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venerdì 2 maggio 2014

Acheronte

- Tundalo, vieni qui!

La voce possente e cavernosa continuava a chiamarlo, ogni notte. Tundalo non riusciva a chiudere occhio senza che la voce lo chiamasse.

- Tundalo, vieni da me!

Continuava a sentire la voce anche quando era ubriaco. Anzi, in quelle condizioni sembrava fosse ancora più forte.  Tutto era cominciato qualche settimana prima e lui non riusciva ancora a capirne il motivo.

- Basta! Non ce la faccio più. Voglio dormire. Urlò Tundalo, colpendosi la testa con i pugni chiusi e strappandosi ciocche di capelli scuri senza risultato.
La voce continuava a chiamarlo, insistente.

- Tundalo, sono io, non mi riconosci?

- Io chi? Chi sei, cosa vuoi? Perchè mi torturi maledetto?

La voce pulsante non si fermava un attimo. Era da giorni che Tundalo non riusciva più a chiuder occhio e le forze gli venivano meno.

- Bravo Tundalo, abbandonati, vieni da me!

Chiuse gli occhi per l'ultima volta forse.

- Tundalo, vieni qua!

La voce ora era intorno a lui, sopra, sotto, davanti e dietro, proveniva da tutti i punti e da nessun luogo in particolare, però era diverso da prima. Prima veniva da dentro la sua testa. Ora la sua testa era avvolta dalla voce. Enorme, come una montagna, lo sovrastava.
E la testa non gli doleva più, ora sentiva solo paura. Una paura profonda e tremenda. Gli pareva di essere in una grotta, dentro una enorme montagna.
Davanti a lui due enormi occhi fiammeggianti lo guardavano fissamente.

- Finalmente sei arrivato! Disse la voce cavernosa, impersonale, tremenda a sentirsi.

Sotto gli occhi, più in basso, verso l'abisso, una enorme bocca fiammeggiante mostrava le sue tre gole profonde color lava. Il puzzo di zolfo riempiva l'aria ma Tundalo non aveva più bisogno di respirare dove si trovava.

- Chi sei, cosa vuoi da me? Urlò Tundalo fissando gli occhi del mostro.

Dalle gole del mostro provenivano gemiti e lamenti, come di uomini torturati da innumerevoli mostri.

- Vieni da me, entra... Proseguì la voce senza dare alcuna risposta. - Vieni, ti aspetto da tanto tempo ormai.

La puzza proveniva dalle gole, più in basso qualcosa si agitava. come un nido di serpenti in cui cade una preda viva. Rumori inquietanti provenivano dal basso, urla di uomini frammiste a urla di animali terribili. Ululati e guaiti animali si alternavano a implorazioni di pietà che poco avevano di umano.

- No, maledetto tu sia! No, non voglio...

- Vieni da me, è il tuo Destino. Vieni da me!

Una lingua bifida uscì dalla bocca puzzolente e lo afferrò, trascinandolo verso l'imboccatura di una delle gole di Acheronte.
Un nuovo lamento si aggiunse ai lamenti dei dannati, era la voce di Tundalo, ora e per sempre fuori dalla sua testa.
 
 Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 29 aprile 2014

Borametz

- Ecco, siamo arrivati!
 
Le parole erano giunte piacevoli alle orecchie degli uomini del gruppo. Si tolsero gli zaini dalle spalle e li poggiarono sulle rocce assolate. Di fronte a loro un piccolo pianoro, dietro di loro il baratro che avevano appena scalato. Davanti a loro, oltre il pianoro che si estendeva per alcune decine di metri, una enorme vallata verde, ricca di corsi d'acqua e di piante, senza alcuna traccia della civiltà!
 
- Ora possiamo riposare. Mettete tutti gli zaini sulle rocce, non lasciateli a terra. Josè, Mario, montate le tende. Juan, prepara il fuoco. Noi invece vediamo se riusciamo a trovare dell'acqua fresca, con tutte queste rocce ci sarà pure una sorgente. Alejandro era abituato a comandare e i suoi uomini erano abituati ad obbedire. Si conoscevano da tempo e avevano tutti piena fiducia nelle sue doti di condottiero. Era il capo indiscusso, l'amico fedele, il fratello maggiore e il padre severo. Era giusto e per questo lo seguivano.
 
