Traduttore automatico - Read this site in another language

domenica 14 luglio 2013

Sulla storia dei fenici secondo Sanchuniathon, tradotto da Filone di Biblos

Carissimi amici lettori,
la mia lontananza da queste pagine vi avrà forse fatto pensare di esservi finalmente liberati di me, ma aihmè, non è così!
In questi tempi mi sono dedicato come non mai alla ricerca e nel corso dei miei approfondimenti storici mi sono imbattuto in un autore antico fenicio chiamato Moco o Mosco o simili nomi. Approfondendo le mie conoscenze su questo autore, che sembra sia esistito ed abbia operato prima della guerra di Troia, mi sono imbattuto sempre per caso in un articolo pubblicato sulla Revue des deux mondes su un'opera di Filone di Biblo, la supposta traduzione in greco della storia della fenicia. In questo articolo del 1836 si parla delle colonne dell'ercole fenicio, Mélicerte in Francese, ovvero Melqart.
Nell'articolo, che ho appena terminato di tradurre dal francese (che per il poco tempo a disposizione non è certo ben fatta), si parla anche delle colonne d'Ercole e di un viaggio compiuto da Mélicerte nel Mediterraneo, viaggio che lo ha portato a toccare varie isole e ad arrivare fino a Tartesso. Nell'articolo si parla inoltre delle colonie e fondazioni dei fenici e con sorpresa ho notato che la Sardegna, citata con un altro nome (Gadyla) aveva una sola piccola città fondata dai fenici, posta tra la Sardegna e la Corsica. Tale città non è nominata ma credo si tratti di Porto Torres in quanto già in altri testi ho visto che la fondazione dei Porto Torres è fatta risalire al 1700 a.C. circa e che vi si trovava, nei pressi, un altare dedicato ad Ercole.
Ammesso e non concesso che ciò che si racconta sia vero e non un falso come da alcuni sospettato, cosa può significare la quasi totale mancanza di informazioni sulle città della Sardegna di supposta origine fenicia?
 Vi sono dubbi sulla autenticità di questo testo e esistono dubbi anche sulla reale esistenza di Filone di Biblo ma, se il documento di cui parla la Revue des deux mondes è reale e se Filone ha effettivamente tradotto la storia della fenicia secondo Sanchuniathon, allora sembra che i fenici non siano arrivati in Sardegna in tempi molto antichi, forse sono stati solo i Cartaginesi a cercare di stabilirvi dei porti (ad eccezione di Porto Torres)!
Credo che la cosa meriti maggior attenzione per cui vi invito tutti a leggere con attenzione il testo che segue e lasciare i vostri commenti.
Perdonate la traduzione veloce, mi rendo conto che in certi punti lascia un po a desiderare ma ho preferito dare a tutti la possibilità di approfondire, io mi dedicherò a fare lo stesso e a migliorare la traduzione con calma questa estate.
Ho trovato anche un altro riferimento alla questione in una rivista italiana del 1836 (Ricoglitore italiano e straniero), ma ancora non l'ho letto completamente per cui per ora non ne parlo.
Vi lascio dunque a questa interessantissima lettura sull'origine dei fenici, buona lettura.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


Sulla scoperta d'un manoscritto contenente la traduzione di Sanchuniathon, di Filone di Biblos.

(Revue des deux mondes. Sept. 1836, tomo 7, pag. 543-564)

“Se la storia antica, disse uno storico saggio1 ha subito una perdita sensibile ed in nessun modo recuperabile, è soprattutto a causa della scomparse degli scritti che trattavano della costituzione delle imprese e delle opere dei Fenici. Più questo popolo ha influito sullo sviluppo dell'umanità per le sue invenzioni, per aver stabilito le sue numerose colonie e per il suo commercio immenso, tanto più si sente la mancanza che la perdita di questi scritti ha lasciato nei fasti del genere umano.

Tuttavia, malgrado questa assenza totale di documenti originali, il venerabile professore di Gottingua, non avendo come soccorso che pochi dati sparsi tra la Bibbia e gli autori greci e latini, ma guidato da quella coscienza intima che egli ha della vita dei popoli dell'antichità, è riuscito a farci conoscere la situazione politica, costituzione, le colonie fenicie e le rotte che seguiva nel suo immenso commercio, tanto per terra che per mare. Ma che talvolta (de fois) si rammaricava, nel suo libro, di non avere sotto gli occhi le storie di Dius e di Menandro d'Epheso2 di cui Giuseppe ci ha conservato alcuni frammenti, e soprattutto la storia della Fenicia scritta da Sanchuniathon, di cui Eusebio, nella sua Preparazione evangelica, ha citato dei lunghi frammenti che, disgraziatamente, non contengono che la parte cosmogonica dell'opera. Così egli ha dovuto apprendere con vivissima gioia, ma senza dubbio misto con qualche incertezza, la notizia annunciata da circa sei mesi dai giornali, che la traduzione greca di Sanchuniathon, a cura di Filone di Biblo, era stata ritrovata in un convento portoghese. La sua gioua e la sua incertezza, sono condivise da tutti gli amici dell'antichità, ma lo scoraggiamento ha subito seguito la speranza quando si è visto che questo annuncio non fu seguito da alcun altro documento, sia sullo stato del manoscritto, sia sul contenuto, sia sul suo futuro editore. Questo terribile silenzio è stato rotto, infine, dalla pubblicazione di un volantino annunciato quale precursore del testo greco di Filone, e dal titolo: “Analisi della storia primitiva dei Fenici secondo Sanchuniathon, fatta sul manoscritto recentemente ritrovato della traduzione completa di Filone”; con delle osservazioni di Wagenfeld. Questo volantino apparso presso Hahn, ad hannover, contiene inoltre un facsimile del manoscritto e un proemio del dottor G.F. Grotefend, direttore del Liceo di Hannover, conosciuto da lungo tempo nel mondo dei saggi per importanti lavori coi quali si è librato sulle iscrizioni di Persepoli e su quelle della Licia.
Cosa dobbiamo pensare di questa pubblicazione? Dobbiamo guardarla come una mistificazione o come un documento serio? Il nome di Grotefend, se non se ne è abusato, come si è abusato questo inverno del nome di Herschell, non consente ancora di vedere in questa brochure l'opera di un falsario? La germania non è la classica terra di questo tipo di soperchierie di cui l'Italia ha dato così tanti funesti esempi. La buana fede, meglio, il candore germanico, non ammette ancora una tale supposizione.
Il fac simile del manoscritto unito alla brochure, è realizzato con una scrittura molto antica, che mostra la mano non di un greco, ma di un uomo dell'occidente; un falsario non avrebbe scelto preferibilmente un carattere di questo genere che avrebbe potuto tradirlo. Dirò di più, un mistificatore il cui scopo sarebbe stato principalmente quello di ottenere una vendita a prezzo elevato, avrebbe cercato di comporre un libro più divertente, avrebbe messo più episodi romanzeschi; difficilmente si inventa la storia completa di un popolo come quello dei fenici, che, ad ogni passo è esposto a tradirci. Ora dobbiamo convenire seguendo l'analisi di Sanchuniathon, la semplicità e la verità della narrazione, le sue coincidenze con la Bibbia, la molteplicità di dettagli, la semplicità con cui i nomi propri si possono spiegare con l'ebraico, tutto sembra annunciare una composizione originale. Per finire, ma questo argomento lo introduco non senza qualche forzatura, l'autore, che fissa l'esistenza di Sanchunuathon al VI sec. A.C., non ha tralasciato di inserire nel suo libro la storia della fondazione di Cartagine e soprattutto il racconto dell'assedio di Tiro da parte di Nabuchodonosor, tanto che si ferma al nono secolo, limitandosi ad indicare gli storici che hanno raccontato gli avvenimenti posteriori. Non si può usare come argomento negativo l'epoca tardiva della scoperta, altrimenti si dovrebbe negare l'esistenza della Repubblica di Cicerone, delle Istituzioni di Gaio, della Cronaca di Eusebio, delle diverse opere di Lido e così via. Non si tratta, d'altronde, della prima menzione che si fa d'un manoscritto di Sanchuniaton. Beck in una nota sulla Biblioteca greca di Fabricius, afferma che esiste un frammento inedito di questo autore presso la biblioteca Medicea a Firenze; egli aggiunge che un terzo frammento è stato raccolto in oriente da Peiresc che lo ha portato a Roma an padre Kircher ma che quest'utimo si rifiutò di pubblicarlo. Infine Leon Allatius ha, se non mi inganno, detto di aver visto con i suoi propri occhi un manoscritto di Filone di Biblo in un monastero nei pressi di Roma.

Il solo argomento negativo che ha qualche senso è l'assenza di qualunque informazione precisa sul manoscritto che si pretende sia stato scoperto nella penisola spagnola. Ma se è vero, come si dice, che questo libro proviene da un convento portoghese che fu saccheggiato ai tempi della spedizione di don Pedro contro suo fratello, e che è stato portato in germania da un ufficiale di Hannover, si può capire perchè si esiti a citare i nomi propri. Opinioni molto differenti sono già state emesse su questa scoperta. Noi sappiamo, dall'Athenaeum del 25 luglio scorso, che il saggio Gesenius, il più celebre di tutti gli studiosi ebrei della germania, Gesenius, che ci promette la spiegazione prossima delle iscrizioni fenicie rispettate dal tempo, si è pronunciato in favore dell'autenticità del manoscritto del quale il signor Wagenfend ha appena pubblicato l'analisi. E' anche vero che secondo lo stesso giornale il signor Wilken, lo storico delle crociate, si è pronunciato in senso negativo, ma qualunque sia il rispetto che merita l'opinione del signor Wilken, in questa materia quella del signor Gesenius dovrebbe sorpassarla.

Noi dobbiamo aggiungere che, se dobbiamo credere all'articolo dell'Athenaeum, il signor Grotefend ha pubblicato la seguente nota sul libro del signor Wagenfeld: “Per prevenire l'intenzione laddove si potrebbe fare (...) di tradurre quest'opera in altre lingue, io credo che sia mio dovere il dichiarare pubblicamente e senza perder tempo, che dopo le informazioni raccolte fino ad ora, io sono moralmente convinto che l'estratto di Sanchuniathon non è altro che un ingegnoso falso. E io faccio questa dichiarazione senza attendere alcuna ricerca che richiederebbe troppo tempo; perché, anche supponendo che alla fine il risultato dimostrasse che questa dichiarazione non sia fondata, la stessa sarà sufficiente sin da ora per impegnare il signor Wagenfeld a difendere il suo onore dando prova della sua onestà".

Ma, a primo acchitto, questa nota difficilmente può essere opera del signor Grotefend.

Come! O egli è stato crudelmente falsificato, oppure si è slealmente abusato del suo nome ed egli si limita a qualificare l'opera come "ingegnosa finzione"; e questa dichiarazione per parte sua non ha altro scopo che di impedire la traduzione della brochure in altre lingue straniere! Ma, nell'uno o nell'altro caso, chi non avrebbe cominciato per schiacciare il falsario sotto il peso della giusta indignazione, senza preoccuparsi se delle traduzioni in altre lingue avrebbero potuto contribuire a propagare l'errore? Se la nota sull' Athenaeum è del signor Grotefend, potrebbe darsi che sia stata snaturata dal traduttore inglese, sia involontariamente, sia a causa di un interesse personale, queste erano le riflessioni che suggerivano all'autore di questo articolo una tale complicazione di incidenti e di dubbi, quando ha ricevuto la lettera seguente del signor Grotefend, al quale si era indirizzato per eliminare le proprie incertezze. (Hannover, 18.8.1836)
___

Signore,

poco tempo dopo aver raccomandato ai saggi l'analisi della traduzione di Sanchuniathon a cura di Filone di Biblo, che si pretende aver scoperto recentemente, mi sono convinto che l'autore di questa analisi non è che un mistificatoree mi sono ritrovato nella necessità di esprimere pubblicamente i miei dubbi sulla autenticità della sua scoperta. E' vero che esistono tanti motivi a sostegno dell'autenticità dell'opera che gli uomini più attenti possono difficilmente trovare materia per dubitare. Ma come tutto ciò che è apparso su questo soggetto al pubblico dal signor Wagenfeld, un insigne mistificatore, e siccome nessuno fino ad ora ha potuto esaminare il manoscritto, si è autorizzati a dubitare della sua autenticità, se non del tutto, almeno su molti dettagli. Si è d'altronde ancor più lontani dall'attendersi una simile soperchieria da parte di un giovane uomo candidato in teologia e filosofia a Brema, che l'amore per la verità è il tratto caratteristico dei tedeschi. Ma purtroppo il signor Wagenfeld ha così poco amore per la verità che mi sono visto obbligato a rompere tutte le relazioni con lui. I dubbi che ho espresso sui giornali non avevano altro scopo che il metterlo con le spalle al muro, al fine di arrivare almeno a qualche certezza. Questo ha avuto come risultato di costringerlo a trattare con la libreria Schunemann, a Brema, per la stampa dell'originale greco. Ma disgraziatamente si dubita ugualmente dell'autenticità di questo originale. Ed anche ammettendo che questo testo greco abbia avuto per base un antico manoscritto non è possibile prendere per argento sonante ciò che viene da un uomo che, come il signor Wagenfeld, è noto che per il piacere di imbrogliare il pubblico, non teme di far ricorso all'impostura.

Ricevete, signore, eccetera... G.F.Grotefend.
____

Si può notare, da questa lettera, che tutti i dubbi sono lontani dall'essere sciolti, ma questo prova che il signor Grotefend è sicuramente l'autore della prefazione che precede l'analisi in questione e che non conoscendo i motivi poco onorevoli che hanno spinto il signor Wagenfeld ad abusare della sua buona fede e di quella del pubblico, egli ha creduto inizialmente alla autenticità dell'opera. Ma che non si rimproveri frettolosamente il rispettabile Direttore del Liceo di Hannover di aver dato credito a questo lavoro, perchè realizzato con tanta abilità e sapere che potrebbe ingannare l'occhio più esercitato. Come credere che un giovane uomo, che ha appena lasciato i banchi dell'Università abbia già acquisito tanta conoscenza al punto di far rivivere un antico popolo e una storia coerente e probabile?

Come credere, soprattuto, che per soddisfare una fantasia così bizzarra e inspiegabile, questo giovane uomo al suo debutto compromette tutto il suo avvenire per esporsi per sempre al disprezzo dei suoi concittadini?
Tutti gli altri saggi, a parte il signor Grotefend, che senza conoscere il carattere del giovane studioso, ricevettero la comunicazione del suo libro, si sarebbero appassionati alla scoperta perchè, lo ripeto, niente è più verosimile di questo racconto. Noi faremo giudicare al pubblico, ponendo sotto i suoi occhi alcuni estratti di questa brochure, che meriterà sempre di essere considerata come un prodotto sia curioso sia interessante, qualunque possa essere in definitiva l'opinione a cui si giungerà sul conto del suo autore. Noi cominceremo dalla storia mitica di Mèlicerte ovvero Melqart, l'ercole di Tiro (Livio, II, 9-15).

Questo mito è raccontato seguendo i canti sacri che Sanchuniathon sentì a Tiro, nella sua infanzia, e il cui senso meraviglioso dovette fare una forte impressione sul suo spirito. L'idea alla base di questo mito é che non ci si può elevare a divinità se non conseguendo un grande e nobile scopo attraverso tutti i pericoli e superando tutte le fatiche. Mèlicerte si propose una meta lontana, sull'altra costa del mare tempestoso, al confine della terra (cap. 10). Questa meta è degna d'un dio: colui che la raggiungerà s'innalzerà verso la divinità.

Mélicerte arriva in effetti a Tartessus, i suoi contemporanei attoniti, gli dedicarono dei templi e degli altari e lo invocarono come facevano con Kronos e con gli altri dei. Del resto é incontestabile che questo mito riaffermi ancora di più dei ricordi storici, come per esempio la nozione di una grande quantità di metalli preziosi in Spagna.
L'autore comincia con il raccontarci una avventura amorosa della gioventù di Mélicerte e la fine tragica di questo amore. I figli di Démaroon, Mélicerte e Isroas, dopo una spedizione contro i giganti, spartendosi il bottino conquistato al nemico si disputarono il possesso di Déisone3 giovane figlia delle montagne, di rara bellezza, di cui Isroas si era impadronitò. Mélicerte propose di rimettere la scelta alla giovane, Isroas acconsentì e Déiasone scelse Mélicerte, perché lui era più bello di Isroas4 che era brutto. Mélicerte dunque celebra la sua sposa con dei canti che si erano conservati fino ai tempi di Sanchuniathon e che venivano cantati alla festa di questo eroe.

Ma Isroas venne per togliere con la forza Déisone e assediò la torre di Mélicerte. Invano quest'ultimo tentò di riappacificarlo.

"L'avvoltoio uccide l'avvoltoio e il cedro di montagna capovolge suo fratello nella sua caduta. Ma perchè tu desideri il combattimento, perchè tu vuoi la guerra contro tuo fratello? Tu conosci il mio coraggio, io non vorrei mai incontrarti in combattimento. Non siamo noi, o fratello mio, due torrenti che si slanciano nella stessa valle? Perché tu cerchi il combattimento contro di me, Isroas?"
Quando Isroas si rese conto che non poteva inpadronirsi della giovane ragazza, la colpì da lontano con una freccia, affinché suo fratello non potesse gioirne. Mélicerte accorre e la trova morta. La piangerà tre giorni e chiese dunque ai Cabires dei vascelli con i quali, alla testa dei suoi numerosi compagni, fece rotta verso Cittium, i cui abitanti erano allora in guerra contro i montanari. Aiutati da Mélicerte i Cittiens riportarono la vittoria e, a riconoscimento di questo servizio, essi volevano che l'eroe diventasse loro re. Ma lui parte per la costa situata di fronte a Cittium, dove dimorava il fratello di suo padre, chiamato Jurus. Il racconto dell'intervista di Mélicerte con il vegliardo cieco è molto toccante. In quel luogo egli si ferma per qualche tempo,perchè il mare è tempestoso e i venti soffiano con violenza. Jurus, sentendo arrivare la sua fine, da la sua benedizione a Mélicerte, secondo un'antica usanza orientale, lo esorta a proseguire il suo viaggio e gli predice l'avvenire:

"Tu trionferai sul mare sconosciuto e primo tra i mortali vedrai i confini della terra. Tu diverrai così grande che Kronos e gli altri dei ti guarderanno come un loro pari".
Jurus morì, Mélicerte lo seppellì e lo pianse tre giorni. il quarto giorno si rialzò, si purificò e si imbarcò con i suoi compagni per proseguire il suo viaggio. Ma una violenta tempesta lo fece errare a lungo sul mare. Infine essi entrarono in una baia ma siccome trovarono un gran numero di bassifondi fecero naufragio e alcuni uomini dell'equipaggio morirono. Tuttavia la maggior parte si salvò e raggiunse la riva. Di primo acchitto essi pensarono di costruirsi un nuovo vascello su questa spiaggia ma furono costretti a rinunciare perchè le foreste del paese non offrivano loro i materiali da costruzione ed anche perchè in quei paraggi gli scogli e i bassifondi rendevano la navigazione molto pericolosa. Essi decisero dunque di risalire la costa fino a che trovassero un porto sicuro e dei materiali utilizzabili.

Questo naufragio dovrebbe aver avuto luogo sulla costa occidentale dell'Italia perchè la contrada dove arrivarono i viaggiatori si chiamava Ersiphonie5.
Essi si stabilirono ai piedi di una montagna che chiamarono Liban6 e risulta, dalla comparazione con altri passaggi, che sotto il nome di Ersiphonié s'intende le coste della Liguria e con quello di Liban le Alpi. C'era anche un cammino che conduceva al di là della montagna, lungo le coste del mare. Mélicerte, che aveva appreso che questa montagna era sacra e che vi risiedevano gli dei, mandò avanti lungo il cammino indicato i suoi compagni e lui stesso scalò la montagna per sacrificare e pregare. Similmente nella leggenda ebraica il popolo resta nella pianura e solo Mosè salì nella sommità della montagna per mettersi in contatto con la divinità.
Un altro punto di comparazione si presenta nell'una e nell'altra tradizione; in quanto il soggiorno di Mélicerte sulla montagna fu di quaranta giorni, come quello di Mosè (vedere Esodo XXXIV, 28).

L'eroe fenicio sopravvisse ad un incontro ravvicinato con la divinità quindi ridiscese appresso ai suoi compagni che durante questo tempo avevano costruito un vascello sulla riva di un grande fiume. Questo fiume non potrebbe esser altro che il Rodano in quanto si dice che Mélicerte prima di ritrovare i suoi compagni, dovette discendere per cinque giorni dirigendosi ad ovest. Qui l'autore aggiunge alcuni dettagli sulla montagna sacra, Mélicerte è il solo mortale che ha scalato questo picco inaccessibile in quanto, al di là delle difficoltà di una natura selvaggia, una tale impresa presentava delle difficoltà che dovevano scoraggiare i più audaci. In effetti nelle paludi e nei luoghi che circondavano la montagna si trovavano dei dragoni di una grandezza smisurata che afferravano chiunque s'avvicinasse per divorarlo e nelle foreste vicine, in mezzo agli alberi, si vedevano dei fantasmi spaventosi. La parte di mezzo della montagna è avvolta dalle nebbie e da nuvole. Al di sopra delle nuvole si innalza la cima più alta, coperta di nevi eterne. Li si trova la dimora degli dei, inaccessibile a tutti i mortali. Mélicerte si rimette in mare con il suo nuovo vascello ed approda in un'isola in cui si trovavano numerose mandrie di buoi. Egli desiderava procurarsi alcuni capi di bestiame in quanto si trovava in grande affanno. Ma l'avaro ed inospitale Obybacros7 a cui appartenevano quelle mandrie rifiutò di accogliere le sue preghiere e Mélicerte si vide costretto a ricorrere alla violenza per allontanarlo. Durante quel periodo i suoi compagni prendevano tranquillamente tutto il bestiame di cui avevano bisogno e opprimevano Obybacros con le loro canzonature, che da lontano sfogava il suo furore con orribili ingiurie. E' inutile far notare la conformità perfetta che esiste tra questa tradizione e quella in cui i greci raccontano del furto dei buoi di Gerione commesso da Ercole. Quest'ultimo ha preso evidentemente vita presso i fenici e i greci non hanno fatto altro che abbellirlo ed attribuirlo al loro Ercole8. Del resto i fenici ed i greci sono concordi sul luogo della scena, che gli uni e gli altri posizionano nelle isole baleari. Così Mélicerte era giunto sulle coste della Spagna. Partito da questi luoghi egli fece naufragio sulle coste di un'isola vicina. Quest'isola era ricoperta di foreste e, siccome Mélicerte era malato, nessuno osava penetrare in questo bosco profondo per cacciare, perchè tutti erano spaventati dai terribili suoni che provenivano da quei luoghi, simili al ruggire d'un leone temibile. Essi si dovettero accontentare di conchiglie e pesci che si trovavano in abbondanza sul posto. Resosi conto della paura dei suoi compagni Mélicerte sente rianimarsi il suo ardore cavalleresco e malato com'era, non trovando alcuno che lo volesse accompagnare , si avventurò da solo in mezzo alla foresta. Ben presto, nel mezzo del bosco più fitto, scorse la femmina di una grande bestia che era addormentata. Al rumore dei passi dell'eroe questa si risvegliò e gli ordinò di avvicinarsi. Lui obbedì ma, prodigio! Le gambe di questa femmina terminavano a coda di serpente. Mélicerte che non conosceva paura avanzò intrepido per conoscere la sua volontà. Lei gli disse di essere una delle serve di LE'IATHANA9, la regina dei serpenti, e lo invita a seguirla. Mèlicerte acconsente e trova in una caverna la regina attorniata dai suoi seguaci, tutti simili a lei. La regina gli racconta di essere stata cacciata dai suoi territori da Masisabas10, che la tiene in questi luoghi grazie ai suoi incantesimi. Ma aggiunse, ti ho scelto per vendicarmi, perchè vedo che tu sei un uomo di cuore. Vai dunque, tu lo incontrerai a Tartessus, ai confini del mondo e quando sotto i tuoi colpi lo abbatterai, troverai per ricompensa nella sua dimora delle immense ricchezze. Così disse e, congedandolo, gli diede una bottiglia che conteneva un veleno mortale. Intingendo le sue carni in questo veleno non poteva fallire nel dare la morte al suo nemico. Mèlicerte allora si premurò di riguadagnare la riva dove raccontò ai suoi compagni i prodigi di cui era stato testimone e l'accoglienza ricevuta. I suoi compagni erano meravigliati dal suo racconto e si affrettarono nel riparare la nave. Dopo diversi giorni essi fecero rotta verso ovest e approdarono infine sulla terra ferma. Essi sbarcarono e videro all'interno del paese di Tartessus una cittadella che, secondo la descrizione di Léiathana non poteva essere che la dimora di Masisabas. Costui, che aveva visto da lontano il vascello approssimarsi alla costa, non attese che gli stranieri lo attaccassero e accorse verso la riva per ingaggiare il combattimento. Egli era di taglia smisurata e sorpassava Mèlicerte di una testa; le sue armi brillanti, la sua forza prodigiosa, tutto ciò sembrava far dubitare della vittoria dell'eroe fenicio. Un incidente inatteso rese la posizione di Mélicerte ancora più difficile perchè mentre egli marciava incontro al suo nemico il suo arco, teso con troppa forza, si ruppe e cos' si vide impossibilitato a far uso del veleno che Léiathana gli aveva donato. La tradizione ha senza dubbio aggiunto questo episodio per mostrare in quale modo un eroe, con la sua sola forza e senza alcun aiuto può portare a compimento qualunque impresa. Da quella distanza Mélicerte lanciò un giavellotto contro il suo nemico con tanto vigore da passarlo da parte a partee da appenderlo ad un albero li vicino. La vittoria di Mélicerte è assicurata, si avvicina a Masisabas e gli taglia la testa. Subito dopo segue l'elencazione dei tesori che il vincitore trovò nella cittadella conquistata e che consisteva in molto oro e in cumuli enormi d'argento11. All'udire di questa impresa gloriosa gli abitanti delle contrade vicine accorsero per rendere omaggio all'eroe e testimoniargli la propria riconoscenza. Gli portarono anche una enorme quantità di metallo prezioso in regalo. Mèlicerte apprese da loro che li vicino finiva il mare e vi si trovava uno stretto che conduceva nell'oceano. A questa notizia egli risalì subito sulla nave e seguendo la direzione indicata arrivò, il giorno stesso, allo stretto. Siccome era già tardi decise di non discendere a terra se non il giorno dopo. Gli abitanti delle coste vedendo sospesa alla prua della nave la testa di Masisabas che fino ad allora avevano considerato invincibile, cantarono le lodi e il coraggio di Mélicerte e lo accolsero con gioia. Così Mélicerte aveva infine raggiunto lo scopo che si era proposto da così tanto: "Fu il primo ad arrivare ai confini della terra. Prima tra tutti i Sidoni e Tiri, penetrò nelle distese deserte dell'oceano. Così ricevette la ricompensa che gli era stata promessa".

Agli occhi degli abitanti, razza grezza e selvaggia, tutto in questi stranieri era oggetto di ammirazione, la loro nave, i costumi, gli utensili. Essi vivevano di pesca e di caccia e avevano, cosa che è vera, delle barche ma molto piccole e grossolanamente costruite. Non indossavano vesti e si coprivano con pelli di animali perchè non conoscevano ne l'arte del tessere ne alcun'altra arte. Tutti i loro mobili erano lavorati grossolanamente e con estrema semplicità. Gli stranieri al contrario avevano una grande nave, dei bei vestiti, dei mobili eleganti. Per queste circostanze e soprattutto per le grandi imprese che aveva compiuto essi riconobbero che Mélicerte era un dio. Essi guardavano anche i suoi compagni come degli dei, ma come dei inferiori.
Poi Sanchuniathon racconta della costruzione delle due colonne ad opera di Mélicerte, il suo regno a Tartessus e la sua apoteosi. Sull'una e sull'altra riva dello stretto si trovava una montagna in cima alle quali egli elevò le colonne. Queste due colonne si vedono ancor oggi e devono il loro nome a Mélicerte.
Tutti sanno che la leggenda dell'Ercole greco si è appropriata di questa spedizione ma siccome nei tempi di molto posteriori, in cui anche i greci si addentrarono per queste contrade, le antiche colonne di Mélicerte erano sparite da lungo tempo e l'Ercole greco elevò le montagne di Gibilterra e di Ceuta a monumento delle sue esplorazioni, da allora non si è più smesso di chiamarle colonne d'Ercole.
Mélicerte si stabilì in questa contrada e si sforzò di iniziare gli abitanti alla civiltà orientale. Prima di tutto costruì una fortezza e una città. Gli abitanti di Tartesso riconoscenti gli dedicarono dei templi nella città e nelle contrade circostanti dove le sue immagini, in argento puro, erano oggetti di culto religioso. Un giorno, infine, che egli era partito per la caccia senza seguito, non fece più ritorno e non si riuscì mai a ritrovare nè il suo corpo nè la tomba perchè, secondo le opinioni dell'antico oriente, il luogo della tomba degli uomini che come Mélicerte sono stati ammessi alla frequentazione della divinità, resta per sempre sconosciuto. E' per questo che mai nessuno ha visto la tomba di Mosè (Deuteronomio. XXXIV,6).
Dopo la scomparsa di Mélicerte quelli tra i suoi compagni che erano sopravvissuti, decisero di far conoscere alla loro patria i risultati delle loro spedizioni e scelsero per questa missione gli uomini non sposati perchè molti tra loro avevano sposato delle donne del paese. Dopo molte fatiche e pericoli gli inviati arrivarono infine presso la madre patria e costruirono nello stesso luogo dal quale erano partiti, un tempio un tempio in onore di Mélicerte. "Questo tempio si vede ancora nella vecchia città dei Tiri". La stessa città di Tiro fu costruita più tardi in quello stesso posto.
Nell'ultimo capitolo di questo libro, l'autore descrive le statue del dio e le feste che venivano celebrate in suo onore, il giorno prima della partenza, da coloro che si recavano a Tartesso.
Certamente sarà difficile dare un colore più naturale a questo simbolo così interessante del progresso della navigazione e del commercio dei fenici. Non vi é minor verità nel racconto del viaggio di scoperta che il re di Tiro, Joram o Hiram, contemporaneo di Salomone, fece eseguire dalla sua flotta che arrivò fino all'isola di Ceylon:

Gli Etiopi12 spiegarono a Joram che verso il mezzogiorno si trovavano molte ricche e vaste contrade, che la popolazione era immensa, i prodotti vari e notevoli, che queste consistevano in oro, argento, perle e pietre preziose, in legni d'ebano, avorio, scimmie, pappagalli, pavoni ecc... Che tutti questi prodotti si trovavano nel Chersoneso più lontano verso oriente, là dove gli uomini vedono il sole sorgere dalle onde del mare. Joram inviò dunque una rappresentanza a Natambalos, re di Babilonia, cui fece dire: "Io ho saputo che il paese degli Etiopi è vasto e popoloso e che da Babilonia ci si può arrivare facilmente, non così è da Tiro. Se tu consenti a fornire ai miei rappresentanti i vascelli necessari per questo viaggio io ti invierò cento mantelli di porpora". Il re si mostrò disposto ad acconsentire, ma ritirò la promessa quando i mercanti etiopi che si trovavano a Babilonia preoccupati per il commercio, l'ebbero minacciato di abbandonare la città, se egli avesse dato i vascelli ai Tiri. Allora Joram offrì al re degli ebrei, Irenius (Salomone), di fornirgli tutta la legna necessaria per la costruzione di un nuovo palazzo se egli consentisse a cedergli un porto sul mare d'Etiopia, e Ireneo gli concesse la città e il porto di Eilotha (Elath). Nonostante nei pressi di questo luogo vi fossero delle immense foreste di palme, purtroppo non vi si trovava legno da costruzione, così Joram si vide costretto a farvo portare, con ottomila cammelli, ciò di cui avava bisogno. Venne costruita una flotta di dieci vascelli, della quale Kedar, Jamine e Kotilos ottennero il comando. Lankapatus13, l'unico dei tre etiopi sopravvissuto, desiderando rivedere la sua patria, s'imbarco con loro e la flotta alzò le vele. Il mare d'Eilotha fu ben presto superato ma delle tempeste non consentirono di attraversare lo stretto per entrare in alto mare. Essi decisero dunque di sbarcare in un'isola per attendere la fine del cattivo tempo. Durante il loro soggiorno in quest'isola, seminarono del frumento in una zona favorevole e raccolsero una messe abbondante. Poi essi superarono lo stretto, si diressero a Est e incontrarono, molto tempo dopo aver lasciato l'Arabia, dei vascelli babilonesi che rientravano dall'Ethiopia nella loro patria. Il giorno seguente i fenici intravvidero il paese degli ethiopi, deserto e sabbioso sulla riva ma erto di montagne nell'interno. Per dieci giorni essi costeggiarono questa costa inospitale, facendo sempre vela a est e raggiunsero infine il punto dove questa si dirige verso sud, a una distanza infinita, ricoperta di città popolose. Gli etiophi possedevano anche dei vascelli e si davano alla navigazione, ma i loro bastimenti non erano equipaggiati per la guerra e l'uso della vela gli era sconosciuto. I Tiri proseguirono lungo la loro rotta per trentasei giorni e arrivarono infine sull'isola di Rachius. Essi accostarono su una riva bassa e coperta di alberi enormi, ma durante la notte un vento impetuoso li allontanò e corsero un grande pericolo fino al momento in cui si trovavano in un ormeggio sicuro. All'interno del paese si trovavano molti villaggi molto popolosi e, quando i fenici avanzarono nell'interno, furono circondati dagli indigeni che accorsero in gran numero e li condussero dal governatore della provincia. Costui li accolse sontuosamente per sette giorni. Nel mentre inviò un messaggero al re della contrada per informarlo dell'arrivo di stranieri e domandare disposizioni. Il settimo giorno il messaggero tornò e il giorno seguente il governatore condusse i Tiri dal re, che abitava nella grande città di Rochapatta, all'interno dell'isola. La marcia era aperta da una truppa di dorifori (lancieri) che il re aveva inviato per scortare gli stranieri e per allontanare, con il rumore delle loro armi, gli elefanti di cui questo paese abbonda e che rendevano questo viaggio molto pericoloso. Di seguito venivano i Tiri i cui capi, Kedar, Kotilos e Jamine venivano trasportati con delle lettighe, quindi vi erano gli abitanti del villaggio che portavano i doni destinati al loro sovrano. Veniva infine il governatore, montato su un elefante e circondato dalla sua guardia. Durante il viaggio arrivarono al margine di un fiume in cui si trovava un gran numero di coccodrilli che divorarono uno degli uomini della scorta. Al termine del terzo giorno essi videro davanti a loro la città di Rochapatta, circondata da alte montagne. Nel momento in cui si avvicinarono alla città una moltitudine innumerabile gli andò incontro, alcuni montavano elefanti, altri su asini, altri ancora su portantine, ma la maggior parte erano a piedi. Là essi furono ricevuti da un ufficiale che li condusse per il grande e splendido castello del re e chiuse le porte alle loro spalle, affinchè la folla dei curiosi non potesse entrare appresso al corteo. Quindi egli li presentò al re Rachius che era seduto su di un tappeto prezioso. I Tiri gli offrirono i loro regali che consistevano in cavalli, in stoffe di porpora e in seggi di legno di cedro. Il re da parte sua gli fece avere delle perle, dell'oro, duemila zanne di elefante e una grande quantità di cannella. In più gli offrì ospitalità per trenta giorni. Alcuni Tiri morirono sull'isola, uno di loro per malattia, gli altri colpiti dagli dei.

Un Tiro, avendo trovato dello sterco di cervo, tracciò alcuni segni sulla sabbia e invitò uno dei suoi compagni, che si trovava vicino, a giocare con lui. L'altro cercò vanamente dello sterco di cammello, in quanto non esistono cammelli sull'isola, e per sostituirlo prese dello sterco di vacca che tagliò a pezzi, poi si piazzò di fronte al suo compagno poggiò il pezzo di sterco tra i segni tracciati sulla sabbia e il gioco cominciò. Un sacerdote che passava di là li invitò a cessare questo gioco in quanto lo sterco di vacca era sacro in quel paese, ma i Tiri risero di quella ingiunzione e continuarono a giocare. Il sacerdote si allontanò ma alcuni istanti dopo i due giocatori caddero morti, tra il terrore di chi essisteva. Uno dei due morti era nato a Gerusalemme.
La grande isola di Rachius è circondata dal mare ad eccezione del nord dove essa comunica con il continente di fronte attraverso un istmo. Baaut, di cui si vedono ancora le impronte impresse sulla montagna, ha creato quest'isola impastando il fango primitivo. E' da Baaut14 che discende il gran re.

L'isola ha una larghezza di sei giorni di marcia e più di 12 di lunghezza. I prodotti sono preziosi e vari. Il mare fornisce con abbondanza agli abitanti della costa pesci di gusto gradevole e la selvaggina abbonda nelle montagne. La cannella è molto forte e gli elefanti che si incontrano sull'isola sono i più grandi che esistono. Nei fiumi si trova dell'oro e pietre preziose e sul bordo del mare le perle.
Quattro re regnano sul paese, ma essi sono sottomessi ad un re supremo al quale essi inviano come tributo della cannella. Essi non gli donano oro perchè il re ne possedeva in grande quantità. Il primo re ha i suoi possedimenti a sud, nella parte in cui si trovano gli elefanti che vi si possono catturare in gran numero

Tutti questi dettagli Joram, al ritorno dei vascelli, fece incidere su di una colonna, che per suo ordine venne eretta sul pavimento del tempio di Mélicerte. Risponde al vero che questa colonna sia stata rovesciata dal terremoto che si è verificato un anno fa ma questa non è stata infranta e vi si può ancora leggere l'iscrizione.
Noi crediamo dover riferire qui che un saggio indianista, a cui abbiamo sottoposto questo estratto, non ha notato alcunchè che possa denotare una falsificazione. Non possiamo che avere la stessa opinione sull'ottavo libro che contiene un censimento delle forze militari di Tiro e dei paesi frequentati dai loro vascelli.

Ottavo libro

Periplo di Joram
I. Redazione del periplo (cap. 1 e 2).

"Questo è il periplo del quale Joram, re di Tiro, ha ordinato la redazione a Joram, sacerdote di Mélicerte, e che ha voluto che si incidesse su una colonna elevata nel vestibolo del tempio di questo dio. Egli ha ordinato allo scriba Sydyk di farne quattro copie da inviare agli abitanti di Sidone, Biblo, Aradus e Béryte".
Ma pressochè tutte queste copie andarono perdute e noi abbiamo visto anche che la colonna è andata distrutta. Un solo esemplare fu conservato nel tempio di Baaltis a Biblos, l'autore che ne ha riportato i termini che vi erano scritti. L'inizio era così concepito:
"Joram, figlio di Bartophas, re di Tiro, ha fatto chiamare davanti a se Joram, figlio di Madynus, verso il tempo dei primi fichi, e gli ha detto: prendi il tuo libro e redigi il catalogo di tutti gli stati, di tutte le isole, di tutti i paesi barbari, delle loro forze, delle loro triremi, dei loro navigli e dei loro carri; poichè le nostre triremi, navigando verso l'isola di Rachias, hanno raggiunto i confini della terra ad est cosicchè noi conosciamo i paesi più lontani e i loro abitanti e che noi sappiamo ciò che ignoravano i nostri padri, essi che navigarono verso le isole e verso l'occidente senza conoscere le contrade orientali che a noi sono oggi note. Scrivi tutto là affinchè il ricordo si trasmetta ai nostri discendenti. Quando il re ebbe detto queste parole io mi prostrai e m'allontanai per redigere questo scritto..."

II. Possedimenti dei Tiri sul continente (Cap. 3-8)

I Tiri e Sidone (Cap. 3-4)

Similmente a tutti gli altri re, il re di Tiro è il più potente, allo stesso modo la città di Tiro è la più grande e la più ricca di tutte le città. E' in essa che sono state inventate tutte le arti. E' proprio in questa contrada che i compagni di Usous hanno costriuto per primi un vascello per sottrarsi all'inseguimento di Hypsouranios; sono gli abitanti del paese che per primi si dedicarono all'agricoltura e ad altri lavori.
L'armata del re si compone di sessantamila combattenti, cento triremi ed una quantità innumerabile di vascelli da trasporto. Ci sono inoltre mille dorifori coperti di armature dorate e ottanta carri da guerra. Il tempio di Mélicerte e la città tutta è stata costruita dai compagni di questo dio al loro ritorno da Tartesso. Nei pressi di Tiro si trovano le città di Hysora, Maene, Silype, Bethobarkas (che si chiama anche Bethataba) e Ramasé. La città dei Sidoni è anch'essa molto ricca. Le sue forze di terra consistono in centomila combattenti, mille dorifori e venti carri, le sue fore navali sono composte da sessanta triremi. Al territorio dei sidoni appartengono anche le città di Monychus, Jauphe, Moyra, Dibon (soggiorno dei figli del re), Nebra e Soate.

II Biblos, Aradus, Béryte (Cap. 5-7)

L'armata degli abitanti di Biblos consiste in ventimila combattenti, duemila dorifori e venti carri. Essi hanno inoltre ottantacinque galere. Nella loro città si trovano i templi di Kronos, fondatore della città, di Baaltis e di altri dei. Nei pressi di Biblos si trovano le città di Asmania, di Jasude, di Nebite e di Nebra (città differenta da quella dei Sidoni).
Gli abitanti di Aradus hanno una armata di ottomila uomini, più mille dorifori, cinquecento arcieri, venti carri da guerra e cinquanta triremi. Le città del del loro territorio sono: Arboze, Kasauron, Itynna, Delibas e Asypotia. Tra Delibas e Itynna si trovano le Misybata15, pietre profetiche innalzate dal dio Ouranos. Gli abitanti di Béryte possono mettere in piedi diecimila combattenti, mille dorifori e quaranta carri da guerra. La loro marina si compone di trenta galere. La loro città è stata costruita da Eliun, che le ha dato il nome della sua donna, Béryte. Si ammirano soprattutto i templi di Pontus e Astarte'. Le città abitate dai Beriti sono: Arbe, Isbas, Sydrobal e Bethastaroth. Sul cammino che conduce a Byblos, nei pressi della città di Sydrobal, s'innalzano le rovine della torre degli egiziani che, guidati da Pasurgus, cercarono di conquistare la contrada. Una vergine, Adramot16, li sconfisse e distrusse il loro rifugio.

III Le montagne. (Cap. 8)

Le forze degli abitanti delle montagne ammontano a trentaduemila uomini, dei quali duemila arcieri. Essi non possiedono ne città ne vascelli ne carri da guerra e abitano in numerosi villaggi. E' presso di loro, nei villaggi di Gabara, di Oryx e di Gadra, che si trovano i Bétyles17, che sono anche questi degli oracoli stabiliti da Ouranos. I più celebri sono sulla sommità del monte Zetunus, che è ricoperto d'olivi, e lungo la strada che conduce dalla montagna a Tiro. Sulla montagna che c'è di fronte si trova il villaggio di Momigura, nel quale si trova una fortezza con delle trincee ed una guarnigione.
III Enumerazione delle forze di Tiro (Cap. 9)
Tutte queste città, questi villaggi, queste montagne, sono tributarie del re Joram: e quando questo principe si prepara alla guerra egli raduna a Tiro tutte le forze militari di cui dispone, cioè: seicentoottomila combattenti, centottanta carri, seimila dorifori, duemilacinquecento arcieri e trecentoventicinque triremi. Se la guerra dovesse aver luogo sul mare gli abitanti delle isole e delle colonie gli inviano il loro contingente che consiste in settantamila soldati, duemilaseicento arcieri e trecentottanta vascelli da trasporto.
IV. Possedimenti dei tiri oltre il mare (Cap. 10-14)
La prima delle isole è Cittium (Cipro). E' fertile e ben popolata. L'interno dell'isola è abitato da barbari empi e rozzi che assomigliano per i costumi e per la lingua alle genti del monte Libano. Lungo le coste ricche di approdi si trovano delle città, dei villaggi e delle fortezze costruite dai nostri antenati. La città di Cittium, fondata da Demaroon, possiede una armata di diecimila uomini, sessanta galere e cinquecento arcieri; ma non possiede carri il cui uso è sconosciuto nell'isola. Nella stassa contrada si trovano anche le città di Lydana e Gola, oltre ai tanti villaggi. L'isola contiene anche la città di Masuda18, che fu fondata dal Sidone Bimalus, capace di equipaggiare quattromila uomini e venti galere. Nei pressi di questa città, in cima ad una montagna, si trova un grande altare, dedicato a Kronos il quale, brillando ogni giorno d'una luce vivida, può essere visto dai navigatori anche con tempo piovoso.
Navigando verso occidente si incontra l'isola di Rodi che, in caso di guerra, può fornire tremila uomini e dieci vascelli. I Sidoni, in tempi molto remoti, vi hanno fondato una città, ma la infertilità del suolo ha costretto gli abitanti ad abbandonarla e da allora essi vivono dispersi in numerosi villaggi.
La costa opposta è al contrario fertile e molto popolosa. Ci si trovano tre insediamenti di Sidoni, uno di Aradi e quattro dei Tiri. I nomi delle città sidoniane sono Machira, Supha, Zoara; il nome dell'insediamento di Adado è Sale; quelli delle colonie Tire sono Ozyne, Bethomalkrot, Masaba e Casra. Gli abitanti di Machira hanno un'armata di cinquemila uomini e venti vascelli. Quelli di Supha possono armare duemila uomini e dieci vascelli, quelli di Zoara mille uomini e dieci vascelli. Gli abitanti di Sale, per parte loro, hanno millecinquecento guerrieri e una flotta di otto vascelli. Infine gli abitanti di Ozyne possono mettere in piedi duemila uomini; quelli di Bethomalkrot mille e duecento, quelli di Masaba cinquecento e quelli di Casra ottocento. Le quattro città riunite assieme possiedono quindici vascelli.

I Machiri, i Suphéens e gli Ozyneensi fanno spesso vela verso le isole e i distretti situati ad occidente per combattere i barbari di questi paesi, che si dedicano alla pirateria e hanno dei vascelli simili ai nostri.
L'isola di Cerates (Creta) ha una estensione considerevole. I Sidoni vi hanno fondato la città di Mapiza e i Tiri un insediamento chiamato Mapristor19, "perchè i Tiri vi hanno un porto". Mapiza fornisce tremila combattenti, quindici vascelli e cento arcieri, Mapristor quattrocento uomini e sei vascelli.
Nella montagna abitavano i Gerates, oggigiorno soggiogati ma che, oltremodo temibili sul mare, hanno fondato degli insediamenti nei paesi di Gaza.
Gadira, città ricca e popolosa, è una colonia di Mapiza. Vi si trova un tempio di Astarte circondato da mura, ciò che ha dato alla città il nome che porta20. La città ha settemila combattenti, duecento arcieri e una flotta di trenta galere. Sulla costa opposta i Gadiriani hanno popolato molti villaggi e dei castelli. Se partendo da quest'isola si naviga verso ovest in quattro giorni e con vento favorevole si arriva all'isola di Mazaurisa, anch'essa molto popolosa. I Tiri e i Sidoni vi abitano sei città, Nasbos, la città di Mélicerte, Jamnia, Jitron, Malkuba, Ophala e Moraba e molti villaggi. Queste colonie fornivano undicimila uomini e una flotta di trentotto vascelli21.
Da moraba si arriva a Mylité22, dove non si trova nessuna città ma solo dei villaggi. L'isola mette in piedi duemila combattenti e può armare quindici vascelli. Essa è ricoperta di altari consacrati ad Astarte Mylite.
Da là si arriva velocemente a Maphile, colonia popolata dagli Aradi, dai Bibli e da altri ancora. Nei tempi più antichi vi erano cinque colonie, che i selvaggi indigeni distrussero; gli abitanti di queste cinque città si riunirono in questo punto e vi costruirono una città. Le loro forze consistevano in quattromila combattenti e trentasei vascelli. Questo insediamento si trova sul paese di Tenga, contrada vasta ma praticamente deserta perchè povera d'acqua e bruciata dal sole. Navigando a nord di Mazaurisa si arriva in Ersephonie, dove si trovano quattro colonie, le cui armate ammontano a dodicimila uomini e venticinque vascelli.Questa forza imponente data all'epoca in cui, durante una guerra contro i Tartessi, i Sidoni inviarono dei rinforzi. Non c'è niente da temere dagli indigeni perchè sono poco numerosi e pacifici. In questo paese si trovai il monte Libnas, consacrato a Mélicerte, che vi ha lasciato l'impronta dei suoi piedi. nei pressi d'Ersephonie si trovano le due isole di Kiton e Gadyla23 separate da uno stretto sul quale si trova una piccola città. Da là si arriva in dieci giorni a Tartesso, passando presso l'isola deserta di Léiathana e di Obibacros.
Dunque, se si riunissero tutte le forze di terra e di mare del re Joram, si troverà che la sua armata consiste di venticinque miriadi di combattenti in armi e la sua flotta in seicentoquarantatre vascelli. Egli possiede inoltre centottanta carri da guerra e immensi tesori perchè, se in tempo di guerra le città gli inviano truppe ausiliarie, in tempo di pace gli pagano un tributo.
IV Tartesso e gli Imyrchakines (Cap. 15)
I Tartessi, discendenti di Mélicerte, sono alleati dei Tiri ed abitano ad occidente. Il loro principe è Nausitanus, figlio di Charon, che è molto potente e possiede molte galere e altri vascelli. Questo popolo abita cinque grandi città e molti villaggi. Le contrade vicine sono ricche di fiumi, le montagne sono piene di ricche miniere d'oro e d'argento, soprattutto nei villaggi di Ardiabe e Ophile.
Tartesso si trova sullo stretto e sull'Oceano. L'Oceano settentrionale non è navigabile a causa del sollevamento delle maree, quello del sud perchè le coste sono deserte. Là vi si trova il promontorio di Tiborsypha. Le contrade più lontane di questo oceano sono le Imyrchakines, cioè le isole di Hyresa, Hirisima, Mazaurisa e Igydula che erano molto popolate in principio ma che sono state quasi interamente spopolate a causa di una peste. Queste si trovano a dieci giorni di viaggio dal promontorio di Tiborsypha24.
VI - Il sud, il nord e l'est della terra. (Cap. 16)
Nei pressi dei Tiri abitano i Cerati, gli Ebrei, gli Egiziani, gli Arabi, i Damasceni e gli Hamathéens, alleati di Joram. In Egitto si trova il Nilo. Risalendolo, in sette giorni, si arriva alla capitale dove si trova un gran numero di schiavi etiopi evenuti dalle contrade meridionali. Essi hanno la pelle nera, ma per i loro costumi e il loro modo d'essere assomigliano molto agli Egiziani.
Gli etiopi abitano le contrade più meridionali della terra. Al nord abitano gli Armeni, i Frigi e i Lidi; ancora più a nord i Cambri, gli Amydones e i Titani.
I Titani sono una razza molto selvaggia e seminuda che va alla ricerca, in Media, di cavalli bianchi che trattano come degli dei. Essi abitano nei dintorni di un grande lago e si trovano a venti giorni di marcia dai Medi.
Verso il levante abitano i Babilonesi, i Medi e gli Etiopi. La città di Babilonia è grande e popolosa. La Media nutre numerose mandrie di cavalli bianchi. Il paese degli Etiopi è sabbioso e arido sulle coste, montagnoso nell'interno. Il paese più remoto ad Oriente è il Chersoneso di Rachius, dove sono arrivate le triremi di Joram.
Citiamo ancora qualche canto nazionale che si trova riportato nell'opera.
Sicuramente vi è una poesia molto bella e una serie d'immagini degne della Bibbia nel canto funebre su alcuni guerrieri Tiri morti a Tartesso, che il signor Grotefend paragona al famoso cantico di Ezechiele:
Il mare ti ha rigettato sulla riva
come una perla brillante,
dove sei nato, nel cielo, astro luminoso?
Il continente brilla del tuo chiarore
e il mare riflette la tua bellezza.
O regina dei flutti, quando vedi il tuo popolo navigare
tu ti rallegri come una madre felice
alla vista dei suoi figli.
Ma guarda lontano
e delle lacrime scenderanno sulle tue guance
e bagneranno il suolo
e il mare risuonerà dei tuoi canti tristi.
Perchè le tue triremi
sono state distrutte a Tartesso
e i più coraggiosi dei tuoi figli
distesi morti su una riva lontana
sono preda degli avvoltoi e dei pesci.
Non vi è minor grandezza in questo canto di un re di Hamalh bandito dai suoi territori:


Ammisus mi ha cacciato dalla città

i miei servi mi hanno schiacciato sotto le loro canzonature

ma io farò fustigare i miei servi

e io ucciderò Ammisus.

Un tempo riposavo sulla porpora di Tiro

e il mio cuscino era fatto di seta Babilonese.

Ma voi credete che io tremi

perchè l'oscurità discende sulla foresta

e perchè la tempesta passa attraverso gli alberi

come fosse un leone ruggente?

Credete voi che io mi spaventi

per l'aspetto delle rocce

che brillano al chiarore della luna

e dei pallidi fantasmi

che sorgono da qualche zolla di terra?

Il leone è forse senza coraggio nella sua oscura tana?

Avete mai visto il cinghiale prender paura?

Il cinghiale selvaggio

percorre senza paura u sentieri di montagnardse il ruggito del leone fa tremare i suoi nemici.

Dopo la lettura di questi diversi estratti si capirà perchè alcuni uomini quali Gesenius e Grotefend abbiano creduto all'autenticità del libro dal quale noi abbiamo attinto. L'opinione del signor Grotefend è cambiata, è vero, ma i suoi dubbi attuali sembrano piuttosto dovuti alle informazioni che gli sono giunte sul carattere del signor Wagenfeld che sulla sua opera.
D'accordo, la lettera del signor Grotefend non prova che la falsificazione sia completa, perchè sembra egli credere all'esistenza di un manoscritto che il signor Wagenfeld avrebbe alterato.
La pubblicazione del testo greco che è stata formalmente promessa fornirà armi sicure alla criticae se, in definitiva, si avrà nel signor Wagenfeld un successore di Annio da Viterbo e di Ligorio, non ci si potrà astenere dal dispiacersi che con tanta conoscenza, con un tale sentimento delle cose antiche, con una immaginazione così poetica e feconda, egli abbia compromesso il suo avvenire letterario rendendosi colpevole di una soperchieria che non potrà in nessun modo nuocere a coloro che ha ingannato, ma che avrà per sempre influenzato il suo carattere e il suo onore.

Ph. Le Bas.
______
Io non aggiungo altro se non che sarebbe bello leggere il manoscritto per intero, io per ora non l'ho trovato, ma la ricerca continua e spero che presto possa dare i suoi frutti!
Alla prossima,
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


1M.Heeren, Idées sur la politique et le commerce des peuples de l'antiquité. Tomo II, pag 2.

2Menandro d'Efeso, storico greco del II sec. a.C. citato da Giuseppe Flavio come autore della storia di Tiro.

3In ebraico DECHEN= fertilità. W.

4In ebraico Ich roa= l'uomo della malvagità, l'uomo della bruttezza.

5in ebrico Erets tsafon, la terra del nord, relativamente alla Sicilia e all'Africa, nome che gli avrebbero dato i coloni in quanto per loro le coste della Liguria erano ciò che si trovava più a nord. W.

6In ebraico Lebanon=montagne di neve, Alpi. W.

7In ebraico: Abi Bakar=padre del bestiame.

8Pure Giustino (XLIV,4,15) dice che Ercole è originario d'Asia. Herculem ex Asia. W.

9In ebraico Livythan=ricurvo, sinuoso. Espressione usata parlando di mostri di grandi dimensioni, coccodrilli e serpenti.

10O Masisabal la freccia di Baal. W.

11Le ricchezze della Spagna in metalli prezioni erano celebri nell'antichità. Giustino (lib. XLIV, 1,6) ne parla.

12Si tratta di tre giocolieri indiani che si trovavano da lungo tempo presso la corte del re di Sidone. Il signor Grotefend pensa che per Etiopi si debba intendere gli abitanti di Ceylon.

13In sanscrito Lankapati, il signore di Lanka, Ceylon.

14Si è pensato che il nome Baaut sia stato usato qui per designare Budda e da ciò si è creduto avere prova contro l'autenticità del lavoro del signor Wagenfeld. Ma, da una parte, non è dimostrato che il culto di Budda non esistesse a Ceylon nel X° secolo a.C., dall'altra parte niente dimostra che qui Baaut stia per Budda. Baaut è il nome che i fenici davano al Chaos. Aver visto le tracce dei passi di Baaut in un luogo, potrebbe significare riconoscere le tracce di una fondazione primitiva. Ritrovare le tracce di un dio negli anfratti inaccessibili è un'idea religiosa comune a tutti i popoli e di cui noi abbiamo visto più alti esempi. Del resto queste pretese tracce di Baaut si chiamano, oggigiorno, piedi d'Adamo.

15τὰ Μισύβατα, μαντεῖον λίθιτον. ch. vi. In ebraico Matsebeth. W

16Filone in altri punti dà al nome Adramot la forma grecizzata Adramusa. In arabo Hadhramaut.

17I bétyles sono delle pietre arrotondate a cui si attribuiva una virtù profetica. Se ne parla nella genesi XXIV, 18 e seguenti.

18Il signor Grotefend crede di vedere in Masuda il nome Amathonte (Amathus).

19In ebraico Mifrats Tor, il porto di Tiro. W.

20 Γάδειραν γὰρ τεῖχος λέγουσιν, aiuta Filone. In ebraico Ghedera. W. Il signor Grotefend nella sua prefazione pensa si tratti di Cythète.

21Mazaurisa è la Sicilia, paese (in arabo Mesr) del fuoco (in ebraico Ech). Essa era così chiamata a causa del suo vulcano. W. In quanto ai sei insediamenti fondati dai Tiri e dai Sidoni in Sicilia, il signor Grotefend rinvia a Tucidide, lib. IV, cap. II.

22Malta secondo Grotefend.

23la Corsica e la Sardegna.
A me questo nome sembra strano in quanto da altre letture mi risulta che per i Cartaginesi la Sardegna fosse conosciuta col nome di Munivia. A.Rugolo

24Il nome di Imyrchakines si spiega con l'ebraico: Iimrakhokim, isole lontane. Si tratta evidentemente delle Canarie.

sabato 29 giugno 2013

Gita in ciociaria: Isola del Liri e Arpino

La ciociaria è una splendida area del Lazio, ricca di storia e di bellezze naturali.
Oggi siamo stati a Isola del Liri, una piccola cittadina costruita su un'isola naturale del fiume Liri... ecco il risultato, al centro del paese!
L'aria è fresca, piccole gocce d'acqua danzano intorno alla cascata creando splendidi giochi di luce e colori.
Facciamo quattro passi per le strade del paese, lungo i fiumi, poi dopo aver gustato una ottima pizzetta al taglio proseguiamo il nostro viaggio, prossima meta la cittadina di Arpino, più nota anche perchè diede i natali al famoso oratore latino Cicerone, ma anche al sette volte Console di Roma Caio Mario.
Arpino si trova a soli sette chilometri da Isola del Liri per cui non facciamo neanche in tempo a partire che siamo arrivati. Lungo la strada notiamo una Abbazia cistercense, Casamari, decidiamo di fermarci a visitarla al ritorno in quanto al momento si stà celebrando un matrimonio.

Arriviamo ad Arpino.

Una passeggiata per le strade strette ci fa capire che la cittadina in passato dovette essere importante, gli stemmi di famiglia sui portoni delle case ne testimoniano un passato interessante.
Dall'alto si gode uno splendido panorama e il silenzio e la calma rendono la visita stupenda.
Le vie sono ricche di testimonianze artistiche, in tante lingue diverse.
La fontana dell'acquila è splendida e il sole ne risalta le forme...
Ci fermiamo a mangiare in un ristorantino nascosto in una viuzza del centro, l'Ottavo vizio, che merita l'attenzione di una nuova visita.
Ottimi gli antipasti, prosciutto e formaggio, bruschetta al pomodoro e zuppa di cozze. E per primo spaghetti cacio e pepe e fini fini al pomodoro. Il tutto annaffiato con un vino rosso di quelli che macchiano il bicchiere...
Ci alziamo satolli e segnamo l'indirizzo sulla agenda per la prossima visita.
E' tempo di rientrare.
Saliamo in macchina e facciamo la stessa strada per visitare il monastero.

Bellissimo!

Un piccolo museo al suo interno ci lascia a bocca aperta.
In una teca all'ingresso due enormi zanne fossili appartenute a uno splendido esemplare di elefante preistorico.
Leggiamo con interesse le didascalie che ci raccontano di un tempo in cui la zona era abitata da bestie feroci...
Un piccolo museo ma veramente ben tenuto.
L'abbazia si può visitare e così ci addentriamo nel suo interno, visitiamo il chiosco e godiamo dei colori e dei profumi dei fiori.

Ma come tutte le cose belle anche questa gita è giunta al termine.
Alla prossima.


Alessandro Giovanni Paolo Rugolo




domenica 9 giugno 2013

Il padre dell'atomismo, secondo gli antichi

Se si da retta a quanto ci dicono scuola e anche a quanto si legge nei saggi, l'atomismo è nato in grecia con Leucippo e il suo discepolo Democrito,

Ma siamo poi certi che le cose siano andate in questo modo?
Camillo Minieri Riccio nel "Catalogo di MSS di Camillo Minieri Riccio" (vol 3° 1869 ) riporta il libro primo dell'opera di Pietro Giannone, nelle prime pagine si parla di problematiche relative alla cronologia e poi si parla di come i Teologi del suo tempo avessero cominciato a dire che Mosè non era altri che Moco o Mosco, filosofo e autore della dottrina Atomistica vissuto prima della guerra di Troia. Sembra che tale idea fosse abbastanza diffusa anche se come al solito c'era chi invece combatteva la cosa come assurda. Senza prendere posizione nella diatriba, vediamo di capire di che si tratta. Ma sentiamo cosa ci dice il nostro Pietro Giannone che non credeva nella identificazione di Moco con Mosè.

"Di questo Mosco Fisiologo fa memoria Jamblico nella vita di Pitagora dicendo che costui essendo in Sidone ebbe dispute in Filosofia co successori di Mosco Fisiologo. Strabone eziandio filosofando di questo Mosco che lo chiama Mascusu Sidonem dice che trattò di fisica e che fu assai più antico dell'eccidio di Troja. Imo si Posidonio credimus antiquum de Atomis dogma Monchi est hominis Sidoni qui ante Trojani belli tempus vixit.
Ne fa anche menzione Sesto Empirico facendolo per Autore della dottrina degli Àtomi dicendo: Democritus et Epicurus Athomos, nisi haec opinio statuendo sit antiquior et uì Stoicus dicebat Pòsidonius deducta a Mocho quodam Phoenice.
Ne paralarono ancora Taziano, Ateneo, Clemente Alessandrino, Eusebio, Cedreno ed altri fra moderni come Sincello Heisnero e Seldeno.
Alcuni credettero che Flavio Giuseppe parlasse quasi di questo Mosco ma s'ingannano poiché egli intende dell'altro Mosco Istorico e non di questo Fisiologo. Or nel nostro Wezio venne fantasia di emendare il luogo di Jamblico ed in vece di Mosco vuol che si debba leggere Moses. Non gli fa niuna difficoltà che Jamblico e Strabone non potevano intendere di Mosè Ebreo facendo quel Mosco Sidone perchè si dice non sapevano costoro la vera Patria di Mosè: oppure essendo i Fenici e gli Ebrei molto vicini poterono facilmente confondere la Patria."

Appare chiaro che la figura di Moco o Mosco era conosciuta già in antichità.

Iniziamo dunque da Giamblico (Jamblico, 240-325 d.C.) la ricerca di informazioni su Moco.
Giamblico nella vita Pitagorica ci dice che Pitagora (570 - 495 a.C.) era di Sidone e che "a Sidone si incontrò con i discendenti del profeta e studioso di cose della natura Moco e con gli altri ierofanti fenici, e si iniziò a tutti i misteri particolarmente celebrati a Biblo, a Tiro e in molte parti della Siria; e questo non certo per superstizione , come ingenuamente si potrebbe supporre, bensì per amore e desiderio di conoscenza, oltre che per timore di restare all'oscuro di quanto, custodito nei riti arcani degli dei o nelle cerimonie misteriche, fosse degno di essere appreso."

Giamblico prosegue nel racconto della vita di Pitagora dicendo che Pitagora sapeva che i riti fenici discendevano in un certo senso da quelli Egizi, più antichi. Non ho trovato però riferimenti alla dottrina atomistica, dunque proseguiamo il nostro viaggio nel tempo.

Lasciamo Giamblico per proseguire la ricerca andando a disturbare Strabone (60 a.C. - 23 d.C. circa) il quale lo cita nella sua opera "geografia" al vol. XVI, descrivendo la fenicia, dicendo che ne parlava Posidonio (135 - 50 a.C.), ma vediamo che cosa dice:

"Et, se habbiamo à credere a Posidonio l'antica opinione degli atomi fu d'un huomo di Sidonia chiamato Mosco il quale fu inanzi la guerra di Troia."

Poco dopo Strabone operava e scriveva un tale Taziano l'Assiro (120 - 180 d.C.), anche lui parla di Moco annoverandolo tra gli storici della Fenicia assieme a Teodoto e Ipsicrate.

Procopio di Cesarea, nel suo "Guerre persiane e vandaliche" riporta pari pari l'opinione di Posidonio...

Ma vedo che la ricerca si fa più lunga e interessante di quanto potessi immaginare... dunque mi fermo qui, per ora.
Tornerò presto sull'argomento...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 18 maggio 2013

Gli Albani, di Elena Kocaqi

Ogni popolo conserva le memorie del passato, la sua storia, nella speranza di mantenere vivo il
ricordo dei propri avi e delle loro imprese. Così noi italiani abbiamo sempre fatto riferimento ai romani, grande popolo del passato, come nostri avi. I romani a loro volta facevano riferimento ai troiani, dicendo di discendere da Enea.
Talvolta la lettura di un libro di storia, scritto da una persona appartenente ad una diversa civiltà, porta a fare delle considerazioni sull'etnocentrismo della storia. Ogni popolo scrive la storia che conosce incentrata sul proprio popolo, tralasciando o ignorando popoli e fatti di cui non è direttamente protagonista.
La lettura del libro di Elena Kocaqi, scrittrice, storica e professoressa di storia e di giurisprudenza, cerca di mettere al centro del mondo antico il suo popolo e la sua nazione, l'Albania con lo scopo dichiarato di dare "un contributo alla conoscenza e alla rivalutazione della storia vera degli albanesi".
Lo fa ripercorrendo i testi antichi alla ricerca di testimonianze sull'origine del popolo albanese e della sua storia.
Leggendo le sue pagine si scopre che i pelasgi e gli illiri hanno la stessa origine e che i troiani sono anch'essi pelasgo-illiri. Così gli albanesi come i romani, gli scozzesi e i britannici hanno origine dagli stessi popoli e sono molto più simili di quanto comunemente si pensi.
L'autrice ripercorre i testi antichi e evidenzia l'origine dei popoli europei riportando alla luce antichi legami spesso dimenticati o ignorati.
Secondo l'autrice la storia antica può e deve essere rivista ridando al popolo albanese la posizione che gli appartiene. Secondo l'autrice la lingua albanese deve essere diffusa e studiata da chi voglia trovare le origini dei popoli, molti termini e nomi antichi infatti possono essere correttamente interpretati solo con questa antica lingua.
L'autrice ci guida per mano alla scoperta delle origini del popolo albanese, spiegando toponimi e nomi grazie all'uso della lingua albanese, ripercorrendone le vicissitudini attraverso le parentele tra famiglie reali europee, arrivando fino ai giorni nostri
Un grande lavoro che ha il pregio di vedere la storia da un punto di vista nuovo per un italiano.
 
E allora a lei, professoressa Kocaqi, i miei complimenti e in bocca al lupo per i suoi studi.
 
A voi lettori curiosi l'augurio di trovare nel libro spunti di riflessione utili per il vostro personale percorso di studio.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 5 maggio 2013

Procopio, la guerra gotica: sulla Sardegna

Ancora una piccola curiosità sul testo di Procopio sulle guerre gotiche.
Riguarda la Sardegna e alcune tradizioni quali il nome antico e il riso sardonico.
Voglio riportarvi il testo di Procopio, sicuro che troverò qualche curioso che andrà a leggersi l'intero libro. Siamo intorno al 552 d.C. e la guerrra contro i Goti di Totila è ormai al termine.
Procopio dice che intorno all'anno 17 dall'inizio della guerra...
 
        "Totila, proponendosi di occupare le isole attinenti all'Africa" - in quel periodo infatti Sardegna e Corsica dovevano essere inserite nella provincia romana dell'Africa - "radunata una flotta e postovi sopra un esercito conveniente, la spedì verso la Corsica e la Sardegna.
Coloro dapprima approdarono in Corsica e, niuno facendo resistenza, s'impadronirono dell'isola. Poscia occuparono anche la Sardegna. Ambedue le isole Totila fecesi tributarie. Saputo ciò, Giovanni che comandava le truppe romane d'Africa, spedì una flotta con molti soldati in Sardegna.  
Questi, giunti presso la città di Cagliari e accampatisi, proponevansi di porvi assedio, poichè non si credevano in grado di darvi assalto essendo colà un considerevol presidio di Goti. Appena sepper la cosa, i barbari, sortiti dalla città, improvvisamente piombarono addosso ai nemici e, messili facilmente in fuga, molti ne uccisero. I rimanenti fuggiti via ripararono pel momento sulle navi e poco dopo, salpati di là, recaronsi a Cartagine con tutta la flotta. Ivi rimasero a svernare, proponendosi di tornare al principio di primavera con maggiore apparato contro la Corsica e la Sardegna..."
 
In questa prima parte Procopio ci racconta uno spaccato della guerra combattuta dai romani (d'Oriente, in quanto l'Occidente era ormai scomparso sotto le macerie delle guerre!) contro i Goti che avevano occupato anche le isole. La Sardegna non doveva essere troppo abitata, anch'essa era stata teatro di guerre. Pochi anni prima, intorno al 535 d.C., era stata invasa dai Vandali...
Ma ora proseguiamo a leggere Procopio, che ci da alcune informazioni sulla Sardegna antica...
 
      "Sardò è il proprio nome di questa che chiamasi ora Sardegna."
 
Ecco che dalle nebbie sorge il ricordo di un antico nome dell'Isola...
 
       "Ivi nasce un'erba che agli uomini che la gustano produce subito letal convulsione di cui muoion poco dopo. E la convulsione produce in essi l'apparenza di certo riso che, dal nome del paese, vien chiamato sardonico."
 
E questo è quanto!
Finisce con la spiegazione del detto "riso sardonico" la digressione di Procopio sulla Sardegna...

E per ora anche per me è tutto!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 4 maggio 2013

Si può risparmiare su RAI e giornali?

Quando cominceremo a risparmiare sulle cose realmente inutili?
 
Quando ero giovane pensavo che qualcuno potesse realmente regalarti qualcosa senza chiedere niente in cambio... ora sono cresciuto e, pur non essendo certo che nessuno farebbe una cosa simile, sono diventato un po più scettico!
Oggi come oggi, dovunque mi giri, vi sono giornali in regalo abbandonati un po dappertutto! Certo, non sono proprio di buona qualità, ma d'altra parte cosa si può pretendere visto che sono gratis?
Gratis?!?
Ma ne siamo sicuri?
E chi è questo benefattore dell'umanità?
Anzi, chi sono questi benefattori, dato che esiste addirittura una certa concorrenza?
Non trovo la risposta... o forse voglio solo evitere di cercarla.
Lo Stato paga e tutti gli editori incassano... alla faccia della concorrenza!
Ecco dunque che in un momento come questo, in cui si dice di voler trovare soluzione alla crisi italiana, eliminare gli aiuti di Stato all'Editoria (e alla Tv) potrebbe essere un modo intelligente per risparmiare e per incentivare la concorrenza. Chi è più bravo va avanti, via le riviste spazzatura che sopravvivono solo grazie ai contribuiti statali, via anche le riviste che non servono ad altro che a finanziare i partiti politici, perchè anche questa è una realtà!
 
Che dire poi della RAI? Quando ero piccolo ricordo che esistevano due canali, RAI Uno e RAI Due che trasmettevano solo per alcune ore al giorno.
Oggi è tutto diverso, non so neanche quanti canali abbia la RAI... però vedo che la quantità non ha certo migliorato la qualità, anzi!
Eppure la tassa sul possesso della Tv, quella si che sale ogni anno, per finanziare...
E dunque, ecco alcuni suggerimenti per il nuovo Governo:
- via i finanziamenti ai giornali;
- via i canali RAI inutili e abbassiamo il canone, effettuando però dei controlli, a cura degli uffici erariali dei Comuni, porta a porta, per verificare che si paghi il canone. Tra l'altro, se si inserisce nel modello delle tasse, la denuncia del canone, occorrerebbe controllare solo quelli che non denunciano il pagamento, ma così sarebbe troppo facile far pagare tutti e dunque non verrà mai fatto!
 
Ma lasciamo perdere, meglio chiudere qui!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO 

mercoledì 1 maggio 2013

Fatto il governo, già iniziano le discussioni!

E' mai possibile che i nostri carissimi politici non capiscano che devono evitare di discutere e iniziare a lavorare?
Eppure credo che sia chiaro a tutti!
Forse mi ripeto ma ciò che occorre all'Italia è semplicemente iniziare a "fare" e smetterla di "parlare".
Io, e credo come me un po tutti gli italiani, voglio iniziare a vedere i fatti, basta con le chiacchiere!
Non parlo di grandi cose, parlo di piccole cose di tutti i giorni.
Alcuni esempi per essere chiaro:
- se si esce per strada in paese i marciapiedi sono sporchi e l'erba e alta, nessuno pulisce per strada. che fine hanno fatto i buoni vecchi spazzini? Qualcuno potrebbe dire che non si chiamano più spazzini, chiamateli come vi pare ma la sostanza non cambia, dove sono andati a finire? Non è che per caso sono stati tutti "promossi" a lavoro d'ufficio? Sono sicuro che qualcuno potrà dire che non ci sono soldi per assumerli e io rispondo, "perchè non si chiede a chi riceve un contributo dallo Stato (disoccupazione, sussidi, cassa integrazione) di rendere un servizio pubblico? Facciamo attenzione perchè gli aiuti sono necessari ma a lungo andare creano dipendenza!
- chi controlla? Tutte le organizzazioni necessitano che qualcuno dia disposizioni (o ordini!) e poi occorre controllare che le stesse sia no state seguite e che il risultato voluto sia stato raggiunto. Ma voi vedete mai nessuno (al di la dei vigili urbani) che controlli? Vi è mai capitato di vedere un funzionario pubblico in un supermercato che controlla i prezzi? Oppure il Sindaco che gira per strada per controllare che i dipendenti pubblici svolgano i l loro lavoro? Qualcuno è mai venuto a csa vostra a chiedere di mostrare i documenti relativi alla vostra residenza? Voi direte, per fortuna non passa nessuno... Bene, allora noi italiani abbiamo ciò che ci meritiamo!
- lo Stato spende milioni di euro per le elezioni... ma per quale motivo? I locali sono dello Stato, quasi sempre si tratta di scuole, il personale è forse la spesa maggiore? Ma allora perchè non fare fare il lavoro a chi, disoccupato, già riceve un sussidio? Oppure ai nuovi maggiorenni, quale contributo gratuito alla nazione? Attenzione, non si tratta di sfruttamento ma semplicemente di applicazione della reciprocità Diritti-Doveri!
- si parla di crisi delle piccole imprese: ma allora perchè si accettano i grandi monopoli? E ne esistono di veramente grandi e istituzionalizzati. Parliamo della CONSIP? Che altro è se non un modo per far chiudere tutti i piccoli produttori e rivenditori dei paesi dell'Italia? Non sapete cosa sia la CONSIP? Male... è vero che (forse) lo Stato risparmi nell'acquisizione centralizzata dei beni per le Pubbliche Amministrazioni ma quali sono gli effetti collaterali sul tessuto economico locale? Qualcuno ha mai pensato che se i piccoli chiudono lo Stato ne paga le conseguenze?
Ma per oggi credo di aver parlato abbastanza, mi auguro che qualcuno prenda queste mie parole come consigli e si dia da fare, magari senza parlare, ma con i fatti!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 27 aprile 2013

Procopio: l'isola di Thule

Thule raffigurata nella Carta disegnata da Olao Magno (1539)
Precedenti:

Procopio:guerra gotica;
Procopio: la nave di Enea.

Ancora una curiosità per chi è appassionato di storia antica. Poche righe per parlarvi dell'Isola di Thule e delle popolazioni che vi abitavano.
Non voglio ripercorrere la storia di Thule nei testi antichi, mi basta dire per ora che Procopio non fu certo il primo ne l'unico a parlare di quest'isola, posta agli estremi confini del mondo conosciuto, voglio semplicemente incuriosire affinchè altri seguano il sottile filo della conoscenza dello sviluppo della civiltà umana, che inaspettatamente conduce anche ai confini del mondo.

Procopio ci parla dell'isola di Thule mentre racconta la storia del popolo degli Eruli, un popolo che in quel periodo (intorno al 500 d.C.) si trovava a volte a fianco dei Romani a combattere contro i Goti. Il popolo degli Eruli abitava oltre il Danubio, adoravano tantissimi dei e offrivano loro anche sacrifici umani. Era un popolo dalle usanze particolari e differenti dai popoli europei, almeno così dice Procopio, infatti:

"presso di loro non era permesso di vivere nè ai vecchi nè ai malati; quando qualcun di loro si facesse vecchio o cadesse malato avea egli obbligo di pregare i parenti suoi di toglierlo al più presto d'infra i vivi, e coloro, messa assieme un'alta catasta di legna e adagiato l'uomo in cima a quella, mandavangli un altro erulo, d'altra famiglia però, con un pugnale; poichè non era lecito che l'uccisore fosse un parente."

Ecco un'usanza, in effetti, non comune a tanti!
Gli eruli, dopo la soppressione del parente davano fuoco alla pira e poi provvedevano a seppellire i resti del morto. Se il morto aveva moglie era considerata virtuosa colei che si toglieva la vita impiccandosi nei pressi della tomba del morto.
Procopio ci parla ancora degli Eruli come di un popolo incostante, violento e capriccioso. Dopo una sconfitta subita ad opera dei Romani, per esempio:

"Gli Eruli, volgendo la loro bestiale e furiosa natura contro il loro re (chiamavasi costui Ochan), improvvisamente lo uccisero, adducendo come unica ragione che non voleano aver più re. Invero già anche prima il re presso di loro, benchè portasse questo titolo, non valeva quasi nulla più di un privato qualunque. Tutti poteano sedersi accanto a lui, essere suoi compagni di tavola e senza riguardo, chiunque volesse, poteva insultarlo; poichè non vi ha gente più screanzata e più sregolata degli Eruli".

Ma come ho detto erano anche incostanti per cui dopo aver ucciso il re si pentirono e resisi conto di non poter vivere senza una guida decisero di andare a cercare qualcuno della stirpe regale da prendere come loro re. E quì inizia la storia di Thule...
Procopio deve fare un passo indietro a quando gli Eruli furono vinti dai Longobardi, allora parte di questo popolo si stabilì nell'Illirico, ma altri invece

"andaronsi a stabilire agli ultimi confini del mondo. Costoro adunque, guidati da molti uomini di sangue reale, attraversarono una dopo l'altra tutte le popolazioni slave. Quindi, passando per una vasta regione deserta, giunsero presso i cosiddetti Varni; dopo i quali passarono in mezzo ai Danesi, senza ricevere male alcuno da quei barbari. Quindi giunti all'Oceano misersi in mare, ed approdati all'Isola di Thule, colà rimasero."

Ecco che finalmente appare l'oggetto di questo post, l'Isola di Thule, un'isola quasi deserta ai confini del mondo conosciuto, nel nord più lontano... a nord della Britannia. Nella parte abitata vi si trovano tredici popolazioni ognuna con un suo re.

"Colà ogni anno ha luogo un mirabil fatto. Il sole verso il solstizio di estate per circa quaranta giorni mai non tramonta, ma costantemente per tutto quel tempo vedesi sull'orizzonte. Non men di sei mesi più tardi però, in sul solstizio d'inverno, il sole per quaranta giorni non vedesi mai in quell'isola, che riman circonfusa da perpetua notte..."

La descrizione è dunque di un'isola molto a settentrione, per quaranta giorni il sole non tramonta in estate e non sorge in inverno, tutto ciò lascia pensare che quest'isola, se di isola si tratta, si trovi molto vicino ai 66° di latitudine, all'altezza del Circolo Polare artico o poco oltre. Infatti, dal numero di giorni che il sole non sorge sembra che il posto si debba trovare tra i 66 e i 70° di latitudine, poco sopra la posizione odierna dell'Islanda.
Tra i popoli dell'Isola di Thule, Procopio racconta che solo gli Scrithifinni vivono come le bestie, mentre gli altri popoli non differiscono molto dagli uomini.
I Thuliti "venerano molte divinità e geni celesti e aerei, terrestri e marini, come pure taluni altri geni che dicono trovarsi nelle acque delle fonti e dei fiumi; ed assiduamente offrono sacrifizi di ogni sorta. Fra le vittime la più prelibata è per essi il primo uomo preso in guerra."
Marte era il loro dio preferito e a lui venivano offerti i primi uomini catturati... non starò a descrivere come lo sacrificassero, perchè sembra di vedere altri popoli, magari gli Aztechi, compiere i loro crudeli sacrifici!
Gli Eruli, arrivati sull'isola si stabilirono presso la popolazione dei Gauti, tra questi quindi era possibile trovare appartenenti alla stirpe reale. Todasio e Aordo furono condotti in Europa per diventere re degli Eruli. Potrebbe essere interessante approfondire la storia degli Eruli, cercando tra essi questi due esponenti della casa reale.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 25 aprile 2013

