Ancora una volta il presidente del consiglio di turno, un piemontese stavolta, pone il veto sul passaggio della legge elettorale.
Dopo il referendum di novembre 2016, dal quale il governo Renzi uscì sconfitto a larga maggioranza, il nuovo governo non aveva più avuto bisogno di usare il veto.
Evidentemente qualcosa sta cambiando e anche il movimento è diventato come i partiti che combatteva!
A.R.
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domenica 21 agosto 2016
sabato 20 agosto 2016
Narni, antica città Umbra
Oggi decidiamo di visitare l'antica città di Narni, in Umbria.
Un tempo il suo nome era Narnia, città romana, prima ancora Nequinum, insediamento Osco-Umbro. I Romani la presero nel 299 a.C. e le cambiarono nome.
Nel 30 d.C. vi nasce l'Imperatore Romano Nerva e la città, nonostante il tempo, ha un'aria aristocratica.
Girando per le strade si intuisce che la città è stata importante.
Gli stemmi nobiliari sovrastano le porte di molti antichi edifici.
Le chiese ricordano le famiglie dei papi e dei signori locali.
Un tempo antico, sembra che a Narni vi fosse un porto. Alcuni stemmi infatti ci fanno pensare ad imprese marinare.
Le chiese sono ricche di tesori dell'arte italiana, di tutti i tempi.
Sculture e pitture inestimabili stanno al loro posto, da secoli.
Purtroppo alcune volte il tempo dimostra la sua forza ma senza portarne via completamente la bellezza.
Oggi, girando per le strade, di tanto in tanto si sente qualcuno che
suona, entrando nelle chiese non è difficile trovare qualche ragazzo che
suona il violino, in compagnia del suo insegnante.
L'ambiente è infatti
adattissimo a sviluppare la giusta confidenza che il musicista deve
avere con il suo strumento.
Più tardi, nel XIV secolo, viene costruita la Rocca di Albornoz, nobile e difensore del territorio papale.
La Rocca è ancor'oggi bene conservata e sovrasta la città, come a volerla proteggere.
Anche per oggi la gita è finita, andiamo via con nel cuore le immagini di una piccola splendida città.
Per cui vi saluto, amici, alla prossima!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
giovedì 18 agosto 2016
D’Annunzio e Gramsci profeti a Fiume
Disertori
in avanti, così definì Filippo Tommaso Marinetti gli autori
dell’impresa fiumana capeggiati dal poeta Gabriele D’Annunzio. Poco meno
di tremila legionari fuoriusciti dal regolare Regio Esercito
occuparono, nel settembre del 1919,
la città di Fiume e la dichiararono italiana. Pietro Badoglio, che in
quel periodo era stato nominato dal Governo Nitti Commissario
Straordinario per la Venezia-Giulia li dichiarò disertori e ne voleva la
testa. Si sfiorò una guerra civile in un territorio,
quello fiumano, che veniva annesso al Regno d’Italia senza che il Re e
il Governo lo volessero, tra l’altro D’Annunzio diede a Fiume una
costituzione repubblicana scritta dal leader del Sindacalismo
Rivoluzionario Alceste de Ambris. Fiume, dopo la Prima Guerra
Mondiale, essendo a maggioranza italiana, divenne territorio di contesa
sull’onda dell’irredentismo italiano che aveva contribuito alle ragioni
stesse dello scoppio della guerra. Alla fine del conflitto, la
Conferenza di Parigi stabilì che Fiume non poteva
essere Italiana, e a molti nazionalisti italiani questa decisione non
piacque, perché contraddiceva uno dei principi della Conferenza stessa,
quello della “Autodeterminazione dei Popoli”. D’Annunzio si fece
portavoce di questa contraddizione e con i suoi legionari
occupò Fiume.
Perchè questa vicenda ci porta ad Antonio Gramsci, dato che D’Annunzio e
Gramsci militavano su fronti molto diversi?
D’Annunzio, borghese, di destra, nazionalista e successivamente vate del fascismo poco sembrerebbe avere in comune con Gramsci, operaista, di sinistra, internazionalista e fondatore successivamente del Partito Comunista d’Italia. Per capirlo dobbiamo partire da alcune considerazioni e dalla figura di Alceste de Ambris, colui che scrisse la Costituzione della Fiume italiana.
D’Annunzio, borghese, di destra, nazionalista e successivamente vate del fascismo poco sembrerebbe avere in comune con Gramsci, operaista, di sinistra, internazionalista e fondatore successivamente del Partito Comunista d’Italia. Per capirlo dobbiamo partire da alcune considerazioni e dalla figura di Alceste de Ambris, colui che scrisse la Costituzione della Fiume italiana.
Gramsci
non ha mai disprezzato ne la borghesia nel suo profondo ne l’Unità
d’Italia, certo lui da sinistra pensava ad una società diversa da quella
borghese e monarchica uscita dal processo dell’Unità d’Italia. Gramsci
voleva più protagonismo
per le classi subalterne soprattutto per i braccianti del sud che, a
suo dire, erano stati traditi dal Risorgimento. Tuttavia Gramsci vedeva
nella Borghesia una classe emancipata ed evoluta rispetto alla classe
parassitaria dei nobili e vedeva nell’Unità
d’Italia comunque un progetto di emancipazione e una opportunità anche
per la classe operaia. Nell’impresa di Fiume Gramsci vede esplodere tutte
le contraddizioni della monarchia, della borghesia dominante e del
processo unitario. La quasi guerra civile
che sembrava esserci tra d’Annunzio e il governo Italiano
testimoniavano l’incompiutezza del processo risorgimentale, e la
fragilità della classe dominante. D’Annunzio, dal canto suo, affidò la
costituzione della
Reggenza Italiana del Carnaro – così si chiamò la repubblica
italiana di Fiume - ad un Repubblicano e fondatore del sindacalismo
rivoluzionario, il socialista Alceste de Ambris. La Costituzione di de
Ambris (nota come Carta del Carnaro) superava di molto
lo statuto Albertino in termini rivoluzionari, termini cari anche ad
Antonio Gramsci. Riporto qui due degli articoli più significativi, della
carta del Carnaro, perché a ben vedere assomigliano molto alla nostra
attuale Costituzione Repubblicana:
« Art.
2 - La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta, che ha per base
il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie
funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di
tutti i cittadini
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di
religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per
quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l'armonica
convivenza degli elementi che la compongono. »
« Art.
5 - La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini, senza
distinzione di sesso, l'istruzione primaria, il lavoro compensato con un
minimo di salario sufficiente alla vita, l'assistenza in caso di
malattia o d'involontaria
disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l'uso dei beni
legittimamente acquistati, l'inviolabilità del domicilio, l'habeas
corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di
abuso di potere. »
Sembra
la nostra costituzione, anzi essa si porta avanti, prevede addirittura
il salario minimo garantito. Queste posizioni che evidentemente venivano
dal repubblicano e socialista de Ambris colpirono l’attenzione di
Gramsci. Gramsci sembra
scorgerci le soluzioni ai problemi del processo unitario così come li
aveva intravisti anche lui. Gramsci cercò di incontrare d’Annunzio, ma
non fece in tempo (in realtà non lo sappiamo per certo), l’esperienza
fiumana finì presto. D’Annunzio ritornò su posizioni
di destra che lo portarono a sostenere Mussolini, Gramsci uscì dal
Partito Socialista per andare verso posizioni più radicali e fondare il
PCd’I . Sullo sfondo resta la figura poco nota di Alceste de Ambris. De
Ambris fu antifascista, ma restò nel Partito
Socialista Italiano, si trasferì a Parigi per scampare al fascismo,
anche se Mussolini, che da giovane condivideva le stesse idee di de
Ambris, cercò di portarlo nel partito fascista. In Francia de Ambris si
adoperò per fondare la LIDU (Lega Italiana per i
Diritti dell'Uomo) ma morì a soli 60 anni. Dopo la seconda guerra
mondiale, nel 1964, alcuni Socialisti e Repubblicani con una
sottoscrizione fecero tornare la salma in Italia – oggi sepolta a Parma –
e sulla lapide hanno fatto scrivere:
"Alceste de Ambris - scrittore-tribuno-combattente per la libertà e la giustizia. Licciana 1874 - Brive 1934".
Alessandro GHINASSI
mercoledì 17 agosto 2016
San Gemini
Poche parole e molte foto per questa visita a San Gemini, nei pressi di Terni, il borgo dell'acqua.
Chiesa di San Giovanni, costruita su un antico tempio a base ottagonale
Caratteristica osteria al torchio
Il Duomo di San Gemine
Piazza San Francesco
Chiesa di San Francesco
Palazzo del comune
Chiesa di Santa Maria de Incertis
Alessandro Rugolo
Chiesa di San Giovanni, costruita su un antico tempio a base ottagonale
Caratteristica osteria al torchio
Il Duomo di San Gemine
Piazza San Francesco
Chiesa di San Francesco
Palazzo del comune
Chiesa di Santa Maria de Incertis
Alessandro Rugolo
martedì 16 agosto 2016
Papa Francesco tra crisi dell’occidente, guerra e Misericordia.
Papa
Francesco forse verrà ricordato come l’uomo della misericordia, che è
anche il tema del suo giubileo anomalo. Il giubileo di Bergoglio è
diffuso in tutto il mondo,
non è Roma-centrico, ed è anche un giubileo protratto nel tempo, perché
è previsto per un anno ma che probabilmente vedrà le porte giubilari
aperte per molto più tempo, forse per sempre o chiuse solo dopo la
morte del Papa.
E’
un giubileo senza enfasi, sommesso, e quindi ricondotto alla sua
origine di pellegrinaggio (inteso come l’uomo che cerca) e il primo
pellegrino è stato proprio Bergoglio
che è andato personalmente ad aprire molte delle porte giubilari, anche
in terre dove si estende al minaccia islamista come nel cuore
dell’Africa. Ma l’atto di misericordia più duro il Papa l’ha dovuto fare
recentemente, invitando i mussulmani a pregare nelle
chiese cattoliche e a ricordare che l’islam non è solo violenza. Le
critiche per questa posizione al Papa non sono mancate,
da una parte c’è chi sostiene che la lingua “affilata”(per non dire
biforcuta) del gesuita Bergoglio è un abile strumento per insidiare
la barbarie dell’Islam, dall'altra
c’è chi sostiene che questo “buonismo” rischia di essere funzionale al
disegno islamista, considerato altrettanto subdolo. Per
fare un discorso più attento, in realtà, occorre ricondurre il problema
alla individuazione della crisi di civiltà a cui noi assistiamo in
questo inizio di millennio. Non è semplice, perché le questioni aperte
sul tavolo sono molte.
La crisi economica.
A
differenza di quello che si percepisce in realtà siamo di fronte ad una
crisi petrolifera, nel senso che il petrolio non vale più nulla,
nonostante il conflitto con
il Califfato e le contrazioni della produzione, il prezzo del greggio
non sale. Per la prima volta nella sua storia contemporanea l’Arabia
Saudita, ad esempio, ha dovuto contrarre la spesa pubblica, e questo
comporta sicuramente un problema per i paesi produttori
con la conseguente scelta di campo e probabili simpatie per il
Califfato. Sulla crisi monetaria si è parlato molto, sia delle cause
che dei rimedi, Draghi ha fatto più di un miracolo, ma di fatto non
riusciamo a far circolare moneta in occidente e in particolare
in Europa, con la conseguente depressione della produzione
industriale. Anche la scelta della Gran Bretagna di uscire dall’euro è
sicuramente legata alla necessità per quel paese di fare circolare più
moneta, paradossalmente la stessa necessità che ha la
Grecia.
La crisi dei valori dell’occidente.
Pretesto
o meno, il disprezzo verso i nostri valori e lo stile di vita
dell’occidente è sicuramente la leva più usata per il reclutamento del
Califfato. Un disprezzo che
serpeggia anche tra chi islamico non è. Noi occidentali stessi abbiamo
difficoltà a riconoscere i nostri valori costitutivi e ad accettare la
complessità della vita moderna. L’impoverimento diffuso, soprattutto
della classe media e la crisi del lavoro portano
alla crisi delle istituzioni democratiche e di rappresentanza con la
conseguente crisi degli organi intermedi, quali i sindacati, i partiti,
le associazioni di categoria e quelle culturali, con l’unica eccezione
del volontariato religioso ma anche laico. Tra
i valori democratici dell’occidente c’è il rispetto dell’individuo,
sancito con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma che
oggi è minacciato dalla questione dei migranti e di tutti i problemi che
la questione della migrazione porta nella convivenza
quotidiana. Il caso più eclatante della crisi dell’occidente è
sicuramente la Turchia. Un paese, la Turchia, che in breve tempo, da
esempio positivo di occidentalizzazione si è trasformato in un regime al limite
del dispotismo, che mette in crisi il senso e il ruolo della NATO
stessa. Trump ha definito la NATO un inutile orpello. Anche se si
considera il tentato golpe turco un
fatto inaccettabile, occorre capire come è stato possibile che in
questo ultimo decennio la Turchia si sia avviata verso un situazione pre-dittatoriale.
Questo
è lo scenario di crisi che anche Bergoglio si trova ad affrontare, uno
scenario quasi da “collasso” di una civiltà, ed egli vuole, al di là
delle considerazioni
strategiche che si possono fare, conciliare i valori cristiani di cui
la misericordia è un cardine fondamentale, con i valori della modernità e
della laicità, senza essere modernista e laicista. Questa è la grande
visione di Papa Francesco, in una situazione
di involuzione egli non vuole uno scontro di civiltà tra cattolici e
laici, e non vuole neanche uno scontro di civiltà generico con l’islam,
anche in questo senso va capita la missione della misericordia. Egli
infatti circoscrive le questioni non in base alle
questioni banalmente religiose o banalmente politiche e se è necessario
bacchetta pure la chiesa al suo interno, ma al contrario smussa i
conflitti fuori e dentro la chiesa, cerca di conciliare e non di
dividere, sembra ricordarci in ogni momento il detto
evangelico: “pace in terra agli uomini di buona volontà”. Questo forse è lo scontro di
civiltà che Papa Francesco ritiene utile combattere, tra chi è uomo di
buona volontà e chi non lo è, indipendentemente se sei cristiano, laico,
ebreo o mussulmano. Ovviamente la Difesa non fa
teologia ed ha le sue prerogative stringenti e inderogabili – fa un
altro mestiere –, ma dovrebbe apprezzare comunque la lezione di
Bergoglio. Perché noi vinceremo questa guerra anche se capiremo di
essere dalla parte giusta, e la parte giusta non è quella
dei cattolici contro i laici, dell’Occidente contro l’Oriente, ma è
quella della misericordia e della tolleranza contro l’intolleranza e il
disprezzo per l’Uomo e l’Umana Famiglia.
Alessandro Ghinassi
lunedì 15 agosto 2016
Badoglio, di Silvio Bertoldi
Il Maresciallo d'Italia dalle molte vite.
Così recita titolo e sottotitolo.
Pietro Badoglio, nominato Maresciallo d'Italia il 25 giugno 1926!
Bisogna ricordare che il grado di Maresciallo d'Italia fu istituito nel 1924 da Mussolini per rendere onore a Cadorna e Diaz, che avevano comandato durante la 1^ Guerra Mondiale.
Poi lo stesso Mussolini utilizzò il grado come ricompensa per alcuni Ufficiali Generali che si erano particolarmente distinti (sempre durante la Grande Guerra!), tra questi, nel '26, Pietro Badoglio.
Ma cosa fece di così sensazionale Badoglio?
Pietro Badoglio nasce a Grazzano Monferrato il 1° settembre 1871. Entra all'Accademia Reale di Torino nel 1888 e due anni dopo inizia la sua brillante carriera militare.
L'autore, Silvio Bertoldi, afferma che Badoglio faceva parte della Massoneria e che ciò gli consentì in una certa misura di avere sempre qualche carta sicura da giocare.
L'autore, Silvio Bertoldi, afferma che Badoglio faceva parte della Massoneria e che ciò gli consentì in una certa misura di avere sempre qualche carta sicura da giocare.
Di fatto, all'ingresso in guerra dell'Italia (il 23 maggio 1915 dichiara guerra all'Austria-Ungheria) Badoglio è Tenente Colonnello, assegnato allo Stato Maggiore della 2^ Armata, presso il comando della 4^ Divisione, allora alle prese con il problema della conquista del Monte Sabotino, postazione fortificata degli austriaci, a difesa di Gorizia, città che dal 1500 circa faceva parte del territorio austriaco.
Nel mentre Badoglio avanza di grado. Nel maggio del 1916 viene promosso Colonnello e ricopre l'incarico di Capo di Stato Maggiore del IV Corpo d'Armata.
Il Sabotino era la spina nel fianco del Generale Montuori, Comandante della IV Divisione. Da un anno si cercava di dare l'assalto alla postazione senza però riuscirvi. I soldati erano scoraggiati.
Secondo la testimonianza del Generale Montuori fu proprio Badoglio che spiegò come fare:
"Usando il sistema delle parallele, come mi è stato insegnato alla Scuola di Applicazione di Artiglieria e Genio. Il Sabotino è una fortezza e bisogna attaccarlo nel modo classico di operazione contro fronte rafforzato."
Non tutti concordano sul fatto che sia stato Badoglio l'ideatore del piano, sta di fatto che fu proprio lui che ne raccolse i frutti. Sembra comunque certo che in qualità di Comandante del 74° Reggimento di Fanteria prima, che operò proprio in preparazione dell'attacco al Sabotino, e poi come esterno per controllare il prosieguo dei lavori svolti dal 139° Reggimento della Brigata Bari e dai due Reggimenti della Brigata Lupi di Toscana, svolgesse un ottimo lavoro.
Il 6 agosto 1916 il Sabotino è preso.
Il comandante della 45^ Divisione è il Generale Venturi, Badoglio è il Comandante della Brigata mista che compie l'attacco. Finito l'attacco Badoglio se ne tornò al VI Corpo d'Armata, dove era Capo di Stato Maggiore. Il Comandante della Divisione lo avrebbe voluto punire per non aver proseguito l'azione in profondità. Il Generale Capello invece lo propose per una promozione al Duca d'Aosta, Comandante della III Armata.
Il comandante della 45^ Divisione è il Generale Venturi, Badoglio è il Comandante della Brigata mista che compie l'attacco. Finito l'attacco Badoglio se ne tornò al VI Corpo d'Armata, dove era Capo di Stato Maggiore. Il Comandante della Divisione lo avrebbe voluto punire per non aver proseguito l'azione in profondità. Il Generale Capello invece lo propose per una promozione al Duca d'Aosta, Comandante della III Armata.
Badoglio, a 45 anni, è nominato Maggiore Generale.
Nel 1917 prende parte alla battaglia della Bainsizza prendendo il posto prima del Generale Garioni (II Corpo d'Armata) e poi del Generale Vanzo (XXVII Corpo d'Armata), silurati da Capello.
Fa ciò che può e alla fine si ritrova ancora una volta promosso per meriti di guerra a Tenente Generale. Badoglio è ora al comando del XXVII Corpo d'Armata.
Forse Badoglio aveva fatto carriera troppo velocemente, forse sopravvalutava le sue capacità di stratega, fatto sta che, proprio quando non dovrebbe fallire, arriva la sua caduta che si chiama Caporetto!
Dico che non avrebbe dovuto fallire perché aveva tutte le informazioni necessarie per vincere. Infatti il 20 ottobre 1917 un Ufficiale disertore si presentò sulle linee dell'Isonzo. Portava con se i piani d'attacco degli Austro-Ungarici. Si sapeva tutto, giorno, ora, dispositivo avversario e modalità d'attacco. Forse fu proprio quello il problema, si sapeva troppo e ciò spinse i Generali sul fronte a fare i loro piani e a dimenticare con troppa facilità che esiste una gerarchia.
Badoglio era tranquillo, aveva disposto le sue truppe come riteneva meglio (non come gli era stato ordinato di fare!) e aveva dato i suoi ordini, si era riservato la facoltà di dare l'ordine di tiro alle artiglierie. Forse aveva pensato di attirare il nemico in una trappola, nemico che secondo le informazioni note doveva passare proprio nel suo settore. Tra i nemici si trovavano anche i tedeschi e tra questi un giovanissimo Ufficiale, Rommel.
Fatto sta che il nemico sfondò il fronte esattamente dove tutti sapevano che sarebbe passato.
Badoglio, in vece che trovarsi sul fronte, sull'Ostri-Kras, da dove avrebbe potuto dare all'artiglieria l'ordine di sparare, si trovava arretrato sul Cosi.
Fu tagliato fuori dal suo Corpo d'Armata e non fu in grado di dare nessun ordine ne di sapere cosa stava accadendo sul fronte.
Il risultato lo conosciamo tutti. Il fronte fu sfondato e le truppe italiane si ritirarono (non proprio ordinatamente) fino ad arrivare al Piave.
Dico che non avrebbe dovuto fallire perché aveva tutte le informazioni necessarie per vincere. Infatti il 20 ottobre 1917 un Ufficiale disertore si presentò sulle linee dell'Isonzo. Portava con se i piani d'attacco degli Austro-Ungarici. Si sapeva tutto, giorno, ora, dispositivo avversario e modalità d'attacco. Forse fu proprio quello il problema, si sapeva troppo e ciò spinse i Generali sul fronte a fare i loro piani e a dimenticare con troppa facilità che esiste una gerarchia.
Badoglio era tranquillo, aveva disposto le sue truppe come riteneva meglio (non come gli era stato ordinato di fare!) e aveva dato i suoi ordini, si era riservato la facoltà di dare l'ordine di tiro alle artiglierie. Forse aveva pensato di attirare il nemico in una trappola, nemico che secondo le informazioni note doveva passare proprio nel suo settore. Tra i nemici si trovavano anche i tedeschi e tra questi un giovanissimo Ufficiale, Rommel.
Fatto sta che il nemico sfondò il fronte esattamente dove tutti sapevano che sarebbe passato.
Badoglio, in vece che trovarsi sul fronte, sull'Ostri-Kras, da dove avrebbe potuto dare all'artiglieria l'ordine di sparare, si trovava arretrato sul Cosi.
Fu tagliato fuori dal suo Corpo d'Armata e non fu in grado di dare nessun ordine ne di sapere cosa stava accadendo sul fronte.
Il risultato lo conosciamo tutti. Il fronte fu sfondato e le truppe italiane si ritirarono (non proprio ordinatamente) fino ad arrivare al Piave.
Il libro di Bertoldi esamina con attenzione la battaglia di Caporetto attribuendo a Badoglio la sua parte di responsabilità e prosegue poi nel racconto della sua vita ricca di successi. Badoglio che da Caporetto uscì come un vincitore nonostante la disfatta, dovette godere di appoggi molto altolocati, il dossier contenente le accuse verso di lui sparì e così egli fu l'unico (e principale responsabile della disfatta) che si trovò promosso.
Eppure Caporetto non sarà l'ultima disfatta di Badoglio. Prima vi fu la Grecia, poi la seconda guerra mondiale lo vede tra i principali responsabili della impreparazione dell'esercito al suo ingresso in guerra e quindi della completa impreparazione delle Forze Armate lasciate senza ordini successivamente all'armistizio dell'8 settembre 1943. Dalla caduta di Mussolini era lui il primo ministro, su incarico del Re.
Ma anche allora Badoglio ebbe modo di risollevarsi e andò a ricoprire la carica di presidente del Consiglio fino alla fine della guerra, messovi questa volta, forse, dagli Alleati che lo consideravano uomo di fiducia.
Nel 1944, all'età di 73 anni, terminava la sua fortunata carriera.
Doveva vivere ancora a lungo, morirà infatti all'età di 85 anni, ma la sua fortuna l'aveva abbandonato e ciò che gli aveva dato in vita (fama, soldi, potere e famiglia), gli fu portato via negli ultimi anni.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
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