Il campo fu pronto nel giro di pochi minuti. La legna secca raccolta aveva dato vita ad un focolare improvvisato. Acqua fresca era stata raccolta e patate arrostivano tra la cenere. Il cielo era diventato rosa e poi sempre più scuro. La notte scendeva fredda ma le tende li avrebbero riparati dall'umidità. Il giorno dopo sarebbero ripartiti nella direzione che Alejandro avrebbe loro indicato.
 
- Alejandro!
 
La voce era forte, sempre più forte, come se il lungo viaggio avesse accorciato la distanza che lo separava.
Le parole erano solo nella sua testa ma per lui era come se fossero reali. Risuonavano, consigliavano, ordinavano, aiutavano lui e la sua tribù. E non si poteva dubitare, tutto ciò che veniva lui detto subito si realizzava.
 
- Alejandro, non c'è più tempo! Domani mattina dovete riprendere il viaggio.
 
- Sarà fatto! Rispose nella sua mente. L'indomani mattina sarebbero ripartiti per il loro viaggio.
 
La notte passò veloce e serena come le notti di chi è stanco per il lungo cammino. senza sogni.
 
- Andiamo, dobbiamo riprendere il cammino! Disse Alejandro svegliando i suoi uomini. ritirate le tende e pronti a partire tra mezz'ora.
 
- Mario, prendi con te due uomini e fate provvista d'acqua per due giorni, non potremo fermarci più. Non c'è più tempo!
 
- Va bene Alejandro. Rico, Marcelo, prendete due otri a testa e venite con me. La piccola squadra si diresse verso la sorgente poco lontana.
 
Trenta minuti dopo tutti erano pronti. Gli uomini erano stanchi ma tutti sapevano che la loro missione doveva essere compiuta e solo Alejandro aveva la forza per farlo. Erano in viaggio da trenta giorni ormai ed erano vicini alla fine. Poi il ritorno, se ci fosse stato ritorno, sarebbe stato più tranquillo. Senza più fretta. Ma ora dovevano muoversi. Alejandro diceva che non c'era più tempo e nessuno metteva in dubbio la sua parola.
 
- Abbiamo ancora due giorni di viaggio ma non potremo fermarci. Mettetevi in tasca delle patate cotte ieri sera e prendete l'acqua che vi servirà per il viaggio. Prendete queste foglie. Quando sarete stanchi e penserete di non riuscire più ad andare avanti masticatene una. Solo in quel caso. Solo se proprio non riuscite ad andare oltre.
 
Alejandro si girò e cominciò a scendere sul lato opposto della montagna, verso la vallata verde che si apriva davanti a loro.
La strada non esisteva, veniva aperta passo dopo passo tra la vegetazione bassa e spinosa. Arbusti mai visti prima li circondavano, la vegetazione era lussureggiante nonostante l'altitudine.
 
Arrivò il mezzogiorno, arrivò la sera.
 
Alejandro non accennava a rallentare, mise in bocca l'unica patata che aveva tenuto per sè, la masticò con calma, ben sapendo che sarebbe stata l'ultima.
 
Arrivò la notte, arrivò la mattina.
 
I suoi uomini erano stanchi, li sentiva arrancare alle sue spalle, li sentiva affannarsi dietro il suo passo sicuro. sentiva le loro forze venir meno ma non poteva far niente per loro. Tutto ciò che era in suo potere era già stato fatto. Ora toccava a loro, ad ognuno di loro, cercare nel proprio essere le forze per arrivare alla fine. Lui non si sarebbe più fermato per nessun motivo e loro lo sapevano. Erano consapevoli dei rischi.
 
Arrivò il mezzogiorno, arrivò la sera.
 
- Mangiate le vostre patate, se ancora ne avete. Disse Alejandro alzando la voce per farsi sentire da tutti. Domani mattina all'alba saremo giunti alla meta e non vi serviranno più.
 
- Mangiatele ora e cercate di masticarle bene. Non possiamo ancora fermarci.
 
Ogni uomo aveva ricevuto quattro patate per gli ultimi due giorni di viaggio ma le avevano consumate tutte il primo giorno. non restava che l'erba che gli era stata data. Mario prese una foglia, la guardo riponendo in essa tutte le sue speranze e la portò in bocca masticandola lentamente, cercando di sentire ogni sfumatura del suo sapore. L'essenza degli olii che conteneva ebbero un effetto immediato sul suo spirito e sul suo corpo. Ora gli sembrava di avere le ali ai piedi. Non sentiva più la stanchezza. Sarebbe durato?
 
Arrivò la mezzanotte...
 
Mario crollò a terra. Non s'era accorto di niente. Il passaggio dalla vita alla morte era stato istantaneo. Non aveva sofferto e non si era accorto di niente. Gli altri lo scavalcarono senza fermarsi.
 
- Alejandro.... Mario è caduto. Disse Juan dal fondo della coda.
 
- Lo so, ma non possiamo fermarci ora, ci penseremo più tardi. Ora non possiamo fermarci. La voce era forte, come sempre. Solo un leggero tremolio tradiva il suo dispiacere. Ma non potevano far niente per lui. Se aveva preso la foglia non c'era più niente da fare.
 
- Mancano poche ore! Stringete i denti e andiamo avanti.
 
Erano le tre del mattino. Le stelle si allontanavano e la luce del sole mattutino cominciava ad intravvedersi di fronte a loro. Un tonfo annunciò la caduta di un altro dei suoi. Questa volta era toccato a Juan. Anche per lui il passaggio era stato istantaneo. Un istante prima pensava alla sua famiglia, alla giovane moglie che lo aspettava a casa. Al figlioletto Pablo, che un giorno avrebbe forse compiuto il suo stesso percorso. Poi, di colpo, il buoi. Il cuore era scoppiato istantaneamente.
 
Arrivò l'alba.
 
Alejandro proseguiva il suo viaggio. Da un'ora non sentiva più il rumore dei compagni dietro di se. Era rimasto solo. Solo... con la sua stanchezza e con le sue foglie d'erba nella tasca. Il sudore scorreva lungo la pelle. L'odore della sua pelle era forte, era l'odore della stanchezza, della tensione, della paura.
 
- Eccomi, stò arrivando...
 
Di fronte a lui il Borametz, immobile, lo fissava. Era appena spuntato dalla terra e i primi raggi del sole illuminavano la sua lana dorata.
 
- Perdonami Signore, sono arrivato solo io!
 
Disse rivolgendosi al Borametz. Estrasse il coltello sacro che gli fu consegnato tanti anni prima da suo padre che l'aveva ricevuto dal padre. Così era stato per generazioni e così sarebbe sempre stato, Borametz volendo!
 
- Fai ciò che devi! La voce, forte, era rimbombata nella sua testa.
 
- Fai ciò che devi! Ripeteva continuamente.
 
Il coltello brillò alto sulla sua testa, prima di calare sul Borametz con forza. Alejandro recise le quattro zampe con sicurezza, piangendo.
 
Sangue rosso ricoprì la terra a fecondare i semi del prossimo Borametz.
 
Alejandro raccolse il corpo del piccolo agnello vegetale, raccolse il liquido rosso come il sangue nel suo otre vuoto.
Accese un fuoco e arrostì il Borametz sotto la cenere. Poi lo mangiò e tornò indietro al villaggio. Solo... ora poteva pensare al futuro.
Ora era libero...
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 18 aprile 2014

Sleipnir

- Sleipnir. Vieni qui, di corsa!

La voce del Dio era potente e cavernosa. Quasi niente aveva di umano. Anzi, niente. Quando chiamava Sleipnir era possibile sentirlo dalla terra, come il rombo di tuono che preannuncia il temporale.
Sleipnir accorreva di corsa, e con i suoi otto zoccoli possenti sollevava scintille infuocate che finivano sulla terra sotto forma di fulmini. Tutti gli esseri si rintanavano nei loro ripari, temendo la collera del Dio.
Odino saltava in sella, scrollandosi di dosso la polvere che ricopriva i suoi abiti prima di partire al galoppo e la polvere cadeva sulla terra con sembianze di grandine.

- Andiamo Sleipnir, al galoppo!

Il cavallo, se cavallo si può chiamare un essere al servizio di un Dio, con otto zampe sotto i possenti garretti, partiva al galoppo obbediente agli ordini del padrone. Sudava bianca schiuma, che appariva sul mare Oceano, sotto forma di spuma leggiadra nei giorni di temporale.

Odino si muoveva nel vasto cielo, che a malapena lo conteneva. Veloce più del vento, potente più del tuono, caldo più del sole, governava l'universo affiancato dal suo cavallo Sleipnir.
Il suo pelo folto e grigio, lungo più della chioma delle amazzoni, ondeggiava leggero al vento di primavera.

Sleipnir correva veloce, per aria e per terra e i suoi occhi fiammeggianti aprivano le porte degli inferi.
Odino era il solo a cavalcarlo.

Tutto ciò andò avanti per millenni poi un giorno l'uomo dimenticò tutto. Costruiì macchine volanti, imitò il rombo del cielo. Cacciò Sleipnir e il suo padrone negli inferi dell'oblio.

Ma un giorno Sleipnir tornerà a cavalcare, col suo cavaliere tonante, per terra e per aria e il suo padrone prenderà la sua rivincita sull'uomo ribelle.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 15 aprile 2014

A Bao A Qu

Era appena sorto il sole e l'uomo aveva ripreso a muoversi, quasi impercettibilmente.
Era forse l'unico sopravvissuto, l'ultimo della sua razza, sterminata da una tribù di nomadi che per un caso aveva scelto la loro vallata per spostarsi appresso al proprio bestiame. Non avevano nient'altro che il bestiame e le armi e dove passavano lasciavano una scia profonda di pianti, urla e sangue.
Il suo villaggio non esisteva più, la sua capanna era un cumulo di cenere. i suoi figli erano carne insanguinata per cani randagi. E di lui non restava molto, forse qualche ora di vita, forse qualche giorno di dolore e pianto per i suoi cari.
Cominciò a strisciare, trascinandosi affannosamente sul terreno, nutrendo la terra secca col suo sangue. Si trascinò fino alla scala a chiocciola che dava accesso all'antica torre in pietra, spinto dalla forza della vita che se ne va.
La mano destra sentì il freddo del primo gradino della scala a chiocciola.
Una sensazione strana pervase il suo corpo, la sua anima ridestata.
Il freddo della pietra lo risvegliava dal suo torpore.
Senza sapere come, senza più pensare alle ferite che lo dissanguavano, si alzò in piedi e salì il primo gradino. La sua anima piangeva per la morte della famiglia, per la distruzione del villaggio, per la fine di una stirpe.
Sentì la forza rianimare il suo corpo, salì il secondo gradino quasi senza accorgersene. La striscia di sangue era dietro di lui, rossa, quasi color della seta... splendente sotto il riflesso del sole nascente.
Un debole fruscio gli ricordava la vita, una sensazione potente di vita percorreva il suo corpo freddo da tanto tempo immobile.
Il piede avanzò sul terzo gradino. Solo i sacerdoti percorrevano una volta all'anno quella scala, solo loro avevano la forza di farlo, ma i sacerdoti erano morti, tutti!
Piccole zampe, come un millepiedi, sorgevano dalla fredda pietra per afferrare il bordo del gradino, seguivano le tracce del sangue fresco, cercando di sentire l'anima morente di colui che si trascinava lungo la scala. Una forza straordinaria, carica di sentimenti, di orrore, d'amore.
Il quarto gradino, poi il quinto, il sesto, il settimo... uno dietro l'altro.
Il freddo si faceva sempre più intenso, il ricordo dei figli massacrati solo poche ore prima gli offuscava la vista e gli spezzava il cuore ancora una volta. Eppure non sentiva odio per coloro che avevano compiuto un simile massacro ma solo compassione. Compassione per uomini che erano bestie, non per colpa loro.
La scala a chiocciola sembrava animarsi di vita propria, i gradini davanti a sé lo chiamavano. Le forze gli venivano meno, il sangue scorreva dalle sue ferite ma lui proseguiva senza sosta. Ancora pochi passi.
la sua anima prendeva corpo dopo tanti secoli. Nessuno l'aveva più trascinato fino a quel punto da... quanto tempo? Non ricordava... secoli, millenni forse.
Eppure quest'uomo aveva una forza incredibile, stava morendo ma proseguiva la sua ascesa senza un pensiero negativo. La sua anima era forte e splendente.
A Bao A Qu prendeva vita,forte e splendente, ancora una volta dopo tanto tempo.
L'uomo moriva sulla scala, senza sapere perchè, felice di raggiungere i suoi cari appena scomparsi, lasciando sull'ultimo gradino un fiotto di sangue denso e il pensiero di un futuro radioso per tutta la sua Terra, sotto il sole nascente di un giorno qualunque...
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 2 marzo 2014

Il manoscritto di Brodie, di Jorge Luis Borges

Di Borges ho già letto Finzioni, e in quell'occasione avevo annunciato la necessità di approfondire la conoscenza per poter azzardare un giudizio difficile. 
Vi dico subito che il giudizio ancora non c'è, nonostante la lettura di questa collezione di racconti brevi.
Il manoscritto di Brodie presenta undici racconti brevi, parte ambientati nella Buenos Aires di inizio novecento, parte invece derivanti dalle innumerevoli conoscenze letterarie di Borges.
Ricordo che  Jorges Luis Borges (1899-1986), argentino di nascita, fu scrittore, poeta, saggista, traduttore, docente universitario e direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires.
Tra i racconti posso dire che il primo, l'intrusa e l'ultimo, il manoscritto di Brodie, sono i più interessanti anche se completamente differenti come genere. Il manoscritto di Brodie in particolare sembra rifarsi a tradizioni antiche di cui possono ritrovarsi tracce nel saggio di Frazer, il ramo d'oro.
Eppure anche gli altri meritano di essere letti con attenzione sia per la costruzione, sia per le idde di fondo, non comuni tra gli autori di racconti.
Ancora non esprimo un giudizio, come ho già detto o forse il giudizio già è stato emesso dato che ho intenzione di leggere ancora qualcosa di questo autore.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 9 dicembre 2013

Jorge Luis Borges: Finzioni

Talvolta si inizia per caso la lettura di un libro, talaltra lo si fa guidati da un motivo, più o meno valido.
Così, questa settimana ho affrontato un autore di cui non avevo mai letto niente: Jorges Luis Borges (1899-1986).
Argentino di nascita, fu scrittore, poeta, saggista, traduttore, docente universitario e direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires.
Lo spunto per la lettura mi è arrivato da un fumetto, un numero di Martin Mystere in cui la storia era incentrata proprio sul nostro Borges.
Così dopo una breve ricerca nella biblioteca ho iniziato la lettura di Finzioni (La biblioteca di babele) nella edizione Einaudi del 1978.
Ma prima di andare avanti voglio riportare uno stralcio della quarta di copertina, da cui si può capire a cosa andavo incontro, avrei dovuto leggerla prima del libro!
             "Nel presentarli al pubblico italiano (i racconti) Pietro Citati scriveva: <<Devoto alla logica e alla simmetria, elegante geometra dell'intelligenza, le epoche che egli predilige sono tuttavia quelle più profondamente sofistiche, insieme razionalissime e bizzarre, matematiche e magiche, nelle quali la ragione distrugge se stessa nel momento che trionfa..."
Non che l'aver letto la quarta di copertina mi avrebbe impedito di leggere il libro, ma mi avrebbe messo sull'avviso!
Detto questo, vi chiederete cosa penso del libro.
Vi rispondo che non lo so!
Diciamo meglio, ancora non lo so!
E' la prima volta che mi imbatto in storie simili, e dire che di libri ne ho letti tanti, e di tutti i generi!
Eppure, in questi racconti c'è qualcosa di strano.
Il tempo, lo spazio, gli intrecci delle storie, sono particolari, difficili da seguire. Ogni racconto sembra scritto tenendo a riferimento l'idea del labirinto, della stanza degli specchi, del tempo avvolto su se stesso. Il risultato è che i racconti in alcuni tratti non sembrano dei racconti, in altri tratti appaiono invece essere troppo fantasiosi.
Vi chiederete se mi sia piaciuto, anche in questo caso la risposta è: non lo so!
Devo pensarci su e, forse, rileggerlo più avanti, come ho fatto con altri libri quando mi rendevo conto di non essere in grado di capirne il significato.
Ecco, probabilmente dovrò aspettare... anche se leggere "Pierre Menard, autore del Chisciotte", mi ha fatto sorridere!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO