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giovedì 23 agosto 2012

Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria

Chi era Cesare Beccaria?
Noto per la sua opera "Dei delitti e delle pene", per il resto mi è completamente sconosciuto. Sicuramente per mia colpa, chissà dove mi trovavo o a cosa pensavo quando l'abbiamo studiato a scuola (ma poi, siamo sicuri di averlo fatto?).
Nato a Milano il 15 marzo 1738 da famiglia nobile originaria di Pavia, inizia i suoi studi presso il Collegio Farnesiano di Parma, sotto la guida attenta dei Gesuiti.
All'età di vent'anni si laurea in giurisprudenza a Pavia. In quegli anni inizia a collaborare con l'Accademia dei Pugni di Alessandro e Pietro Verri.
Nel 1761 si sposa con Teresa Blasco da cui avrà una figlia, Giulia. L'importanza di questo matrimonio giudicatela voi, Giulia infatti sarà la madre del ben noto Alessandro Manzoni.
Nel 1764 viene pubblicato un piccolo testo: "Dei delitti e delle pene" che, tradotto in francese l'anno successivo consentirà, anzi ne determinerà il successo a seguito del "Commentaire" di Voltaire.
Nel 1771 ormai famoso, entra a far parte del Supremo Consiglio di economia pubblica, poi, nel 1791 entra nella giunta per la correzione del sistema giudiziario civile e criminale nonché nella commissione speciale per le riforme penali e di polizia.
A pochi anni di distanza, il 28 novembre del 1794 muore per un colpo apoplettico, all'età di soli 56 anni.
Ora, conosciuto meglio il nostro autore, anche se solo per grandi linee, vediamo qualcosa della sua opera più nota "Dei delitti e delle pene".
A differenza dei Promessi Sposi, opera monumentale scritta dal nipote Alessandro, Dei delitti e delle pene è un trattatello di neanche cento pagine ma, non per questo meno importante. Vediamo alcuni aspetti interessanti.
Beccaria inizia la sua opera con un'avvertenza (per il lettore) sul sistema delle leggi dei popoli europei, infatti:

          "Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co' riti longobardi ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formavano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell'Europa ha tuttavia nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì d'oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbero regger le vite e le fortune degli uomini".

Critica severa di un sistema a suo parere disorganizzato, risultato dello "scolo dei secoli i più barbari", il cui scopo è quello di accrescere la legittima autorità dei sistemi in essere procedendo ad una revisione delle parti antiquate o corrotte dagli uomini e dal tempo.
Secondo il Beccaria, i principi morali e politici cui l'uomo obbedisce, nascono per "rivelazione", per "legge naturale" o come "convenzioni fattizie della società". Il fine ultimo è però lo stesso, condurre "alla felicità di questa vita mortale".
Su questa base il nostro Beccaria afferma che esistono "tre distinte classi di virtù e di vizio, religiosa, naturale e politica". 
Capisco che tutto ciò, a qualcuno, possa sembrare noioso, ma ritengo sia invece importante andare avanti nell'esame di quello che è l'avviso al lettore della sua opera.
Per Beccaria il "sistema di vizi e virtù" della politica è variabile, in quanto dipende dagli uomini e dai tempi, mentre l'idea della virtù naturale "sarebbe sempre limpida e manifesta se l'imbecillità o le passioni degli uomini non la oscurassero". Solo l'idea della virtù religiosa è sempre costante "perché rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata".
Potrete chiedervi a quale scopo introdurre queste distinzioni, me lo sono chiesto anche io!
Lo stesso Beccaria al fine di non generare confusione chiarisce il motivo, infatti invita i suoi lettori a comprendere bene, prima di criticare la sua opera, quale classe di vizi e virtù in essa si analizzi.
Beccaria invita i lettori a non considerare la sua opera come distruttrice di virtù o di religione ma a cercare, qualora necessario, di convincerlo "o della inutilità o del danno politico che nascer ne potrebbe" dai principi esposti.
Non dobbiamo dimenticare che quando Beccaria scriveva non era troppo difficile inimicarsi la chiesa o il potere temporale e finire all'Indice o in carcere!
Prima di andare avanti vorrei fare notare la considerazione che ha dell'uomo il Beccaria, potrebbe essere passato senza lasciare impressione il termine "imbecillità" o il concetto che l'uomo è spesso guidato dalle "passioni" più che dalla logica. Dico questo perché è un concetto che ricorre anche nella introduzione, che infatti inizia così:
          
          "Gli uomini lasciano per lo più in abbandono i più importanti regolamenti [..] Apriamo le istorie e vedremo che le leggi che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo strumento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità! Non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana...".
Ecco il perché della necessità di revisionare la legislazione vigente, opera di "passioni di uomini" o di caso fortuito, scolo dei tempi passati.
Che dire. Se tali concetti siano ancora validi a più di due secoli di distanza giudicatelo voi! Io preferisco evitare commenti e procedere oltre.

Nella ricerca dell'origine delle pene il Beccaria da una definizione di "legge" in funzione di "libertà" e di "sicurezza", cosa che ritengo importante notare perché a mio parere sempre valida: 

          "le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall'incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte (della libertà!) per goderne il restante con sicurezza e tranquillità".
Ecco dunque che per il Beccaria il sacrificio di parte della libertà di ognuno consente alla società così costituita di godere di sicurezza e tranquillità, infatti ecco che proprio da quanto appena detto discende il concetto di "sovranità nazionale": 

          "la somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario e amministratore di quelle".
Naturalmente, tutto ciò valeva nel momento in cui nacquero le società primitive che si diedero delle leggi, oggi invece è semplicemente un dato di fatto, riscontrabile però subito dopo le grandi tragedie umane, le guerre (in particolare le guerre civili), cui segue la ricostruzione di una società spesso basata su leggi costituenti differenti dalle precedenti.
Ancora un passo del Beccaria ci porta a capire perché occorre introdurre un sistema punitivo, ancora una volta a causa della "natura umana", infatti:

         "non bastava informare questo deposito (cioè la sovranità nazionale), bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano dei motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell'antico caos le leggi della società", questi "motivi sensibili" non sono altro che "le pene".
L'uomo origina la società ma è anche causa di disgregazione dovuta alla sua "natura imperfetta". Le pene (i motivi sensibili) non sono solo utili ma necessarie perché altrimenti non sarebbe possibile controllare la natura umana, ecco ciò che mi sembra voglia dire Beccaria e, purtroppo, mi sento di condividere.
Ecco dunque che il sovrano (colui che esercita la sovranità nazionale) ha il diritto (che è anche un dovere verso la società) di punire. 
Beccaria ci dice: 
          "Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi".
Ma dove è il confine tra "pena giusta" e "pena ingiusta"?
A ciò è d'aiuto Montesquieu; secondo lui è tirannica (e dunque ingiusta) "ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità". Secondo Beccaria "fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è dunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzione possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L'aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di più è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto".
Ecco dunque che per Beccaria è la necessità di sicurezza che spinge l'uomo ad aggregarsi in società fino a formare nazioni. Se non vi fosse questo stato di necessità infatti nessun uomo farebbe dono di parte della propria libertà, anzi "ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri non ci legassero".

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO