resterà sulle labbra?
Quale ricordo nel cuore?
Così lascio perdere
e vado avanti per la mia strada!
Forse sbaglio
chi può dirlo,
forse sbaglio...
ma perdono!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 30 novembre 2008

Velleius Paterculus - Storia romana

Semper magnae fortunae comes adulatio, cioé "L'adulazione è sempre compagna di una grande fortuna"... ecco perché le cose a me vanno male!
Questa frase si dice che appartenga a uno storico romano, Velleius Paterculus vissuto approssimativamente tra il 19 a.C. e il 31 d.C..
Autore delle Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, in cui parla della storia romana fin dalle origini.
E così, vediamo un po che cosa ci dice il nostro autore...
Fonte del mio articolo è il sito LacusCurtius (http://penelope.uchicago.edu), in lingua inglese e francese e latina.

E così inizia il primo libro...

Storia Romana
"A Marcus Vinicius Consul"

che, per rispettare la tradizione del suo scrittore, mi sento in dovere di dedicare ad un qualche personaggio ricco, famoso e potente per ingraziarmelo...
Difficile scelta in questo periodo!
Se sia meglio dedicar la mia opera al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi o al suo Oppositore, o al sovrano indiscusso di Roma e dell'Italia tutta, il Papa...

Mah, siccome sono in dubbio, dedico questa mia opera di traduzione a chi mi conosce e, prima di tutto, alla mia famiglia, nessuno è ricco e potente ma almeno mi vogliono bene senza interesse!

Un'unica avvertenza, userò di tanto in tanto le parentesi quadre per indicare delle parti di testo aggiunte a mo' di spiegazione... [o dei miei commenti!]

1. Epeus [ovvero Aiace Telamonio], trattenuto lontano dal suo capo Nestore da una tempesta, fondò Metaponto [cittadina della Magna Grecia, nei pressi di Taranto].
Teucer [ovvero Teucro, l'infallibile arciere fratellastro di Aiace], rifiutato da suo padre Telamone per essersi mostrato debole non vendicando le offese subite da suo fratello, arrivò a Cipro e vi costruì una città chiamata Salamina, dal nome della sua patria.
Pyrrhus [ovvero Pirro o per meglio dire Neottolemo figlio "della fulva"], figlio di Achille si stabilì nell'Epiro.
Phidippus [ovvero il Fidippo figlio di Tessalo, un re delle isole Calidne della dinastia degli eraclidi, di cui ci parlò Omero nell'Iliade 2, 678] invece si stabilì ad Ephyra, in Tesprozia.
Intanto Agamennone, il re dei re, sbattuto sull'isola di Creta da una tempesta, vi costruì tre città: due di queste ricordavano i nomi della sua patria, la terza gli ricordava la sua vittoria. I nomi erano Micene, Tegea e Pergamo. Poco dopo Agamennone dovette soccombere sotto i colpi del cugino Egisto...

Ed ora, avendo terminato il mio tempo, vi lascio. Ma non disperate, presto potrete legger il seguito...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

I fratelli Fileni - una leggenda che viene dal passato

Sallustio, di tanto in tanto, aggiunge delle curiosità alle sue opere storiche così da renderle più leggere...
Nella guerra giugurtina per esempio ci parla del come vennero stabiliti i confini tra il regno di Cartagine e di Cirene. Cartaginesi e Cirenesi infatti si combattevano da tempo.
Probabilmente la leggenda si riferisce al 600 a.C. quando i Greci si dice fondarono la città.
Sallustio dalle sue fonti apprende che Greci di Cirene e Cartaginesi, stanchi delle continue guerre che sostenevano da anni, decisero di porre fine ai dissidi dovuti alla mancanza di confini certi in un modo assai singolare.
In un dato giorno ambasciatori Cirenesi e Cartaginesi sarebbero dovuti partire dalle rispettive città, il punto d'incontro avrebbe deciso il confine una volta per tutte e avrebbero così posto termine alla guerra!
A Cartagine furono incaricati dell'impresa i fratelli Fileni. Chi fossero i Cirenesi non viene ricordato.
Il giorno stabilito gli ambasciatori partirono e non si sa bene perché ma i Cartaginesi andarono molto più veloci. Quando Cirenesi e Cartaginesi si incontrarono, i Cirenesi si resero conto di essere andati molto lentamente e accusarono i Cartaginesi di non aver rispettato i patti e di essere partiti prima del tempo. I Cartaginesi insistevano e dissero ai greci di proporre una alternativa, a patto che fosse giusta ed equa. I greci di Cirene allora sfidarono i fratelli Fileni, dicendo che se era vero ciò che avevano detto, cioè di aver rispettato i patti e aver percorso la strada fino a quel punto come stabilito, avrebbero dovuto farsi seppellire vivi in quel posto e così suggellare il patto. Probabilmente i Cirenesi credevano che gli ambasciatori Cartaginesi non avrebbero sopportato di morire per la patria. Ma i due fratelli Fileni accettarono di essere seppelliti vivi e da allora quel punto fu stabilito come confine tra il regno di Cartagine e di Cirene.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 28 novembre 2008

Medico-Chirurgo

Il fiume se ne andava giù zitto, come un placido signore a passeggio tra i fusti. Nel bosco era silenzio e soltanto se mi tendevo con l’orecchio sentivo un vago lontano sommesso rumoreggiare.
Parlottava un po’ del tempo bigio di questa stagione di mezzo ma senza mai alzare la voce. Ed io lo seguivo lungo il sentiero, immaginando che seguisse gli argini che non potevo vedere. Ma poi scompariva qualsiasi sentire e allora capivo che l’ansa del fiume lo aveva allontanato da me.
Caparbio riprendevo la china di passi già compiuti, per ritrovarlo come fa il figlio che insegue per sempre l’ombra del padre. Inesistente il cielo finiva per specchiare l’oscuro presagio che fosse ormai lontano. Così mi sedevo nascosto tra le spighe di gramigna a sentire il ronzio di grossi calabroni. Orribili, neri e rossi, volavano così bassi. Mi terrorizzavano col loro volo radente, quasi a schiantarsi contro la mia faccia. Ma non accadeva mai ed io accettavo il mistero dell’inutile paura e dell’infallibile natura. Restavo qualche attimo ancora lì in ascolto assorto per sentirli scomparire nell’aria frizzante di novembre quando la neve d’inverno aspetta sulle cime più alte e vaghe e sulla terra ce la rammenta la linfa ghiacciata e le foglie arse. Poi il cuore si riempiva ancora di paura all’abbaiare di cani forse randagi, vecchi pastori senza gregge a caccia di una mano amica e pietosa. Ma io avevo solo bisogno di avere paura. Un infantile desiderio di temere le cose oscure tutte pronte lì fuori quando sarei stato grande, quando avrei avuto coraggio. Un giorno il fiume se ne è andato ed io ho smesso di inseguirlo, nei meandri argentei del sottobosco appenninico. La mia maglietta bianca unta di olio è diventata camicia. Una bella camicia azzurra con su la cravatta.
Così capita che suono al campanello di una porta di una casa che non conosco e mi rammento quella porta antica di legno col patocco di bronzo a forma di leone che usurata dal tempo, non si chiude più a dovere. Mi appare il volto di una vecchia signora mai vista prima che mi accoglie caldamente. Mi ricorda le signore sedute a filare sui gradini di fronte casa di mio nonno, i pomeriggi d’estate. Vociavano piano, ogni tanto si alzava una risata più forte, noi le guardavamo stupiti e loro continuavano il loro lento lavorare. Vestite rigorosamente di nero, i capelli di lanugine grigia, calzavano grossi scarponi col fango dell’orto. Poi qualcuna di alzava e tornava dentro a preparare la cena, qualcun’altra chiudeva le galline nell’aia prima che imbrunisse chiamandole a se con un buffo verso “pi-pa” diceva e loro scemavano pigolando e scuotendo le penne.
“Buongiorno signora come sta?” le dico distratto. Non vedo quasi niente nella penombra del tinello.
Così, che vuole, con gli acciacchi della vecchiaia” e ridacchia. Lo stesso strano ridere da vecchie.
“Venga dottore venga”. E mi accompagna in camera da letto dove il marito sta su una poltrona a
farsi guardare da una tv accesa. Il chiarore dello schermo diffonde una luce fredda che taglia lo sgradevole odore dell’aria. Che sa di piscio e medicazioni. Quel vecchio non saluta me, tende la mano stanca e secca alla mia figura alta e giovane. Al mio probabile aiuto professionale. Alla mia supposta sapienza. E così lo visiterò. E presto me ne uscirò da quella vecchiaia che mi afferra la gola, la porta si chiuderà sul volto sereno della donna e al suo riconoscente saluto. “Non vuole un caffè, dottore?”.
Quando ero bambino il mio pediatra era alto e magro. Lo sentivo parlare piano fuori la porta con mia madre. Non so com’è, ma quando stavo male non c’era mai mio padre a parlare con lui. Me lo ricordo in un bel vestito grigio chiaro, ne ho uno anch’io così, la faccia lontana e triste. I dottori sono davvero strani, degli aristocratici che fanno un lavoro così proletario. Intendo stare tra la gente, anche la più umile, la più ignorante. Figli di luminari, di banchieri o avvocati, me li immaginavo, hanno letto migliaia di libri, hanno studiato una vita intera i misteri di questi corpi malati e poi passano dal salone delle feste in casa loro ai Parioli alla cameretta dell’alloggio al sesto piano a parlare con gente che non li capirà mai, con la loro espressione composta tra le lacrime e le bestemmie di un popolo così lontano e diverso. Una cosa senza senso, mi sembrava. O anche meravigliosamente democratica. Mia madre piagnucolava qualche parola che non capivo e la sua gentilezza era ridicola. E lui neanche stava a sentirla, in apparenza. Ma capiva tutto o fingeva. Mi guardava intenso come per scrutarmi dentro. Ecco, mi sembrava un prete. Ma non come quei preti di parrocchia , salesiani, impegnati tra radio e missioni, col maglione a collo alto, con le maniche sempre rimboccate, capaci di tirare anche qualche calcio al pallone in oratorio. No, uno di quei preti da film, mesto ma soave, cogli occhi chiari, colto che dice alla signora ricca e grassa, dimagrisca che la porta del regno dei cieli è stretta! “ Su, non stai male mica ..” mi sussurrava. La stessa cosa mi succedeva dal barbiere. Io odiavo andarci da bambino, preferivo che mio padre mi tagliasse i capelli. Anche se non lo faceva benissimo, o all’ultimo grido. Ma non sopportavo quell’ambiente monosessuale che c’è nelle barberie da uomo. Adesso lo cerco magari, per sfuggire a questo mondo inflazionato dalla figura femminile e da parrucchieri per tutti. Allora ero più intransigente. Chi non è uomo non può capirlo. Gli acconciatori per signora sono finte checche che urlacciano o ci provano falsamente colle clienti, mentre la shampista e la manicure spettegolano di gossip. Queste cose le so perché delle volte accompagnavo mia madre a farsi la permanente, ma questo lo racconterò un’altra volta. I barbieri, no! Sussurrano l’ultima notizia al tuo orecchio, cose da uomini, credono, e ti chiedono, rischiando l’incipiente accusa di omosessualità, se ci vuoi la lacca o il gel. Ho sempre odiato la lacca, e mal sopporto la brillantina. La barba poi non la fanno quasi più, allora perché si fanno ancora chiamare barbieri. Qualche secolo fa il barbiere cavava pure i denti ed era una specie di chirurgo, il medico filosofeggiava al limite della magia. Poi siamo diventati nelle nostre università medico-chirurghi e il barbiere è rimasto lì nella sua bottega annunciata dalla spirale multicolore fuori la porta.
“Qui c’è la bistecchina.” Mi palpava l’addome il dottore e intanto giocava con me. Ed io non avevo paura. “uhm, qui un bel po’ di pastasciutta!”. Era meraviglioso. Ora che mi ricordo mi rammenta, come spesso accade, un altro ricordo. Come una catena.
Il mio primo tirocinio. Con il professore di endocrinologia, mi sembra. Un tipo che non sapevi collocarlo per età, coi sui baffetti e l’aria furba, magro forse bello.Per la sua posizione doveva avere almeno quarantacinque anni, ma ne dimostrava dieci di meno. Gli piaceva giocare con noi studenti, mischiarsi al nostro cicaleggio. Ed io invece stavo lì serio, quasi impietrito. Il mio primo ambulatorio. Con pazienti veri. Ero una specie di statua, dietro la scrivania, in piedi. Lui stava a suo agio nella poltroncina in similpelle. Io nel mio primo sgualcito camice, troppo grande, lui perfetto nel suo camice inamidato, colle penne al taschino e un fonendoscopio che sporgeva dalla tasca. Lui parlava coi pazienti, li ascoltava, li visitava, scriveva sul suo ricettario. Ed io vedevo passare tante storie diverse in transito nel mio cervello per pochi minuti. Cartelle cliniche ingiallite e facce senza nome, malanni d’ogni sorta che mi riconducevano ad una pagina di libro letta qualche mese prima ed ora erano in un vortice sulla pelle di quelle persone. Non più uno schema a colori disegnato dal Netter. Uomini e donne che stavano male, davvero. Sudavo senza darlo a vedere, ero stanco come se avessi zappato la terra. Un cerchio mi cingeva la testa fino a far scoppiare la stanza e farsi nebbia. Praticamente stavo lì ma non capivo che un quarto di ciò che tutti dicevano. Sapevo meno degli stessi pazienti! Mi stavo deprimendo. E lui scherzava colla ragazza barbuta in mutande, per sdrammatizzare. Spiegava sorridendo ad un vecchio che ad una certa età il “pinguino” non fungeva più e un po’ era colpa del diabete. Era quasi divertito ma poi si faceva serio e compilava diligente le sue carte. Tornava sornione a sorridere tendendo la mano e la prescrizione al paziente che contento infilava la porta. Avanti un altro. Era per me perfetto, certa gente sembra nata per fare il dottore. Ed io, secchione, pieno di nozioni nella testa, un fumo nero di cellule, muscoli e tumori che opprimeva la mia intelligenza, mi sembravo inadeguato. In realtà uno impara a fare finta di essere dottore, col tempo.
Non riuscivo a capire come facesse il pediatra a sapere con esattezza il mio menù e fare il giochettino dei cibi nella pancia. Ma ci riusciva, ci prendeva sempre e il suo fascino cresceva. Sospetto che mia madre fosse complice, anche involontaria. Ma non li ho mai scoperti. Le sue mani erano giganti, ma non lasciavano impronte.
Da qualche anno non veniva più a trovarmi perché ero cresciuto. Poi mi dissero che era morto. Un
malanno di cuore. E non era fumatore, aggiunse mia madre guardando di sbieco mio padre.
Io non ci ho mai creduto veramente.
Sono tornato in vacanza sull’appennino d’Abruzzo, ho rivisto il fiume scorrere nel bosco, il lago incantato che sommerge le case e gli alberi. Ma non è stata più la stessa cosa di prima. Ovviamente, non era più lo stesso incanto di cose nuove e antiche assieme. I calabroni continuano insistentemente a ronzare e mi fanno comunque schifo. Li caccio con un bastone, non sono più impaurito complice di quell’arcano. Ero un piccolo idiota che giocava col mondo. Un mondo reale trasformato come dietro un vetro smerigliato. Ora sono un idiota più grande e per giunta non gioco neanche più volentieri. E’ questa la differenza. Il nostro problema è la serietà. Migliaia di libri letti, i cadaveri aperti all’obitorio, il morto che grida il dolore del suo corpo trafitto ancora vivo, migliaia di giorni passati ad ascoltare, a palpare, a scrutare radiografie. I ricordi trillano come la suoneria del telefono. Sto zitto e aspetto di capire. Poi delle volte rispondo e c’è qualcuno dall’altra parte.
“Lei si chiama?” La sclerosi multipla. A placche. Il male del secolo. Risonanze magnetiche e qualità della vita. Immagino. Una sedia a rotelle tecnologica. Un bimbo cerebroleso. Un piccolo cadavere in una grande tomba. Il mondo di sua madre. Migliaia di tomi per scoprire che non si sa perché viene. “Che strano, non trovo la sua scheda precedente, ma è sicuro di essere già venuto…” Ventuno secoli dopo Cristo e gli stessi dubbi. Le stesse domande. La gente in fila e la mia barba di sapiente. Squilla il telefono sulla mia scrivania. Che non è neanche la mia.
Cantavo “el pueblo unido jemas serà vencido”. Fine anni settanta. Il ‘Che’ era già morto. Era già mito. Tanta gente per la strada, per la pace, per la guerra. Poi le brigate rosse ci hanno tolto il gusto di essere incazzati sinceramente. Per paura di pensare male. Di essere collaterali. La gente però è sempre tanta e sta male. La stempiatura bianca mi rammenta mio padre, mentre lo osservo. Lui non può saperlo. Il brutto di quest’anima che abbiamo è che tu senti di continuo, pensi e ricordi, ma non sai mai se gli altri riusciranno a capirti. A sentire. A raggiungerti dove stai viaggiando. Una solitudine immensa mi circonda, ed ho una tremenda fila di fuori, mi dice l’infermiera.
La stessa paura dopo ogni vittoria. Mi ricordo gli esami, dopo tanti anni, ad uno ad uno ma sembrano tutti uguali. Una grande fatica a mettere tutto dentro la testa e a fuoco il giorno del verdetto. Poi un trenta oltre l’ostacolo. Sempre il primo della classe, sempre con lode. Ma per chi?
Lo fai per la tua gloria, il tuo curriculum, financo per i tuoi cari, sono soddisfazioni, direbbe mio padre. Mai per i pazienti. Paganti e non paganti. Gli occhi sono chiari e profondi, come se uno avesse pianto. Come ad una cerimonia. Gli tocco il collo e scorgo la cicatrice chirurgica. Come un rutto mi sale il ricordo. Ricomincio a pensare e a lavorare. Sotto le mani la pelle ruvida, la sua paura del tumore, mi sembra di sentire ancora addosso a me la paura del giorno prima dell’esame.
Avverto il contatto umido colle mucose e ritiro la mano dal labbro, come dall’ultimo foglio dell’ultimo libro. Il timore di sbagliare risposta o di errare diagnosi. Poi la vittoria. Inutile e disperdente. Quando tutti ti danno pacche sulle spalle, dicono lo sapevo, studia come un mulo. Quando nessuno può capire interamente , tanto che delle volte speri di perdere, di essere spazzato via, di non ricordarti l’ultima pagina dell’ultimo libro letto. Così quante facce soddisfatte, la stretta di mano, l’avevo detto che era così. Quante volte ti sei detto, ma allora sei bravo. E continui.
Una inutile lunga lista di vittorie. Festeggiate colla bottiglia di vino, con l’olio buono, financo col pollo del contadino. La gente è riconoscente, a modo suo. Io resto perplesso perché continuo a non vincere niente. A non sapere quasi niente.
C’erano solo sette posti alla specializzazione, due per assistente all’ospedale civile, uno solo da borsista all’università, quasi venti da tenente medico. Un ammasso di cadaveri di carriere nella spazzatura. Si fanno le scarpe per niente. Solo per la faccia. Sono nati tutti coll’osso in bocca ma io l’ho dovuto mollare. Non mi dispiace nemmeno, adesso. Nessuno ha sofferto, alla fine.
Che strano paese il nostro, dove ti ammazzi di studio, tuo padre ci butta il sangue per finanziarti fino alla fine, tutti ti ammirano perché ti sei laureato e specializzato. Poi rimani lì in un angolo perché il posto è del figlio di quello ch’è già professore. Tuo padre è impiegato, contessa.
Ho staccato il telefono perché voglio lavorare in pace. Ma i pensieri non hanno bisogno del filo per correre e Marconi e Bell e tutti gli altri in fondo non hanno inventato niente che non ci fosse già. Vorrei saper giudicare tutto questo ma ho poco immaginazione. Al posto delle stelle ho visto buchi neri nel cielo dei carabi dello screensaver, al posto dello sfigmomanometro un grazioso apparecchio che digita i valori pressori, al posto dei telefoni la rete ma si paga ugualmente, invece che aerei sfrecceranno shuttle, faranno gallerie in plexiglass al posto delle autostrade.
Con un tubo di fibre ottiche scruto la gola del paziente. Non so se siamo davvero credibili come eroi o siamo solo imbecilli sognatori. Con o senza campi di battaglia dove raccogliere soldati. Mi ha sempre sorpreso vincere, preferisco stare a parlare o discutere, perché dura di più vivere.
Ho letto davvero migliaia di libri ma non sono cambiato. Certe volte mi metto la maglietta bianca e guardo il profilo delle montagne. Mi indigno ancora, nonostante tutto quando la fornace inghiotte gli operai e li fonde insieme in un’unica morte.
E adesso mi ricordo anche il nome di questo poveraccio, che tanto mi ricorda mio padre, che gli hanno tolto una corda vocale col laser e si sono sbagliati.

Giuseppe MARCHI