Procopio di Cesarea: la nave di Enea

I compagni di Enea verso la Sicilia, arazzo fiammingo Fondazione “G.Whitaker” – Palermo
L'ultima volta ho iniziato a parlare del libro di Procopio sulla "guerra gotica". Da allora ho proseguito la lettura e oggi voglio raccontarvi una curiosità appena letta.
Nel quarto libro, capitolo XXII Procopio ci parla di come i romani fossero innamorati della loro città e più di tutti i popoli tenessero a conservare i ricordi, sia perchè le costruzioni antiche erano costruite talmente bene che duravano nei secoli (ed ancora oggi Roma ne è testimone!) sia che i romani facessero di tutto per conservare ciò che ritenevano importante per la loro memoria.
Procopio dice dunque di aver visto con i suoi occhi la nave che portò Enea, fondatore di Roma, ad approdare sulle coste del Lazio.
In altri testi ho trovato riferimenti ad Enea e alla fondazione di Roma ma non avevo mai trovato la descrizione della sua nave, fra i tanti ricordi della storia di Roma...:
"fra' quali la nave di Enea, fondatore della città, esiste tuttavia, spettacolo oltre ogni credere interessante. Per quella fecero nel mezzo della città un cantiere sulla riva del Tevere, ove collocata da quel tempo la conservano"
Mi fermo un attimo per ricordare che Procopio scrisse e visse intorno al 500 d.C. mentre Enea dovrebbe essere arrivato nel Lazio tra il 1200 e il 1100 a.C. cioè circa 1600 anni prima di Procopio, eppure, sentite cosa dice subito dopo...
"Com'essa sia fatta io, che l'ho vista, vengo a riferire.
Ha un sol ordine di remi quella nave, ed è assai estesa. Misura in lunghezza centoventi piedi (circa 35 metri), in larghezza 25 (circa 7,5 metri) ed è alta tanto quant'è possibile senza impedire la manovra dei remi."
Una discreta dimensione per una nave del 13 secolo a.C.
"I legni che la compongono, non sono nè incollati fra loro nè tenuti assieme per mezzo di ferri, ma sono tutti quanti d'un sol pezzo fatti sopra ogni credere ottimamente e quali, a nostra notizia, non se ne vider mai se non in quella sola nave."
Doveva essere una nave molto particolare per essere sopravvissuta tutti questi anni e apparteneva a una tipologia che ormai doveva essere scomparsa, un ricordo di altri tempi!
"Poichè la carena, cavata da un solo tronco va da poppa a prua insensibilmente divenendo cava in modo mirabile e quindi nuovamente a poco a poco ridiviene retta e protesa. Tutte le grosse costole, poi, che vengono adattate alla carena (chiamate dai poeti dryochoi, dagli altri nomeis), si estendono ciascuna dall'uno all'altro fianco della nave; ed anche queste, partendo da ambedue i bordi, si adagiano formando una curva d'assai bella forma, in conformità della curvatura della nave, sia che la natura stessa secondo i bisogni del loro uso abbia dato a quei legni già da se quel taglio e quella curvatura, sia che, con arte manuale e con altri ordigni, di piani fossero quei regoli fatti curvi. Inoltre ognuna delle tavole, partendo dalla cima della poppa, giunge all'altra estremità della nave, tutta d'un sol pezzo e fornita di chiodi di ferro unicamente all'uopo d'essere commessa alla travatura in modo da formar la parete."
I costruttori della nave dovevano essere molto bravi se a distanza di mille e seicento anni riuscivano a destare tale stupore in chi guardava la loro opera!
"Questa nave così fatta è mirabile a veder più di quello possa dirsi in parole; ed invero tutte le opere straordinarie sono sempre per natura difficili a descrivere, e tanto superiori al linguaggio quanto lo sono all'ordinario pensiero. Di questi legni non ve n'ha uno che sia imputridito, niuno che si vegga tarlato, ma quella nave sana in tutto ed integra come se uscisse pur ora dalle mani dell'artefice, qual egli fosse, conservasi mirabilmente fino a questi giorni punto..."
Occorre, forse, chiedersi se Procopio dicesse la verità, e poi appurato ciò, come fosse mai possibile che la nave non portasse alcun segno del tempo...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Immagine tratta da: https://bombacarta.com/2007/11/24/canto-v-dell-eneide/

domenica 21 aprile 2013

Procopio di Cesarea: la guerra gotica

La città di Cesarea, in Palestina, è la patria del nostro Procopio, storico nato intorno al 500 d.C.
Studiò retorica, filosofia e giurisprudenza.
Il primo dato certo si ha nel 527 d.C. quando Procopio risulta trovarsi in Mesopotamia durante la guerra contro i persiani al fianco del Generale Belisario, con l'incarico di consigliere.
Qualche anno dopo, sempre al seguito di Belisario lo troviamo in Africa dove resterà per alcuni anni. Nel 536 viene assegnato all'Italia, dove passò un bel po di anni al seguito di Belisario e poi di Narsete. Muore probabilmente intorno al 570 d.C. dopo aver messo a frutto le sue conoscenze raccontandoci con le sue opere la guerra contro la Persia, la guerra in Africa contro i Vandali e la guerra in Italia contro i Goti. Procopio è anche autore di un testo chiamato "Storie segrete" in cui racconta tutto ciò che ufficialmente non poteva essere detto, mettendo a nudo i difetti dei grandi del tempo.
Ovviamente durante il racconto il nostro Procopio inserisce nei suoi testi le origini dei popoli di cui parla o delle terre che descrive, traendo le informazioni degli storici antichi a lui noti.
Purtroppo, dei suoi libri io possiedo solo la parte che riguarda la guerra gotica e le storie segrete, così mi trovo costretto, por ora, a cominciare dai goti, lasciando ad altro momento i libri precedenti. Come è mio solito non farò una recensione del libro o un suo riassunto, cercherò semplicemente di porre in evidenza alcuni aspetti a mio parere importanti o curiosi, poi chi vuole potrà approfondire per suo proprio conto.
Una delle cose che mi hanno colpito riguarda il fenomeno delle maree, descritto osservando il Po alla sua foce. Procopio infatti parlando dei flussi e riflussi riferisce che: "Questo però non suole così avvenire in ogni tempo; chè quando più fioca è la luce della luna, neppur forte riesce l'avanzarsi del mare; dopo giunta a mezzo però la luna, fino al suo tornare calando a mezzo, più forte suol essere il flusso". E' chiaro che l'influsso della luna sulle maree era allora bene noto.
Procopio ogni volta che può cerca di raccontarci la storia dei protagonisti del suo tempo. Uno di questi era Teodorico, re goto che portò via l'Italia a Odoacre. Teodorico s'impadronisce infatti dell'Impero Romano d'Occidente in pochi anni. Costringe Odoacre a rintanarsi a Ravenna e dopo aver siglato una pace lo elimina con l'inganno, impadronendosi così del regno e governando su italiani e goti. Non starò a raccontarvi di Teodorico ma del suo successore, il nipote Atalarico. Questi divenne re dei goti alla morte di Teodorico, ma essendo troppo giovane d'età era la madre Amalasunta a reggere le sorti del regno.
Amalasunta desiderava che il figlio venisse educato alla maniera dei principi romani e che frequentasse la scuola di lettere... ma ciò ai goti non piacque, infatti: "Raccoltisi i maggiornetifra di loro recaronsi da Amalasunta lamentando che il loro re non fosse rettamente educato nè come ad essi conveniva; dacchè le lettere di troppo sono distanti dal valore e gli insegnamenti di uomini vecchi per lo più han per effetto la timidezza e la pusillanimità; colui adunque che abbia un di a dar prova di coraggio nelle imprese e acquistarsi gloria, dover essere allontanato dal timore de precettori ed esercitato invece nelle armi [..] Or dunque, signora, dai pur congedo a questi pedagoghi e fai che Atalarico si accompagni con suoi coetanei, che passando con lui la florida età lo incitino al valore secondo l'usanza barbarica..."
E con questa lezione per oggi vi lascio, a presto.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 14 aprile 2013

Il preoccupante immobilismo della politica italiana

Io sono un cittadino italiano e come tale mi sento impotente di fronte allo squallido e insensato teatrino della politica che l'italia stà regalando al mondo.

Per essere chiari, non è che il fare una brutta figura internazionale mi interessi più di tanto, di ciò dovrebbero preoccuparsi direttamente i nostri rappresentanti, ciò che invece moi riguarda più da vicino sono gli effetti sulla vita di tutti i giorni.

E' sufficiente uscire di casa e andare a far la spesa per sentire le casalinghe lamentarsi della situazione; prendere il treno per sentire i pendolari "ringraziare" animatamente i nostri politici per la situazione dei trasporti pubblici; prendere la pontina in direzione Roma per essere protagonisti di un viaggio della speranza...

E in tutto ciò, la politica, come interviene?

Non interviene per niente!

Purtroppo sono tutti troppo impegnati nell'ascoltare se stessi, i loro discorsi retorici fatti di interventi programmatici, di grandi problemi filosofici (nell'accezione peggiore del termine!) per capire che se trovassero soluzione ai problemi di tutti i giorni risolverebbero in automatico molti problemi degli italiani.

Voglio evitare di fare come loro e calarmi nella realtà, chissà che tra chi legge non vi sia anche qualcuno di coloro che può intervenire e aiutare a risolvere i problemi.

Parliamo del traffico sulla Pontina, vi sono dei punti lungo la strada in cui si creano code e rallentamenti che purtroppo hanno influenza su tutta la strada.
Uno di questi punti è lo svincolo per Spinaceto, basta passarci per rendersi conto che chi ha studiato la viabilità doveva essere un genio incompreso! Ebbene, cosa ci vuole a capire che occorre intervenire sul posto, ristudiare tutta la viabilità e cercare di velocizzare il traffico?
Niente, lo cpirebbe chiunque!
Ma allora perchè non si fa niente?

Eppure, chiunque riuscisse a trovare la soluzione al problema riceverebbe un enorme grazie dalle decine di migliaia di persone che giornalmente percorrono quella strada!

Ma proseguiamo...

 La soluzione di un piccolo problema (se paragonato a quelli della politica italiana) ha degli influssi positivi su tutto. Pensate al fatto che chi va a Roma a lavorare percorrendo la Pontina, arriva al posto di lavoro già stressato e di conseguenza si comporterà durante la giornata.

Ma non è finita, eliminare i rallentamente significa anche diminuire il livello di inquinamento da polveri sottili migliorando la qualità della vita di chi abita nella zona limitrofa e degli automobilisti.

Ed ancora, pensate al tempo risparmiato... e al carburante e... così via!

Questo era solo un esempio.

E allora, se condividete il mio ragionamento, chiediamoci tutti assieme: "perchè nessuno fa niente, di pratico, per uscire dalla crisi italiiana?"

La mia risposta è....... da censurare, e dunque evito, tanto potete immaginare!

Buona domenica a tutti.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


domenica 7 aprile 2013

Zanzibar, di Silvano Spaziani

La storia di un viaggio è sempre appassionante da rileggere per chi ha fatto il viaggio.
E' molto più difficile renderla interessante anche per chi invece tale impresa non ha compiuto. Decidere il luogo in cui passare le proprie vacanze non è semplice, prepararsi adeguatamente ad un viaggio lungo e talvolta stancante è spesso un problema legato alla volontà propria e di chi ci acconpagna. Silvano è riuscito a rendere il suo viaggio interessante e appassionante. Mentre leggo mi sembra di essere al suo fianco e vivere i suoi stessi sentimenti, le sue sensazioni, i suoi problemi. E Cristina, che lo accompagna? Ascolta, asseconda, appoggia le scelte di Silvano, anche quando sono contradditorie. Lei è come il navigatore che aiuta il pilota a raggiungere l'obiettivo. Complimenti a entrambi per la splendida avventura e a Silvano per la sua capacità di rendere semplice, scorrevole e interessante il suo descrivere un viaggio che molti di noi lettori vorremmo fare ma che nella maggior parte dei casi dovremo accontentarci di tenere nel cassetto, come i migliori sogni oppure, grazie a Silvano, in bella vista nella libreria di casa nostra.
 
Se vi interessa leggere l'anteprima e magari acquistarlo, eccovi il link: Zanzibar


Bravo e in bocca al lupo!
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 22 marzo 2013

Le origini di Omero secondo Eliodoro

Eliodoro di Emesa, scrittore greco del ii o IV secolo d. C. autore di un "romanzo" storico dal titolo "Le Etiopiche" in cui racconta la storia d'amore tra due giovani, Cariclea figlia del re d'Etiopia e Teagene.
Come al solito mi piace evidenziare alcune informazioni particolari che potrebbero risultare d'interesse per i curiosi.

"Omero, mio caro, potrà essere chiamato da ciascuno a suo piacere e ogni città potrà ben dirsi la patria di questo saggio, ma in realtà egli era del nostro paese, egiziano, e la sua città era Tebe "dalle cento porte", come la chiama lui stesso".

A raccontare la storia di Omero e delle sue origini è Calasiri, un egiziano, che spiega il fatto a Cnemone.

"Suo padre presunto era un sacerdote, ma in realtà egli era figlio di Ermes, di cui il padre putativo era sacerdote. Infatti mentre un giorno la moglie di costui celebrava una festa tradizionale e si trovava a dormire nel tempio, il dio si unì a lei e generò Omero, che portava un segno di questa unione promiscua: fin dalla nascita ebbe una coscia coperta da peli assai lunghi. Da ciò derivò il nome che gli diedero in grecia, dove trascorse la maggior parte della sua vita errabonda, cantando i suoi poemi. Lui non svelò mai il proprio nome e non nominò mai ne la sua città ne la sua stirpe e nel dargli un nome prevalsero quelli che erano a conoscenza di questo suo difetto fisico."

Interessante non pensate?
Sembra che solo Eliodoro riporti questa versione sulle origini di Omero.

Come al solito, se dovessi trovare altre cose interessanti ve lo farò sapere, e già vi dico che di cose interessanti ve ne sono!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO