Traduttore automatico - Read this site in another language

Visualizzazione post con etichetta viaggio in america. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta viaggio in america. Mostra tutti i post

venerdì 25 aprile 2014

I custodi della storia (VIII capitolo) - Dimitri

Dimitri, smettila di leggere quel libro e vieni a letto!

Le parole di lei non ammettevano replica. Lei lo amava, ma quando usava quel tono non era il caso di contraddirla!

Aveva imparato a conoscerla col tempo. Sapeva fino a dove poteva spingersi e quando invece doveva assecondarla senza discutere. Era tanto ormai che non la sentiva più usare quel tono fermo, eppure quella sera era diverso... dopo anni di ricerche finalmente aveva trovato qualcosa che lo spingeva a replicare.

-Un attimo, cara. Forse ho trovato qualcosa...

Zinaida scese dal letto, indossò una pesante vestaglia da notte e si avvicinò silenziosa alle spalle del marito.

Lui, chino sullo scrittoio intento ad osservare delle vecchie carte geografiche che aveva avuto in prestito da un amico non la sentì arrivare.

Lei gli poggiò le mani sulle spalle con delicatezza e si sporse sopra di lui per capire cosa ci fosse di tanto importante in quelle vecchie carte da spingere il marito a rifiutare un suo invito.

La sua figura snella e slanciata divenne un tutt'uno con quella china del marito. I capelli lunghi e biondi si posarono sulle spalle di Dimitri che quasi non si mosse. Osservava con attenzione spasmodica con l'ausilio di una potente lente una vecchia mappa consunta dal tempo.

-Ti piace il mio nuovo profumo? L'ho acquistato questa sera in centro. Viene da Parigi...

Disse lei con voce sensuale stringendogli le braccia attorno al collo e baciandolo dolcemente sulla nuca.

-Aida mia...

Sospirò Dimitri posando la lente e lasciandosi massaggiare le spalle dalle sue calde mani.

-Ho appena fatto una scoperta eccezionale! Se le cose stanno come penso il tuo profumo preferito la prossima volta lo comprerai direttamente a Parigi.

Disse lui, spegnendo la candela poggiata sullo scrittoio e cedendo alle carezze invitanti della giovane moglie. Lei lo tirò per le braccia verso il letto senza incontrare più alcuna resistenza, fino ad immergersi tra le soffici coperte.

-Domani mi racconterai tutto!

Disse lei stringendolo a sé senza dargli il tempo di rispondere...

Erano sposati da poco più di un anno e si conoscevano da due ma la passione che li aveva travolti non era per niente assopita.

Si erano conosciuti a Tbilisi in un caffè letterario nel quale Dimitri amava sorseggiare il suo tèe comporre versi. Lei era appena diciottenne ed amava la poesia come nient'altro al mondo.

Si erano scambiati uno sguardo ammiccante ed era subito nato l'amore.

Lei aveva appena compiuto diciannove anni e dopo pochi mesi si trovarono sposati.

-Allora, ieri sera mi parlavi di una tua scoperta eccezionale, a cosa ti riferivi?

La domanda era stata repentina ma Dimitri impiegò solo un attimo per riordinare le idee e cominciare a parlare velocemente, come faceva sempre quando era eccitato.

-Ieri sera studiavo una delle vecchie mappe che hai visto sulla scrivania.

Prese fiato un attimo come se cercasse le parole giuste.

-In quella mappa antica vi è un riferimento alla parola greca phoinix, fenicio, con la spiegazione del suo significato. Phoinix viene tradotto generalmente col termine'rosso', ma a bordo mappa si dice che anticamente voleva dire 'pellerossa'.La scritta è quasi cancellata e io stesso non vi avrei dedicato troppa attenzione se non fosse per quel disegno raffigurante un mostro marino al largo della costa africana. Veramente affascinante...

Disse a voce alta osservando la silhouettedella moglie, avvolta in una vestaglia trasparente, per poi riprendere la sua spiegazione.

-Devi sapere, mia cara, che i greci omerici chiamavano con l'appellativo di pellerossa gli emigranti dell'isola di Creta, dove abitavano i Pelasgi, gli Eteocretesi che erano poii Keftiu egiziani, 'uomini delle Stirpi Marine', affini ai libici nell'Africa Settentrionale, ai Liguri in Italia, agli Iberi in Spagna, alle razze che vivevano lungo tutta la via mediterraneo-atlantica verso l'Oriente. Razze queste che a giudicare dalle pitture murali lasciate nelle sedi in cui abitavano potrebbero essere tardi discendenti neolitici dei Cro Magnon. Rappresentano infattifigure umane 'pellirosse' o rossobronzee, senza barbacome i Toltechi e gli Aztechi del Messico precolombiamo. Altre cose cambiano ma il colore della pelle è un indizio stabile per la distinzione delle razze nei millenni: se lo sono i discendenti probabilmente anche gli antenati erano 'pellirosse', del tutto o in parte. Sembra che un riverbero dell'eterno Occidente, del 'Tramonto di tutti i soli', arda sul giovane volto dell'Europa.

Se ciò che penso è vero, questo rappresenta un legame tra le antiche popolazioni europee e gli indiani d'America!

Ecco cosa ho scoperto, forse tutte le popolazioni attuali del mondo hanno un'unica origine: Atlantide. Una civiltà scomparsa dalla faccia della terra e trasformata in mito ma non senza lasciare parte della sua antica popolazione su entrambe le sponde dell'Oceano Atlantico, in America, in Europa e in Africa.

Pensa alla stirpe dei Baschi, chiusa tra i Pirenei, parla una lingua antica e particolare che non somiglia a nessun'altra lingua d'Europa, d'Africa e d'Asia ma che se guardi bene assomiglia assai alle lingue delle razze paleoamericane. Se questa lingua, come molti ritengono, è un frammento salvo per miracolo dell'antichità dei Cro Magnon, è probabile il legame dell'Europa paleolitica con le lingue dell'antica America.

Capisci che questa è una scoperta incredibile?

Zanaida lo guardo dritto negli occhi, afferrò con forza il colletto della camicia da notte attirandolo verso le sue labbra sensuali e trascinandolo a letto ancora una volta.

Carte e mappe soccombettero alla forza vitale dei due giovani sposi...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 17 aprile 2014

I custodi della storia (Capitolo VII) - Notte insonne

L'agenda cominciava con una data, il due marzo 1988, sei anni prima. In quell'anno io mi trovavo ancora in Sardegna – pensai – e non immaginavo neppure lontanamente come sarebbe stata la mia vita futura.
Cominciava con una nota isolata sulle notizie di un viaggio in terre sconosciute riportato in un testo ormai perduto di Filone di Biblo.
Claudio sembrava credere che alcuni frammenti di quel libro esistessero ancora. La sua convinzione derivava dal fatto che durante una visita ad uno dei soliti mercatini dell'usato aveva trovato un vecchio volume francese del 1836 della Revue des deux mondes in cui si parlava proprio di questo viaggio in un articolo dal titolo:Sulla scoperta d'un manoscritto contenente la traduzione di Sanchuniathon, di Filone di Biblos”.
Non avevo idea di chi fosse Sanchuniaton, nei libri non avevo mai incontrato questo nome a differenza di Filone di Biblo di cui ricordavo che era uno storico greco del primo secolo dopo Cristo ma niente più.Mi sarei informato con calma il giorno dopo presso la biblioteca dell'università.
Poi, di seguito vi era l'articolo tradotto dal francese, pagine fitte di parole, piene di cancellature, ripensamenti e correzioni, come di chi legge e traduce di getto.
Non era facile decifrare quella scrittura ma la curiosità era tanta e il sonno ormaiera andato via del tutto. Mi avvicinai al camino per usufruire appienodella tenue luce del fuoco e cominciai a leggere con pazienza.
Se la storia antica, disse uno storico saggioha subito una perdita sensibile ed in nessun modo recuperabile, è soprattutto a causa della scomparsadegli scritti che trattavano della costituzione delle imprese e delle opere dei Fenici. Tantoquesto popolo ha influito sullo sviluppo dell'umanità per le sue invenzioni, per aver stabilito le sue numerose colonie e per il suo commercio immenso, che maggiormente si sente la mancanza che la perdita di questi scritti ha lasciato nei fasti del genere umano.
Tuttavia, malgrado questa assenza totale di documenti originali, il venerabile professore di Gottinga, non avendo come soccorso che pochi dati sparsi tra la Bibbia e gli autori greci e latini, ma guidato da quella coscienza intima che egli ha della vita dei popoli dell'antichità, è riuscito a farci conoscere la situazione politica, costituzione, le colonie fenicie e le rotte che seguiva nel suo immenso commercio, tanto per terra che per mare. Ma che talvolta si rammaricava, nel suo libro, di non avere sotto gli occhi le storie di Dius e di Menandro d'Efeso di cui Giuseppe Flavioci ha conservato alcuni frammenti, e soprattutto la storia della Fenicia scritta da Sanchuniathon, di cui Eusebio, nella sua Preparazione evangelica, ha citato dei lunghi frammenti che, disgraziatamente, non contengono che la parte cosmogonica dell'opera.”
Mentre leggevo avevo sempre più la sensazione di essermi imbattuto in una storia lunga e complicata.
Claudio doveva avere una conoscenza dell'antichità enorme, cosa che io non avevo. Avrei impiegato anni per acquisire le nozioni utili alla comprensione di tutto i riferimenti presenti in quella sua agenda, ora mia. La cosa però mi dava soddisfazione. Provavo quasi la stessa sensazione che provai da bambino entrando in un nuraghe la prima volta. Le enormi pietre mi sormontavano quasi a volermi schiacciare ma io le sentivo amiche e protettrici. Così l'agenda mi travolgeva con le sue parole, ma io le sentivo stimolanti.
Sarebbe stata una impresa che avevo inconsciamente già deciso affrontare.
“Così egli ha dovuto apprendere con vivissima gioia, ma senza dubbio misto con qualche incertezza, la notizia annunciata da circa sei mesi dai giornali, che la traduzione greca di Sanchuniathon, a cura di Filone di Biblo, era stata ritrovata in un convento portoghese.”
Le parole “convento portoghese” erano evidenziate in giallo come se la cosa avesse grande importanza. Eppure non vi era nessuna nota che mi aiutasse a capire di che si trattasse o di quale fosse il convento. Forse il professore aveva in mente qualcosa che a lui era già noto e perciò non riteneva necessario approfondire ma semplicemente evidenziare la cosa. Ma io cosa potevo fare? Io non sapevo niente di conventi portoghesi! Mi fermai un attimo, posai l'agenda e cercai una matita nel cassetto dello scrittoio. Cominciai a prendere appunti anche io. Cominciai proprio con “cercare informazioni sui conventi portoghesi”. Avrei iniziato una mia agenda parallela. Mi sarebbe stata utile pensai. E aggiunsi: “Cercare notizie su Sanchuniathon”. Quindi continuai a leggere.


La sua gioia e la sua incertezza, sono condivise da tutti gli amici dell'antichità, ma lo scoramento ha subito seguito la speranza quando si è visto che questo annuncio non fu seguito da alcun altro documento, sia sullo stato del manoscritto, sia sul contenuto, sia sul suo futuro editore. Questo terribile silenzio è stato rotto, infine, dalla pubblicazione di un volantino annunciato quale precursore del testo greco di Filone, e dal titolo:“Analisi della storia primitiva dei Fenici secondo Sanchuniathon, fatta sul manoscritto recentemente ritrovato della traduzione completa di Filone”; con delle osservazioni di Wagenfeld. Questo volantino apparso presso Hahn, ad Hannover, contiene inoltre un facsimile del manoscritto e un proemio del dottor G.F. Grotefend, direttore del Liceo di Hannover, conosciuto da lungo tempo nel mondo dei saggi per importanti lavori coi quali si è librato sulle iscrizioni di Persepoli e su quelle della Licia.

Altre cose da approfondire – pensai – e ricopiai i nomi di Wagenfeld e Grotefend, direttore del liceo di Hannover. Forse avrei potuto trovare qualche informazione anche su questi signori, soprattutto se avevano scritto qualcosa di importante.

Cosa dobbiamo pensare di questa pubblicazione? Dobbiamo guardarla come una mistificazione o come un documento serio? Il nome di Grotefend, se non se ne è abusato, come si è abusato questo inverno del nome di Herschell, non consente ancora di vedere in questa brochure l'opera di un falsario? La germania non èla classica terra di questo tipo di soperchierie di cui l'Italia ha dato così tanti funesti esempi. La buana fede, meglio, il candore germanico, non ammette ancora una tale supposizione.”

- Ecco! Ancora una volta emerge lo stereotipo dell'italiano imbroglione e falsario! Già tante volte ho sentito queste parole. Purtroppo anche all'università, dove si trovavano studenti di tutte le nazioni, la cosa era abbastanza risaputa. L'italiano medio era generalmente considerato un imbroglione, falsario e poco affidabile e il comportamento tenuto da certi miei colleghi di studi non faceva certo cambiare idea. Mi era capitato diverse volte di discutere con colleghi stranieri ma di solito mi ero dovuto ritirare di fronte ai troppi esempi concreti. Meglio proseguire nella lettura, pensai a voce alta mentre con gli occhi scorrevo voracemente le righe dell'agenda.

Il fac simile del manoscritto unito alla brochure, è realizzato con una scrittura molto antica, che mostra la mano non di un greco, ma di un uomo dell'occidente; un falsario non avrebbe scelto preferibilmente un carattere di questo genere che avrebbe potuto tradirlo. Dirò di più, un mistificatore il cui scopo sarebbe stato principalmente quello di ottenere una vendita a prezzo elevato, avrebbe cercato di comporre un libro più divertente, avrebbe messo più episodi romanzeschi; difficilmente si inventa la storia completa di un popolo come quello dei fenici, che, ad ogni passo è esposto a tradirci. Ora dobbiamo convenire seguendo l'analisi di Sanchuniathon, la semplicità e la verità della narrazione, le sue coincidenze con la Bibbia, la molteplicità di dettagli, la semplicità con cui i nomi propri si possono spiegare con l'ebraico, tutto sembra annunciare una composizione originale. Per finire, ma questo argomento lo introduco non senza qualche forzatura, l'autore, che fissa l'esistenza di Sanchunuathon al VI sec. A.C., non ha tralasciato di inserire nel suo libro la storia della fondazione di Cartagine e soprattutto il racconto dell'assedio di Tiro da parte di Nabuchodonosor, tanto che si ferma al nono secolo, limitandosi ad indicare gli storici che hanno raccontato gli avvenimenti posteriori. Non si può usare come argomento negativo l'epoca tardiva della scoperta, altrimenti si dovrebbe negare l'esistenza della Repubblica di Cicerone, delle Istituzioni di Gaio, della Cronaca di Eusebio, delle diverse opere di Lido e così via. Non si tratta, d'altronde, della prima menzione che si fa d'un manoscritto di Sanchuniaton. Beck in una nota sulla Biblioteca greca di Fabricius, afferma che esiste un frammento inedito di questo autore presso la biblioteca Medicea a Firenze; egli aggiunge che un terzo frammento è stato raccolto in oriente da Peiresc che lo ha portato a Roma an padre Kircher ma che quest'utimo si rifiutò di pubblicarlo. Infine Leon Allatius ha, se non mi inganno, detto di aver visto con i suoi propri occhi un manoscritto di Filone di Biblo in un monastero nei pressi di Roma.”

Aggiunsi queste informazioni sulla mia agenda, alla voce Sanchuniathon.

Non riuscivo a credere ai miei occhi, più leggevo e più cominciavo a capire l'importanza della scoperta del mio ex professore. In tutti questi anni aveva continuato a insegnare, studiare e viaggiare inseguendo le flebili tracce scoperte per caso in quello che si potrebbe definire un manoscritto ritrovato, anche se incompleto e magari falso. Eppure se Claudio aveva fatto tutto questo, qualcosa di vero doveva pur esserci! Mi segnai nell'agenda anche il nome di Sanchuniathon, non vedevo l'ora di saperne di più su questo storico del VI° secolo a.C.. E chissà chi era questo padre Kircher e Leon Allatius. Quante cose da approfondire mi attendevano. Ma ormai non avevo scelta. Era una sfida che avevo già accettato.

“Il solo argomento negativo che ha qualche senso è l'assenza di qualunque informazione precisa sul manoscritto che si pretende sia stato scoperto nella penisola spagnola. Ma se è vero, come si dice, che questo libro proviene da un convento portoghese che fu saccheggiato ai tempi della spedizione di don Pedro contro suo fratello, e che è stato portato in Germania da un ufficiale di Hannover, si può capire perché si esiti a citare i nomi propri. Opinioni molto differenti sono già state emesse su questa scoperta. Noi sappiamo, dall'Athenaeum del 25 luglio scorso, che il saggio Gesenius, il più celebre di tutti gli studiosi ebrei della germania, Gesenius, che ci promette la spiegazione prossima delle iscrizioni fenicie rispettate dal tempo, si è pronunciato in favore dell'autenticità del manoscritto del quale il signor Wagenfend ha appena pubblicato l'analisi. E' anche vero che secondo lo stesso giornale il signor Wilken, lo storico delle crociate, si è pronunciato in senso negativo, ma qualunque sia il rispetto che merita l'opinione del signor Wilken, in questa materia quella del signor Gesenius dovrebbe sorpassarla.

Ecco ancora un personaggio da approfondire, Gesenius, e da come se ne parlava doveva essere molto famoso, non sarebbe stato difficile trovarlo.

Noi dobbiamo aggiungere che, se dobbiamo credere all'articolo dell'Athenaeum, il signor Grotefend ha pubblicato la seguente nota sul libro del signor Wagenfeld: “Per prevenire l'intenzione laddove si potrebbe fare (...) di tradurre quest'opera in altre lingue”

Perché? Perché impedire la traduzione in altre lingue? Perché questo accanimento contro una possibile scoperta epocale? Si chiedeva il professore per poi riprendere immediatamente la traduzione. In effetti era uno strano comportamento ma era ancora presto per prendere posizione.

“io credo che sia mio dovere il dichiarare pubblicamente e senza perder tempo, che dopo le informazioni raccolte fino ad ora, io sono moralmente convinto che l'estratto di Sanchuniathon non è altro che un ingegnoso falso. E io faccio questa dichiarazione senza attendere alcuna ricerca che richiederebbe troppo tempo; perché, anche supponendo che alla fine il risultato dimostrasse che questa dichiarazione non sia fondata, la stessa sarà sufficiente sin da ora per impegnare il signor Wagenfeld a difendere il suo onore dando prova della sua onestà".

Ma, a primo acchito, questa nota difficilmente può essere opera del signor Grotefend.

Come! O egli è stato crudelmente falsificato, oppure si è slealmente abusato del suo nome ed egli si limita a qualificare l'opera come "ingegnosa finzione"; e questa dichiarazione per parte sua non ha altro scopo che di impedire la traduzione della brochure in altre lingue straniere! Ma, nell'uno o nell'altro caso, chi non avrebbe cominciato per schiacciare il falsario sotto il peso della giusta indignazione, senza preoccuparsi se delle traduzioni in altre lingue avrebbero potuto contribuire a propagare l'errore? Se la nota sull' Athenaeum è del signor Grotefend, potrebbe darsi che sia stata snaturata dal traduttore inglese, sia involontariamente, sia a causa di un interesse personale, queste erano le riflessioni che suggerivano all'autore di questo articolo una tale complicazione di incidenti e di dubbi, quando ha ricevuto la lettera seguente del signor Grotefend, al quale si era indirizzato per eliminare le proprie incertezze. (Hannover, 18.8.1836)

A questo punto la scrittura si faceva più fluente.

Era come se Claudio avesse ora una marcia in più nella traduzione, forse aveva trovato qualcuno che lo aiutava, magari uno studente come me che conosceva il francese. Purtroppo non c'era nessun riferimento in proposito. Comunque vi erano sempre meno cancellature e la traduzione era più chiara e anche i termini utilizzati erano più attinenti all'argomento di cui si parlava.

“Signore,

poco tempo dopo aver raccomandato ai saggi l'analisi della traduzione di Sanchuniathon a cura di Filone di Biblo, che si pretende aver scoperto recentemente, mi sono convinto che l'autore di questa analisi non è che un mistificatore e mi sono ritrovato nella necessità di esprimere pubblicamente i miei dubbi sulla autenticità della sua scoperta. E' vero che esistono tanti motivi a sostegno dell'autenticità dell'opera che gli uomini più attenti possono difficilmente trovare materia per dubitare. Ma come tutto ciò che è apparso su questo soggetto al pubblico dal signor Wagenfeld, un insigne mistificatore, e siccome nessuno fino ad ora ha potuto esaminare il manoscritto, si è autorizzati a dubitare della sua autenticità, se non del tutto, almeno su molti dettagli. Si è d'altronde ancor più lontani dall'attendersi una simile soperchieria da parte di un giovane uomo candidato in teologia e filosofia a Brema, che l'amore per la verità è il tratto caratteristico dei tedeschi. Ma purtroppo il signor Wagenfeld ha così poco amore per la verità che mi sono visto obbligato a rompere tutte le relazioni con lui. I dubbi che ho espresso sui giornali non avevano altro scopo che il metterlo con le spalle al muro, al fine di arrivare almeno a qualche certezza. Questo ha avuto come risultato di costringerlo a trattare con la libreria Schunemann, a Brema, per la stampa dell'originale greco. Ma disgraziatamente si dubita ugualmente dell'autenticità di questo originale. Ed anche ammettendo che questo testo greco abbia avuto per base un antico manoscritto non è possibile prendere per argento sonante ciò che viene da un uomo che, come il signor Wagenfeld, è noto che per il piacere di imbrogliare il pubblico, non teme di far ricorso all'impostura.
G.F.Grotefend.
Chissà cosa accadde tra Wagenfeld e Grotefend per giustificare parole così pesanti! Forse la mia curiosità sarebbe stata soddisfatta più avanti. Mi fermai un attimo e guardai il vecchio orologio appeso sul camino. Erano le tre e la mattina mi sarei dovuto alzare alle sette per andare al lavoro. Poi avevo lezione dalle undici e trenta alle quindici, quindi di nuovo in portineria fino alle venti. Era stata una giornata intensa ed eccitante, l'agenda aveva portato nella mia vita un pizzico di mistero, ma ora era arrivato il momento di riposare, avrei proseguito con calma il giorno dopo.

Vai al Cap. VIII: Dimitri.
Alesssandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 13 aprile 2014

I custodi della storia (Capitolo VI) - Dentro la piramide

L'eco della pietra che cadeva lungo lo stretto corridoio si poteva seguire da lontano. Sicuramente il corridoio si inoltrava all'interno della piramide mantenendo una pendenza molto forte.

Andrea il carpentiere era appena arrivato, accompagnato da altri due uomini di rinforzo mandati dal Capitano.

Si fermò giusto il tempo necessario per bere un po' d'acqua e poi seguì il nostromo e frate Nicola che precedendolo gli indicavano il foro a metà altezza nella parete della grande piramide. Andrea salì su per la parete senza un attimo di esitazione allenato dal suo lavoro quotidiano di controllo degli alberi del vascello e raggiunto il foro vi aveva gettato una pietra per cercare di capire dal rumore cosa lo attendesse. Si girò verso i due compagni e disse di essere disposto a provarci.

- Certo, si può fare. Entrerò con la testa in avanti e voi mi reggerete con due corde così se occorre potrete tirarmi fuori da quel buco! Disse Andrea senza un attimo di esitazione.

I preparativi furono veloci e qualche minuto dopo Andrea si introduceva strisciando come un serpente nelle fredde viscere della piramide. In mano reggeva una piccola lampada ad olio legata ad una corda che reggeva con la mano sinistra e che gli avrebbe consentito di vedere davanti a se. Nella mano destra reggeva un lungo coltello, in caso di brutti incontri.

- Ora calatemi lentamente! Disse rivolto ai compagni che reggevano le corde.
Dopo pochi metri lo stretto cunicolo voltava a destra sottraendo il giovane carpentiere alla vista dei suoi compagni.
- Quaggiù il cunicolo si allarga! – Urlò Andrea una volta raggiunta una solida base – qui si può avanzare camminando in piedi. Proseguì lungo il corridoio tirandosi dietro le corde. Il corridoio aveva una forma trapezoidale ed era realizzato con pietre enormi perfettamente squadrate. Su ogni lato si aprivano degli altri corridoi più stretti che probabilmente servivano a distribuire l'aria fresca nei locali più interni. Andrea avanzava sicuro reggendo in alto la lampada e osservando ogni particolare per poterlo poi descrivere quando fosse uscito. Dopo circa una decina di metri notò alla sua destra all'altezza della sua faccia una pietra sporgente lavorata a forma di uccello, con una grossa sporgenza a forma di becco. La superficie era ricoperta da una specie di sostanza rossastra e gli occhi erano fatti in pietre dure, incastonate nella roccia con maestria, di particolare fattura e di colore giallo. Usò il coltello per estrarre le pietre pensando potessero avere un qualche valore e le mise in tasca. Le avrebbe consegnate a Vadino che avrebbe saputo ricompensarlo. Purtroppo il cunicolo terminava poco più avanti con una enorme lastra verticale che probabilmente era crollata da parte del soffitto. Impossibile proseguire. Un odore fetido, come di carcasse di animali riempiva l'ambiente. Forse il crollo aveva intrappolato qualche animale che ora si decomponeva lentamente. Si voltò e ripercorso il cunicolo all'indietro chiamò i compagni perché lo tirassero fuori.

Qualche minuto più tardi si trovava nuovamente all'aperto con i compagni che lo attorniavano.
- Signor nostromo, ho trovato queste pietre, erano gli occhi di una specie di testa d'uccello scolpita nella roccia. - Disse, porgendo le pietre a Vadino. E proseguì nella descrizione accurata di ciò che aveva visto e della impossibilità di usare quel passaggio per proseguire l'esplorazione. Occorreva trovare un altro ingresso.

- Bene Andrea, tieni queste monete. Ottimo lavoro. Disse il Nostromo lanciandogli tre monete d'oro. In certi casi occorre essere generosi, la fedeltà va sempre premiata. Pensò Vadino.

Il carpentiere prese le monete e ringraziò per la generosità.

L'impossibilità di proseguire l'esplorazione della piramide non significava niente. Avrebbero controllato i dintorni alla ricerca di altre informazioni. La giungla era fitta e di tanto in tanto emergevano dalla vegetazione delle grosse pietre che sembravano lavorate dalla mano dell'uomo. Se la fortuna li avesse assistiti avrebbero potuto trovare qualche altra cosa. Vadino aveva ancora due giorni di tempo e non intendeva certo starsene con le mani in mano ad aspettare che il caso o la fortuna bussassero alla porta. I suoi genitori gli avevano insegnato che la fortuna occorre cercarsela da sé e lui la pensava esattamente allo stesso modo.

Chiamò tutti gli uomini a rapporto e organizzò le ricerche per la giornata. Due di loro sarebbero restati al campo con l'incarico di controllare che non si avvicinassero troppo le besti che avevano sentito la notte precedente. Gli altri divisi in gruppi da tre avrebbero esplorato l'area circostante alla ricerca di altre costruzioni.

Vai al Cap. VII: Notte insonne.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 31 marzo 2014

I custodi della storia (Cap. IV) - Terra!


Era stata una giornata pesante.

Dopo lo sbarco era immediatamente iniziato un lavoro febbrile tra la nave e il campo a terra. Tutti si muovevano su e giù dalla nave scaricando barili, attrezzatura e materiale da costruzione, cordame, vele, reti da pesca, strumenti di misura e da disegno.

I carpentieri si misero subito all'opera per ispezionare la nave e riparare i danni della lunga navigazione. Altri iniziarono a riparare le vele e controllare il cordame del vascello.

Ma il grosso del lavoro era a terra.

Era necessario preparare un campo prima di dare inizio alla esplorazione della nuova terra, bisognava raccogliere tutte le informazioni possibili sulle caratteristiche del territorio, sulle risorse disponibili e sulla presenza di indigeni.

Il campo era situato ad alcune centinaia di metri dalla linea di costa in cui eravamo sbarcati. Il luogo era ben protetto dai venti e si trovava a circa dieci metri sul livello del mare, al sicuro dall'alta marea e allo stesso tempo sufficientemente lontano dalla foresta che si estendeva a perdita d'occhio lungo tutta la costa.

La prima notte qualcuno aveva notato dei fuochi sulla cima della collina, a qualche miglio di distanza dal campo e la voce si era diffusa velocemente tra gli uomini, forse non era niente ma era meglio assicurarsene. Occorreva verificare che sull'isola non si trovassero indigeni ostili prima di potersi dedicare alla raccolta delle provviste che avrebbero consentito di proseguire l'esplorazione della nuova terra.

Inoltre occorreva risolvere immediatamente il problema dell'acqua, le riserve custodite a bordo erano quasi finite. Era necessario trovare una sorgente al più presto.

Il Capitano Vivaldi organizzò accuratamente l'esplorazione dell'isola dividendo il personale in tre gruppi.

Il primo e più numeroso sarebbe restato al campo base con l'incarico di costruire una palizzata difensiva contro la visita di animali o di ospiti non desiderati e di provvedere alla ricerca dell'acqua e alla raccolta di provviste.

Il materiale da costruzione non mancava di certo e i carpentieri erano degli esperti nel tagliare e lavorare il legno. Nel giro di mezza giornata con l'aiuto di una squadra di mozzi avevano tagliato gli alberi necessari a costruire il recinto e le capanne per gli uomini. La sera il recinto era quasi terminato e un riparo provvisorio fu innalzato per la notte. A poca distanza dal campo fu trovato un ruscello dall'acqua era fresca e pulita.

Gli altri due gruppi esplorarono la costa fino ad una distanza di tre ore dal campo e rientrarono al campo prima prima che tramontasse il sole senza aver trovato tracce di vita umana. In compenso avevano catturato diversi esemplari di una razza tipica di maiali del luogo. Dopo mesi di navigazione un po' di carne avrebbe fatto bene al loro fisico debilitato.



Le esplorazioni sarebbero proseguite nei giorni seguenti ma non diedero alcun risultato di rilievo. Nessuna traccia di villaggi indigeni o della presenza dell'uomo.

Il terzo giorno una squadra raggiunse la collina sulla quale la sera dell'arrivo erano state viste delle luci ma questa volta le cose erano diverse.

Di fronte alla squadra di esploratori si ergeva una antica costruzione in pietra. Segno indiscutibile della presenza umana.

Era una specie di piramide in pietra abbandonata da secoli.

Frate Nicola in quei primi giorni si era dedicato a prendere appunti e a disegnare mappe. Aveva tenuto traccia nel suo diario degli avvenimenti principali durante la navigazione e della posizione delle stelle per cercare di calcolare la rotta tenuta e la distanza percorsa. Le sue osservazioni sarebbero state utili al suo rientro ed erano quanto di più prezioso possedesse. Quando la squadra tornò con la notizia del ritrovamento di una strana costruzione a forma di piramide fra' Nicola decise che il giorno dopo sarebbe andato anche lui sul posto per raccogliere informazioni. Forse i suoi studi questa volta potevano risultare utili. Durante gli ultimi anni aveva passato molto tempo a lavorare per arricchire la biblioteca dell'Ordine e sempre sotto la guida di Giovanni aveva letto molti libri di storia. Classici latini e greci.

La mattina dopo il drappello partì dal campo di buon ora. Frà Nicola seguiva il nostromo che aveva il compito di guidare la spedizione. Durante il viaggio che durò appena quattro ore e non presentò alcuna difficoltà si fermò diverse volte ad osservare la flora e la fauna e a prendere appunti. Vi erano piante simili a quelle europee ma quasi sempre erano di dimensioni differenti, molto più grandi e rigogliose. Fratello Giovanni sarebbe stato molto utile in quel momento. Lui aveva avuto una grande conoscenza dei frutti della terra. Raccolse alcune piante che potevano essere utili per le loro capacità curative e altre che invece destavano il suo interesse per le forme particolari e i colori sgargianti. Arrivati alla piramide il nostromo Vadino Doria diede disposizioni per preparare un campo temporaneo. Avrebbero passato alcune notti nei pressi della piramide per esplorare la zona con calma ma occorreva come al solito premunirsi dagli animali e da eventuali visite inaspettate. Il lavoro iniziò subito e tutti si diedero da fare. Fu approntato un rifugio temporaneo utilizzando i resti in pietra di quella che sembrava una capanna abbandonata da tempo e che avrebbe dato riparo ai dieci uomini del gruppo. Acceso il fuoco, i marinai si sedettero a mangiare del pesce salato e dei tuberi allungati che crescevano in parte sotto terra e che dopo cotti avevano un buon sapore anche se un po dolciastro. C'era acqua in abbondanza e se non fosse stato per la distanza dal mare che avrebbe impedito di sorvegliare la nave, sarebbe stato un ottimo posto per il campo permanente. Nel frattempo frate Nicola e Vadino e due mozzi armati di grossi coltelli cominciarono ad esplorare i dintorni della piramide. Era una struttura antica, abbandonata forse da secoli. In mezzo alle grosse pietre erano cresciute delle piante alte anche venti metri e che, a giudicare dalla dimensione del tronco dovevano avere almeno cento anni. La piramide era costruita a scaloni. Il primo era alto almeno due metri e le rocce utilizzate erano enormi. I quattro uomini si arrampicarono sul primo livello e fecero tutto il giro della piramide a forma perfettamente quadrata. Ogni lato doveva essere lungo circa cento metri. La piramide presentava una grossa apertura solo su un lato che dava verso est. Purtroppo l'ingresso era crollato da tempo ed era impossibile rimuovere le rocce che ne ostruivano il passaggio. Nel mezzo di ogni lato si trovavano delle scalinate che da terra portavano fino alla cima. Dal basso non le avevano notate a causa della vegetazione ma ora era facile individuarle. Decisero di salire in cima alla piramide per vedere se era possibile accedere alla struttura. La piramide era alta circa cinquanta metri ed era composta da diversi livelli, sembravano cinque grosse piattaforme impilate l'una sull'altra e in cima, al centro dell'ultima piattaforma, vi era una grossa roccia piatta scolpita, una specie di altare, pensò subito frate Nicola. Purtroppo da lassù non era possibile entrare all'interno della costruzione. Avrebbero dovuto esplorare tutte le pareti con calma per cercare un qualche accesso secondario.

Il tramonto si avvicinava quando uno dei mozzi lanciò un urlo per richiamare l'attenzione del nostromo. Aveva trovato qualcosa. Una specie di stretto cunicolo si apriva a metà della parete ovest e sembrava penetrare all'interno della piramide per alcuni metri prima che il buio impedisse di vedere oltre.

- Solo un ragazzo o un uomo molto magro potrebbe pensare di entrare ad aesplorare quel cunicolo e di riuscire a uscirne vivo. Disse il nostromo rivolgendosi a frate Nicola sconsolato.

- Pensavo che forse uno dei giovani carpentieri forse potrebbe farcela. Mi sembra si chiami Andrea, ma è restato al campo base. Potremmo mandarlo a chiamare e se tutto va bene domani in tarda mattinata potremmo averlo qui da noi. Cosa ne pensate Vadino? Rispose frate Nicola, senza troppa convinzione.

- Vale la pena di provare. Chiamati due dei suoi uomini gli diede disposizioni affinchè rientrassero al campo e riferissero al Capitano le scoperte e le loro esigenze. Sarebbero dovuti tornare la mattina dopo con il carpentiere che si chiamava Andrea.

I due uomini partirono subito. Andando di buon passo con un po' di fortuna sarebbero arrivati al tramonto.

Non sarebbe stato semplice entrare nella piramide e la luce cominciava a calare. Avrebbero ripreso l'esplorazione il giorno dopo con calma, sperando di trovare qualche altro passaggio più praticabile. Intanto gli altri uomini avevano terminato di appontare il riparo e avevano preso alcuni esemplari di grossi animali che assomigliavano a grossi conigli selvatici e che avrebbero fatto da cena per quella sera.

Mangiarono con gusto e poi andarono tutti a dormire. Dell'erba gettata in terra avrebbe fatto da giaciglio e una vecchia coperta di lana li avrebbe protetti dal freddo della notte. Il fuoco ardeva al centro della capanna e alcuni rami freschi sarebbero serviti a chiudere l'ingresso di quell'improvvisato rifugio. La stanchezza era tanta e tutti si addormentarono pesantemente.

Frate Nicola e il nostromo si sedettero vicino al fuoco e passarono una mezz'ora a chiacchierare del loro viaggio. Vadino Doria era poco più grande di frate Nicola. Doveva avere trentacinque o trentasei anni. Apparteneva ad una importante e famosa famiglia genovese che vantava molti avi nella marina e nel commercio. Da piccolo aveva sempre avuto come esempio da seguire uno zio materno che era un Capitano della marina genovese. Sin da piccolo aveva viaggiato con lo zio attraversando il mediterraneo in lungo e in largo. Nonostante la sua giovane età conosceva i venti e le stelle meglio della propria città e se qualcuno poteva guidarli attraverso l'oceano quello era proprio lui. E così era stato! Ora dava dimostrazione di essere anche un buon comandante, tranquillo ma deciso e autorevole, gli uomini lo rispettavano anche più del Capitano. Il Capitano era temuto, Vadino invece era amato e rispettato. Si erano appena sdraiati ai piedi del fuoco quando sentirono un fruscio subito fuori dall'accampamento li fece alzare di colpo. Vadino afferrò la sua sciabola e frate Nicola raccolse un grosso bastone da terra. Era meglio controllare che non si trattasse di qualche animale pericoloso. Svegliarono gli uomini dell'accampamento e armati di torce uscirono a controllare. Mentre rimuovevano i rami che chiudevano l'ingresso un ruggito li mise in allarme. Doveva essere un leone o un animale simile. Il buio non permetteva di vedere che a pochi passi e non era il caso di allontanarsi dal campo. Accesero altri fuochi nei dintorni e tornarono dentro l'accampamento, rinforzando il tetto e l'ingresso con alcuni tronchi raccolti la davanti.

- Sarà meglio se qualcuno resta di guardia questa notte– disse Vadino rivolgendosi ai suoi uomini – turni da due ore. Il primo turno è il tuo Giovanni. Disse Vadino ad uno dei suoi che sembrava più riposato.

- Io gli faccio compagnia – disse frate Nicola –tanto non ho più sonno.

Stabiliti i turni di guardia gli altri tornarono a dormire. La notte era ancora lunga e il giorno dopo avrebbero dovuto proseguire la loro esplorazione e dovevano riposare, per quanto possibile.

La notte proseguì senza altri problemi. Il grosso animale si era fatto sentire qualche altra volta ma sempre più in lontananza. Evidentemente il fuoco ed i rumori lo avevano spaventato. Il resto della notte passò tranquilla e gli uomini poterono finalmente riposare.

Vai al Cap. V: L'agenda
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 17 marzo 2014

I custodi della storia (Cap. II) - Il viaggio

Anno del signore 1290, 2 gennaio.
 
Era una fredda giornata d'inverno quando Nicola e Lazzaro lasciarono Assisi alla volta di Genova dove li attendeva una nave per la Sardegna. Da li sarebbero partiti poco dopo alla ricerca di una terra lontana e sconosciuta, nel lontano ovest, sanza sapere se sarebbero mai tornati a casa.
Nicola, il più anziano, aveva compiuto da poco quarant'anni anche se non li dimostrava. Portava i capelli tagliati corti e una folta barba nera incorniciava la sua faccia squadrata e dalla pelle abbronzata. Il naso aquilino gli dava un'aria nobile e forte. Era nato ad Assisi quarto figlio di una famiglia di ricchi commercianti ma era entrato in convento già all'età di dodici anni dove aveva preso gli ordini minori.
Lazzaro ne aveva dieci in meno di anni, anche lui era nato ad Assisi ma apparteneva ad una famiglia povera. Era alto poco più di Nicola ma di corporatura più esile. Di carattere calmo ma fermo nelle decisioni, si era subito trovato bene con Nicola che considerava un po' come un fratello maggiore. Il padre era stato soldato di ventura ed era morto in una scaramuccia con alcuni commilitoni. I frati lo avevano accolto con amore dopo la morte della madre quando aveva appena compiuto otto anni.
Entrambi vestivano il saio scuro dei francescani, portavano ai piedi dei vecchi sandali aperti e intorno al collo il Tau, la croce di Francesco, il fondatore del loro Ordine. Nella povera bisaccia di cuoio custodivano i loro tesori, alcuni testi di preghiere, un antico diario di viaggio, alcune mappe e l'occorrente per scrivere e disegnare.
Avevano discusso a lungo del viaggio col loro fratello Giovanni. Era stato Giovanni a raccontargli della mappa e della possibilità di raggiungere il lontano Oriente viaggiando verso Occidente. Giovanni era stato il loro insegnante di Latino e greco antico e le sue conoscenze dei classici erano enormi. Spesso, durante il lavoro, gli raccontava le storie che aveva letto tanti anni prima con una tale disinvoltura che il tempo passava senza che neppure se ne accorgessero. Nicola e Lazzaro ci avevano pensato tante volte a quel fantastico viaggio verso oriente e ora ora che lui era morto non avevano più nessuno che li trattenesse.
Guidati dalla fede nel loro Signore e dalla Regola che li avrebbe aiutati a sopportare un così lungo viaggio partirono sicuri di riuscire dove altri avevano fallito.
Sapevano bene a cosa andavano incontro, o forse era l'esatto contrario a spingerli, l'incoscienza, ma erano pronti a mettere a rischio le loro vite per conquistare nuove terre alla fede.
Il loro successo sarebbe stato il successo di fratello Giovanni. Dio li avrebbe guidati e soccorsi.
Non erano soli nell'impresa. Con loro viaggiavano i giovani rampolli di alcune famiglie liguri, Ugolino Vivaldi e Vadino, Guido e Teodisio della famiglia Doria. Quattro giovani avventurieri che avevano fondato una società con l'intento di raggiungere le Indie e tentare così la fortuna.
Per il viaggio allestirono due navi, la Sant'Antonio e l'Allegranza, dando fondo ai risparmi accumulati dalle loro famiglie e con la loro ciurma costituita da marinai, pirati redenti e semplici mozzi, partirono alla ricerca di fortuna, alla volta di una terra misteriosa e ricchissima di cui avevano sentito parlare nelle antiche storie che si tramandavano in famiglia.
Il viaggio sarebbe stato lungo e difficile ma così è la vita.
Solo sei persone sapevano approssimativamente cosa li attendeva. Ne avevano discusso a lungo coi tre frati prima di farsi convincere ad investire tutte le loro fortune in una impresa che poteva significare la fortuna di tutti come la morte.
Durante la preparazione del viaggio avevano pianificato tutto per stare in mare tre mesi di seguito prima di fare scalo. I genovesi avevano conosciuto i tre frati durante un viaggio di lavoro ad Assisi. Avevano cenato nella stessa osteria e bevuto vino rosso alla stessa tavola fino a che non avevano sentito parlare fratello Giovanni che raccontava di una sua lettura in cui era descritto un viaggio in una terra lontanissima e immensa ad ovest della Spagna, oltre l'Oceano. Giovanni assicurava che nel libro che aveva letto alcuni anni prima vi era una mappa e lui era certo di averla vista. Gliela avrebbe mostrata alla prima occasione dato che il libro sicuramente si trovava ancora nella biblioteca della famiglia del fondatore dell'Ordine. I genovesi avendo sentito Giovanni parlare di questa terra lontana, avevano loro offerto da bere e cominciarono a far domande. Giovanni era sempre felice di avere attorno giovani vogliosi di ascoltarlo raccontare le storie da lui lette e non aveva lesinato in particolari. Raccontò di una terra straniera, il cui ricordo era perduto nel tempo, una terra immensa che si estendeva da un estremo all'altro del mondo e che millenni prima era stata raggiunta dai viaggiatori che partirono dalle coste del mediterraneo.
Così avevano stretto amicizia ed era nata l'idea del viaggio.
Ci volle del tempo prima che la mappa fosse ritrovata e che i preparativi per il viaggio fossero completati. Una brutta polmonite si portò via fratello Giovanni che non poté assistere alla partenza dei suoi giovani confratelli.
Nicola e Lazzaro partirono da Genova in una giornata di primavera, costeggiando la Corsica, diretti verso Castelgenovese, castello e porto del nord Sardegna appartenente alla famiglia Doria. Da lì, dopo aver fatto rifornimento di viveri e acqua, sarebbero ripartiti dieci giorni dopo alla volta delle colonne d'Ercole.
Il tempo era buono e non ci sarebbero state più soste, fino all'arrivo in Africa sulla costa Atlantica, dove avrebbero fatto scalo all'altezza del fiume Geba. Il viaggio durò trentadue giorni durante i quali i marinai oltre al loro lavoro alle vele passavano il tempo a pescare per integrare il cibo della cambusa con del pesce fresco. Un giorno un forte temporale rischiò di mandare a picco l'Allegranza ma proprio quando la situazione si era fatta più critica il temporale cessò e il tempo cambiò con insolita velocità. I due frati furono visti pregare in ginocchio per la salvezza delle anime con le braccia rivolte al cielo, incuranti della pioggia e dei fulmini, e questo era stato sufficiente per indurre i marinai a credere che lo scampato pericolo fosse opera della loro intercessione verso dio.
Erano le dieci del mattino quando il nostromo avvisò il capitano che erano arrivati a Geba. Un fiume di acqua dolce e fango si inoltrava per miglia e miglia prima di disperdersi nell'acqua azzurra dell'oceano, segnalando ai marinai esperti la sua inconfondibile presenza.
Gettarono le ancore a circa mezzo miglio dalla riva fangosa poco oltre la foce del fiume. Un gruppo di selvaggi aveva acceso un fuoco per segnalare un approdo sicuro e l'intenzione di scambiare le proprie merci, principalmente frutta e acqua, con i marinai. Era una pratica comune lungo le coste dell'Africa. Spesso i marinai lasciavano le loro mercanzie sulla riva dove in precedenza gli abitanti della zona avevano lasciato le loro merci e lo scambio avveniva sulla fiducia. Altre volte era possibile scendere a terra e trattare con i commercianti del luogo.
La sosta fu breve e tranquilla. I marinai sbarcarono per fare rifornimento nel vicino villaggio. Comprarono cibo fresco per altri tre mesi di viaggio in alto mare e cinque giorni dopo già si ripartiva. La sera prima di partire tre marinai scesero a terra mezzi ubriachi e allontanatisi nella giungla all'inseguimento di una specie di maiale selvatico non tornarono più indietro.
La mattina dopo, all'alba, il convoglio prese il largo con tre marinai in meno, diretto senza alcun tentennamento ad ovest.
La costa si allontanava velocemente. Le due imbarcazioni avanzavano velocemente nell'oceano spinte da un vento forte e regolare. I primi giorni di viaggio il tempo si mantenne buono anche se il vento aumentava costantemente la sua forza.
Il quarto giorno di navigazione, poco prima di mezzogiorno, il cielo cominciò a farsi scuro e all'orizzonte si profilava un grosso temporale. Le onde cominciarono a crescere di altezza fino a raggiungere i dieci metri di altezza. I galeoni, grandi e sicuri fino a quel momento, sembravano diventati dei gusci di noce in balia del mare. Incapaci di qualsiasi manovra i marinai della Sant'Antonio ammainarono le vele sperando che questo li aiutasse a resistere al vento e alla forza delle gigantesche onde. L'Allegranza invece volse la prua verso est per aggirare il temporale con l'unico risultato di venire trascinata lontano dalla Sant'Antonio. Dopo pochi minuti le due navi si persero di vista. Per tre giorni e tre notti gli uomini dell'Allegranza restarono in balia della burrasca cercando di lottare per sottrarre la nave alla furia del mare e dei venti. Il temporale infuriava tutto intorno a loro e la nave cigolava sinistramente sotto i possenti colpi delle onde, diffondendo sinistri presagi tra gli uomini spossati e scoraggiati. Il quarto giorno il vento era calato leggermente e le nuvole si erano aperte ad ovest lasciando intravvedere un lembo di cielo azzurro in lontananza.
La Sant'Antonio era stata più fortunata.
Il temporale non li aveva risucchiati al suo interno ma li aveva sospinti indietro, verso le coste dell'Africa lasciate qualche giorno prima. Sfortunatamente il galeone aveva subito danni all'albero maestro e non era più in condizione di percorrere un lungo viaggio. I marinai erano troppo sfiduciati per proseguire e due giorni dopo approdarono a poca distanza dal fiume Geba dove cominciarono immediatamente i lavori di riparazione, sperando di rivedere di li a poco i compagni della Allegranza. Le cose sarebbero andate diversamente, ma nessuno poteva saperlo.
Il mare aveva deciso diversamente.
Sarebbero passati quarantasei giorni prima che l'Allegranza e il suo equipaggio potesse vedere in lontananza una scura linea di costa e i due gruppi non si sarebbero mai più rivisti.
A bordo dell'Allegranza il Capitano Ugolino Vivaldi e il nostromo Vadino Doria, accompagnati da frate Nicola proseguirono il viaggio verso ovest.
Prima di lasciare le coste dell'Africa Nicola e Lorenzo si erano salutati augurandosi di potersi riabbracciare presto. Ognuno di loro portava con se una copia della mappa. Il viaggio era stato lungo e faticoso ma niente in confronto a ciò che li aspettava.
Dopo il temporale che li aveva separati dalla Sant'Antonio il viaggio proseguì per venti giorni senza particolari problemi. Il ventunesimo giorno dalla fine del temporale alcuni giovani marinai poco abituati alle privazioni avevano cercato di convincere gli altri a tornare indietro. Il Capitano Vivaldi li aveva sentiti confabulare tra loro e lamentarsi con il resto della ciurma. Li aveva affrontati di petto, minacciandoli di buttarli a mare se non avessero smesso immediatamente.
Uno dei tre estratto il coltello e aveva provato a saltargli addosso ma era stato troppo lento, il Capitano l'aveva passato a fil di spada sul ponte della nave per poi buttarlo ai pesci, ancora vivo.
- Volete seguire il vostro amico?
Disse torvo ai due mozzi che lo guardavano con il terrore negli occhi.
- Liberi di scegliere. O proseguite con me o potete buttarvi in acqua. Potrete proseguire a nuoto verso la costa se ne avete la forza, oppure più probabilmente, finirete nella pancia di qualche grosso pescecane come quelli che potete vedere banchettare la sotto. La spuma dell'acqua, bianca fino a qualche istante prima, era diventata rossa del sangue del loro compagno le cui parti si contendevano tra grossi squali dalle enormi pinne grige.
Che scegliessero liberamente la loro sorte.
A malincuore i due giovani ripresero il lavoro dietro stretta sorveglianza del nostromo e dei marinai più anziani, più abituati alla dura disciplina di bordo.
- Siete stati incoscienti e fortunati voi due. Due anni fa il capitano della nave sulla quale ero imbarcato per molto meno ha fatto impiccare un mozzo all'albero maestro! - Disse uno degli anziani ai giovani, guardandoli di sottecchi.
- Finitela di lamentarvi o vi abbandoneremo, vi siete imbarcati volontariamente e non si torna indietro fino a che non lo deciderà il Capitano. E poi sarebbe da stupidi morire adesso che il viaggio è quasi giunto alla fine.
In effetti i più esperti avevano già notato i segni distintivi della presenza di una terra non troppo lontana. Da due giorni il numero degli uccelli acquatici era aumentato e le acque diventavano a tratti più chiare. Rami e foglie si intravvedevano in superficie, trascinati dalla corrente, segno inconfondibile della presenza di una terra non troppo lontana. Qualche giorno di navigazione al massimo e la terra sarebbe stata avvistata.

Il due luglio dell'anno del signore 1292 il marinaio di guardia urlò con quanto fiato aveva in corpo:
- Terra! Terra!
Il Capitano si diresse immediatamente a prua per osservare l'orizzonte. Alzò la mano destra all'altezza della fronte per proteggersi gli occhi dal sole e confermò la scoperta con un cenno del capo.
Di fronte a loro si stagliava la costa di una terra sconosciuta, solo accennata con una linea nera sulla mappa dei due francescani.
Il Capitano Ugolino Vivaldi accompagnato dall'amico e nostromo Vadino Doria, da fratello Nicola e dai centododici marinai superstiti si trovarono di fronte quella linea scura di terra che si estendeva a perdita d'occhio all'orizzonte.
Ancora un giorno di viaggio e sarebbero finalmente sbarcati.
Il tre luglio il Capitano mise piede sulla terra ferma prendendone possesso in nome del Comune di Genova. Fratello Nicola ne era testimone di fronte a Dio ma non era più tanto sicuro di aver fatto la cosa giusta.
La morte del giovane marinaio l'aveva colpito profondamente. Non avrebbe mai pensato che il Capitano Vivaldi, quel giovane simpatico conosciuto nella taverna di Assisi, avrebbe potuto uccidere. Forse avevano sbagliato tutto – pensò – non era questo che immaginava prima di partire. Avevano messo in conto sofferenze e privazioni ma non gli omicidi. Se aveva ucciso un suo uomo senza batter ciglio, cosa avrebbe potuto fare ad uno sconosciuto? Ma oramai era tardi per tornare indietro, occorreva riporre le speranze nelle mani del Signore.
Appena messo piede sulla spiaggia si gettò a terra in ginocchio e pregò dio padre perché proteggesse la sua anima.

Vai al cap. III: Un'occasione mancata.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO