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domenica 17 aprile 2016

Ricordi del passato: l'Italia coloniale

Vi fu un tempo in cui l'Italia, forse drogata da idee di potenza molto comuni in Europa, pensò di poter tornare a essere un Impero, così nel 1935 e 1936 intraprese la sua avventura africana.

Pochi italiani ricordano quel periodo però se vi aggirate per i mercatini delle pulci potreste imbattervi in qualche ricordo del tempo che fu, come è capitato a me.
Sfogliavo un mazzo di vecchie cartoline alla ricerca di qualche francobollo da aggiungere alla mia collezione quando sono stato attirato da una cartolina postale dell'Africa Orientale.
C'è voluto poco per capire che si trattava di una cartolina proveniente dall'Africa Orientale.

Chi scrive è il Caporal Maggiore Ciani, in forza al 4° Fanteria della Divisione Peloritana, che evidentemente in quel periodo si trovava a Dire Dawa, in Etiopia. 
Si tratta di poche parole di saluto alla famiglia in risposta ad un telegramma di auguri.
Chissà se il ragazzo è riuscito a tornare dalla guerra e riabbracciare la famiglia.

Continuo a frugare tra le carte, incuriosito, alla ricerca di qualche altro pezzo di storia.
Poco dopo trovo una lettera di un soldato, Andrea, che scrive alla signorina Anna, a Roma.
Scrive dalla valle Gobat, credo si trovi in Eritrea.
Questa volta si tratta di una bella lettera che voglio riportare per intero, non sempre infatti i nostri soldati erano impegnati in azioni di guerra, anche se la guerra è sempre presente, e quello che leggo mi fa riflettere.
Le uniche mie modifiche sono per correggere alcuni errori di ortografia a la punteggiatura non sempre presente:

"Carissima Anna,
anche ieri una bellissima marcia verso nuovi lidi e ora siamo fermi sulle cime di due monti. Ai nostri piedi c'è una bellissima valle e, come si dice, è qui che dobbiamo aspettare il nemico e farne un macello.
Anche ieri, durante il nostro tragitto tutti i villaggi dei Tempien erano pieni di bandiere bianche e gli indigeni ci aspettavano a frotte e li ci salutavano con grida acutissime che un nostro soprano non si sarebbe mai sognato di fare.
In un villaggio incontrato sul mio cammino andai a vedere se potevo comprare dei polli e ne trovai tre. Gli diedi dieci lire di carta ma non li vollero allora mi frugai nelle tasche e trovai due monete da quattro soldi e ripresi le dieci lire e gli diedi gli otto soldi. Loro, tutti contenti, si misero a ballare. In quel mentre passò un aeroplano, loro si buttarono tutti per terra e si coprirono la faccia. Io colsi subito l'estro. Vidi un pollo che era rimasto nelle mani di uno di quelli, glielo tirai via e me ne andai. Dopo fatti un centinaio di passi mi voltai indietro ma nessuno si era mosso, erano ancora tutti prostrati. Tu mi biasimerai ma, cosa vuoi, quattro polli abissini con otto soldi italiani erano ben pagati e poi ci avevo un'attenuante, era parecchio che non ne mangiavo più."

La lettera prosegue con i saluti di rito...

Spero che Andrea sia riuscito a tornare dall'avventura italiana in Africa e abbia potuto riabbracciare la signorina Anna.
In tanti purtroppo non sono mai tornati dalle loro famiglie.
 
Io invece conto di tornare tra le bancarelle del mercatino delle pulci, magari la settimana prossima, alla ricerca di altri momenti di vita vissuta, che nella loro semplicità meritano di essere ricordati.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 9 aprile 2016

Mai avere paura, di Danilo Pagliaro con Andrea Sceresini

Devo ammetterlo, quando ho iniziato a leggere il libro di Danilo Pagliaro non avevo capito cosa avevo tra le mani.
Sarà "colpa" della copertina, oppure del fatto che di solito non leggo l'anteprima del libro, ma mi aspettavo un romanzo di guerra. Per fortuna così non è stato. Ho iniziato a leggere il libro ieri e oggi l'ho terminato. Devo dar ragione a Nunzio, il lettore che ha commentato il libro. Si legge tutto d'un fiato.
Ma allora, se non è un romanzo, di che si tratta?
La cosa cui questo libro assomiglia di più è una biografia. Ma non solo la biografia di un legionario della Légion étrangère, un soldato di nome Danilo Pagliaro alias Pedro Perrini, ma anche la biografia della stessa Légion étrangère.
Chi leggerà il libro, e mi auguro che siano in tanti, troverà una enorme quantità di informazioni sulla Legione, a partire da quelle necessarie per arruolarsi alle principali operazioni alle quali ha partecipato l'autore in prima persona, oltre naturalmente alla vicenda umana di Danilo.
Danilo Pagliaro è italiano per cui molti riferimenti e paragoni sono fatti con l'Italia. La storia dell'aspirante legionario Danilo Pagliaro inizia in Italia nel 1994, quando un uomo che ha probabilmente poco da perdere decide che è arrivato il momento di cambiar vita. La storia del legionario Pedro Perrini, inizia nello stesso anno, ad Aubagne, cittadina francese sede del Comando Generale della Legione straniera.
L'autore racconta le fasi del suo arruolamento e il duro addestramento militare che lentamente lo porterà a diventare un kepì blanc.
Danilo non si ferma però al solo aspetto descrittivo ma cerca in ogni occasione di far comprendere al lettore lo spirito del legionario, cerca di far capire cosa significhi essere militare, non nascondendo le sue idee in merito ai disertori, anche connazionali.
La vita del legionario è dura, anche se negli ultimi anni per ammissione dell'autore, è comunque cambiata, in meglio per alcuni aspetti, in peggio per altri. La società è cambiata e con essa i valori, ci dice. Personalmente condivido quasi in toto le sue considerazioni sul declino della società moderna.
In definitiva il libro è sicuramente da leggere, fa discutere e riflettere non solo sulla Légion étrangère ma sulla società moderna e sulle Forze Armate in particolare.
Complimenti e in bocca al lupo Danilo!

Alessandro Rugolo

Danilo Pagliaro, Andrea Sceresini
Ed. Chiarelettere
pagg. 224 

sabato 2 aprile 2016

Appunti sulla Spagna antica, da Masdeu e Annio da Viterbo

Annio da Viterbo, nato come Giovanni Nanni, visse e operò a Viterbo a cavallo tra il 1400 e il 1500. Morì a Roma nel 1502. E' accusato di essere un falsificatore della Storia antica per aver scritto un'opera dal titolo Antiquitatum Variarum.
Ad oggi non ho ancora avuto modo di leggere la sua opera, cosa che spero di poter fare presto. Perché mai, direte, visto che Annio da Viterbo è considerato un falsario?
Tanto per cominciare, per curiosità! Sono sempre stato curioso e non vedo per quale motivo non dovrei esserlo ora. Poi perché sono malfidato. Annio da Viterbo è stato accusato di essere un falsario dopo la sua morte. Non ha avuto dunque modo di difendersi dalle accuse. Siamo poi certi che le accuse siano esatte?
Dobbiamo credere ciecamente a Scaligero e a chi lo accuso?
No, mi spiace, io non credo in niente solo perché me lo dice qualcuno.
Infine perché Annio parlò di tempi fantastici e di cui in pochi parlarono. Oggi non abbiamo molte testimonianze di quei tempi remoti e magari, anche solo per sbaglio, qualcosa potrebbe essere buona. Non è detto che un falsario falsifichi tutto, anzi, probabilmente per fare un buon lavoro deve usare materiale buono come base.
Ecco, mi sembra che le motivazioni siano più che buone per proseguire nella mia ricerca.
Ora, questa mattina ho proseguito nella lettura del Masdeu sulla storia della Spagna e mi sono imbattuto in un sunto della cronologia della Spagna di Annio da Viterbo, alla quale il Masdeu, seppur non presta fede, fa riferimento. Mi è sembrato utile condividerla con tutti voi che leggete per eventuali considerazioni, così cercherò di riportarla come il Masdeu ce la ha tramandata.

Marmo Osiriano: falso attribuito ad Annio da Viterbo

"Le origini spagniuole non solamente sono state oscurate, e corrotte dagli antichi Millantatori della Grecia, d'e quali finora si è parlato, ma da varj moderni ancora d'ogni nazione dietro la scorta del Viterbese Giovan Nanni, detto volgarmente Annio. Egli pubblico l'anno mille quattrocento novantotto alcune opere fin'allora non conosciute di vari antichi scrittori, e nominatamente le Storie del celebre Beroso di Caldea, sulle quali fondò il libro latino Degli antichi tempi e de' primi 24 re della Spagna, libro dedicato da lui, per renderlo più autorevole a' Cattolici re di Spagna Ferdinando e Isabella.
Questo rinomato religiosi di Viterbo distese con tal puntualità ed esattezza cronologica l'antica storia de Monarchi Spagnuoli che se vissuto egli fosse a quei tempi non l'avrebbe più esattamente descritta.
Egli comincia il suo catalogo da Tubal primo sovrano, e Legislatore, che ebbe la sua corte pastorale in Tarragona dall'anno 143, dopo il Diluvio, e lo continua senza nessun interrompimento per dieci secoli, fino ad Abide nipote di Gargori il Mellicola, sotto cui gli Spagnuoli cominciarono a contar felicemente il secondo millennio. Di questi mille anni regnarono successivamente ventiquattro monarchi, di tutti i quali egli dice appuntino il primo, ed ultimo anno del loro regno. Eccone in compendio un piccolo Indice."

Dunque, come ho già accennato, il Masdeu non sembra avere una grande opinione di Annio viterbese, eppure ne parla, ne cita l'opera (presunta falsa) e fa addirittura un indice dei re che a parere di Annio regnarono. Ci sarebbe da chiedersi il perchè. Cosa ha spinto un autore rispettato a parlare di Annio? SOlo il fatto di voler mettere tutti sull'avviso dalle falsità da lui raccontate? O forse perchè di quei tempi, altro non esisteva? O forse ancora, che qualcosa di vero potrebbe comunque essserci e dunque meritare di essere citata?
Quale che sia il motivo, forse non lo scopriremo mai, sta di fatto che per fortuna la lista dei nomi dei re esiste nel libro di Masteu e io ho l'opportunità di riportarla.

"Tubal fondator di Tarragona in Catalogna, dov'ebbe la sua corte.
Ibero che diede il nome al fiume Ebro, agli Iberi e all'Iberia.
Iubalda da cui viene (certo con qualche piccola variazione) il nome di Gibraltar o Gibilterra.
Brigo, Padre e istitutore non solo delle molte città Spagnuole, che han nome terminante in Briga, ma della Frigia ancora nell'Asia, e di Bracciano in Italia.
Tago, da cui il fiume Tago di Spagna non poteva meno di non prendere il nome, come il prese l'Ebro dal signor Ibero.
Beto, che per necessità dovea anch'egli comunicar i lsuo nome al fiume Betis, e a tutta la Betica, oggi chiamata Andaluzzia.
Gerione l'Affricano, che sul finire del quarto secolo fu il primo tiranno della nazione Spagnuola.
Gerione il Trigemino ucciso dal valorosissimo Ercole Libio figlio di Osiride.
Ispalo, che fece grazia del suo nome alla città di Siviglia chiamata anticamente Hispalis.
Ispano del cui nome la Spagna e gli Spagnuoli furono generosamente onorati.
Ercole il Libio, seppellito con pompa straordinaria nel famoso tempio di Cadice.
Espero, venuto al mondo a bella posta per dare alla Spagna il novello nome di Hesperia.
Atlante, che dispensò indubitabilmente il suo nome all'Oceano Atlantico.
Sicoro, onde ebbe origine il nome del fiume Sicori o Segre, in Catalogna.
Sicano, che venne in Italia a esser padre dei Sicani.
Siceleo, da cui ognun vede chiaramente che discendano per linea dritta i Siciliani.
Luso, non il Greco, ma lo Spagnuolo, Monarca fatto a proposito per ornar del suo nome la Lusitania, oggi Portogallo.
Siculo, secondo dominatore, se non terzo, dei signori Siciliani.
Testa, padre legittimo dei Contestani, popoli de' Regni di Valenza e di Murzia.
Romo, fondatore della città di Roma, in Ispagna, detta dai latini Valenza.
Palatuo, padre della città di Palenza e de' Palatui, popoli Valenzani.
Caco il Celtibero, il cui nome si conserva ad eterna memoria sul monte chiamato Moncajo dov'egli si fece forta contra Palatuo.
Palatuo per la seconda volta, il quale obbligò Caco a fuggir in Italia.
Eritro che si prese l'incomodi di venir fin dal mar Eritreo per regnare in Cadice.
Gargori detto il Mellicola, quel dolcissimo Re, che insegnò agli Spagnuoli a raccogliere il mele, e ch'ebbe per successore quell'Abide suo nipote di cui parla Giustino."

Il Masdeu continua la storia dopo aver analizzato quanti si sono espressi contro Annio di Viterbo e le sue opere, e furono in tanti.
Per parte mia, non prendo posizione per ora ma mi riprometto di approfondire.

Buona giornata a tutti.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 28 marzo 2016

Ercole in Spagna

Tempo addietro ho scritto di Sanchuniathon secondo Filone di Biblo
Ora, frugando su Google books alla ricerca di notizie su tale Dracone di Corfù, autore di una storia sull'Italia antica, mi sono imbattuto in un testo del 1787  di Gian Francesco Masdeu, di Barcellona, edito a Firenze. Si tratta della "Storia critica di Spagna.
Non ho saputo resistere e, dopo aver appurato che le informazioni su Dracone di Corfù erano veramente minime, ho cercato il primo volume in cui si parla della Spagna antica, ed ho cominciato a leggere.
Mi sono quindi imbattuto nella leggenda dei Titani, che non è però l'oggetto di questo mio articolo, e poi di una parte in cui l'autore riferisce dei vari personaggi chiamati Ercole che si dice siano stati in Spagna, ed ecco che cosa dice l'autore. Un inciso, l'autore afferma che Oceano Atlantico significava Oceano Innavigabile, come se Atlantico significasse "non navigabile". E' la prima volta che trovo un simile riferimento. In effetti in greco Thalassa significa mare e se si suppone che Atlantico sia A-Tlantico, allora la "A" potrebbe essere privativa. E' qualcosa su cui riflettere. Dirò infine che l'autore è molto scettico sull'esistenza di questi Ercoli e del fatto che siano effettivamente arrivati in Spagna.
Ma torniamo al testo.
Il Masdeu dice che: "Quattro principalmente sono gli Ercoli, i quali si pretende che abbiano posto piede in Spagna", questi sono Ercole l'Egiziano, Ercole il Fenicio, Ercole il Cretese ed Ercole il Tebano.
Il primo di questi, l'Ercole Egiziano, suppongono i Greci, che fosse Capitan Generale di Osiride Re d'Egitto, e che insieme venisse con lui a conquistare la Spagna.
Un altro inciso: l'autore riferisce che Diodoro Siculo pensa che Osiride in quanto Dio dovrebbe essere uno dei nomi del dio Sole e che il significato sia "multi-occhiuto", ovvero che vede tutto. Ciò mi ha fatto pensare ad alcune rappresentazioni di angeli con gli occhi su tutto il corpo, cosa che ho visto per esempio in una chiesa sul lago d'Orte. Sempre Diodoro asserisce che Osiride è anche un Dio Uomo, ovvero un condottiero deificato per le grandi imprese compiute in terra. Il Masdeu asserisce che il regno di questo Osiride dovrebbe risalire a quattordici anni dopo il Diluvio Universale e sulla base del fatto che ritiene inverosimile che in quei tempi antichi si potesse navigare fino alla Spagna e che non crede possibile esistessero regni potenti capaci di simili imprese, giudica che Ercole l'Ercole Egizio non sia mai potuto arrivare in Spagna.
Parlando quindi dell'Ercole Fenicio, il Masdeu dice che il fatto in se ha maggior verisimilitudine in quanto Ercole arrivò in Spagna, dato che le Colonne ne conservano il nome. Però per l'autore un tale Ercole non era conquistatore bensì mercante. Oppure, se veramente era un grande uomo, un eroe, come si potrebbe arguire dall'interpretazione del significato in lingua araba e fenicia, tale Ercole venerato a Cadice non è altro che lo stesso Ercole Egizio di cui ha già parlato.
In merito all'Ercole Cretese, il Masdeu lo fa risalire all'Ercole Fenicio, infatti a suo parere l'Ercole Cretese era uno dei Sacerdoti (o Sapienti) del monte Ida della Frigia. Tali sapienti erano dieci e venivano chiamati con molti nomi: Idei, Coribanti, Cureti, Cabiri, Satiri, Titiri, Gerfici, Dattili e Ditti. Masdeu afferma che i Cureti erano sapienti Fenici per cui ancora una volta l'Ercole Cretese non è altro che l'Ercole Fenicio. Sul fatto che esso conquistasse la Spagna afferma che non la conquistò con le armi ma che vi portò le sue conoscenze.
Dell'Ercole Tebano ci parla maggiormente. Intanto si dice che vivesse in Tebe sotto il Re Euristeo di Micene, che partecipò all'impresa degli Argonauti in colchide, che vinse in battaglia le Amazzoni guidate dalla loro regina Ippolita, che sconfisse Laomedonte, che consegnò il regno di Troia a Priamo. Si dice che tale Ercole viaggiò anche in Italia e Spagna per poi tornare in Grecia dove, gravemente ammalato, si uccise gettandosi nel fuoco. Tali avvenimenti avvenivano cinquantacinque anni prima della distruzione di Troia. Si dice che in Spagna sconfisse Gerione, Re, e gli rubò le vacche ed eresse le celebri Colonne che da lui presero il nome. 
Secondo il Masdeu vi furono quaranta e più Ercoli di cui si parla nelle storie, però a suo parere si tratta sempre dello stesso, ovvero di quello più antico, l'Egizio o Fenicio, il quale fu, probabilmente, un grande conquistatore.
Ora, che Ercole fosse Egizio, Fenicio, Tiro o Cretese poco importa, sicuro è che ogni volta che mi accingo a leggere qualche testo antico vi scopro sempre notizie interessanti, forse non sempre attendibili, ma sicuramente interessanti.
Chiudo dicendo che il Masdeu cita Monsignor Mario Guarnacci e il Dottor Giampaolo Limperani come autori di Storie d'Italia poco credibili, testi in cui gli autori raccontano come molti degli Dei e degli Eroi dell'Antichità fossero Italiani. Forse non è vero ma sicuramente è interessante e prima o poi dovrò dedicarmi anche alla lettura di questi autori.

Alla prossima.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 27 marzo 2016

Pitchfork

Chi sono io?

Quando mi guardo allo specchio vedo solo l'immagine sbiadita di me stessa, come l'ombra di una donna in una notte di luna piena o un fantasma in un maniero medievale.
Eppure, mi dico, sono sempre io, o ciò che resta di me.

Cosa ho fatto?

Ripenso agli anni passati e ancora non capisco, non riesco a comprendere in cosa ho sbagliato. Ombre nere ricoprono il mio viso e lo nascondono alla vista del mondo.

Sarebbe potuto essere tutto diverso, ma evidentemente questo è il mio destino. Portare nel mio cuore un simile peso fino alla morte.

Ricordo ogni istante le immagini dei corpi straziati, il sangue rosso scuro colare lungo i corpi, l'odore forte del sangue rappreso mi torna prepotentemente alla mente. Non riesco a non pensarci. E' quasi una tortura. Non passa istante che io non ricordi quei volti, contorti dalla sofferenza, urlanti di dolore. 
Poi un velo nero si posa sui miei occhi e non vedo più niente, forse svengo anche io, forse il mio cervello si rifiuta di continuare a vedere, a sentire...

Ogni volta mi risveglio in un posto differente. 
La prima volta mi svegliai nella cantina della nonna. L'odore nauseabondo mi colpì come uno schiaffo sul viso. Avevo le mani appiccicose, quasi nere. Ai miei piedi una pozza di sangue rappreso. Mio nonno mi prese in braccio senza dire una sola parola e mi portò in cucina. La nonna aveva preparato una tinozza di acqua calda e, dopo avermi spogliato e gettati via i vestiti, mi ci immerse completamente. 
L'acqua era calda e l'odore del sapone mi destò del tutto.

"Pichfork, pichfork"
urlavano gli altri bambini, girandomi attorno.
"Pichfork, pichfork"
mi schernivano ogni giorno. Poi decisi di non andare più a scuola. Non mi volevano e io non volevo loro. 
I nonni non l'avevano presa bene. Quelle poche ore in cui io stavo a scuola a loro servivano per ritemprarsi. Avevano una certa età e dovevano prendersi cura di me. Certo, mi volevano bene, ma comunque erano anziani, molto anziani, e di li a poco se ne andarono anche loro, come avevano fatto il papà e la mamma...

Avevo dodici anni, credo, e la vita divenne dura. Non era facile vivere da soli ma ci feci presto l'abitudine.

A tredici anni tornai a scuola.
Avevo sempre studiato per conto mio per cui la cosa non mi pesò per niente. Volevo riprovare, volevo vedere se gli altri avevano dimenticato. Speravo che il mio destino potesse cambiare, ma mi sbagliavo.
Passò solo qualche giorno, prima che qualcuno si ricordasse del mio soprannome. "Pichfork, pichfork", li sentivo dire tra loro sorridendo, mentre gli passavo vicino, quando entravo in classe, quando mi chiamava la maestra. Sempre la stessa storia.

Dovevano farla finita!

Un giorno persi la pazienza e cominciai a urlare. Poi mi misi le mani sulle orecchie e scappai fuori dalla classe. Non tornai mai più.

La casa dei nonni era poco fuori dal paese e io continuavo a viverci da sola.
Ero in grado di cucinare, accudivo il bestiame, raccoglievo le uova. L'orto mi dava ciò che serviva per vivere e il prete del paese mi mandava spesso la sua perpetua per aiutarmi.
Ero isolata dal paese ma allo stesso tempo ne ero parte integrante.

Domani compirò diciotto anni.
Mi preparo per l'evento con perizia maniacale.
Tutto deve essere perfetto. Non ho più parenti, non ho amici. Il parroco ha smesso da qualche anno di mandarmi la sua perpetua. Quella donna è sparita da tempo e nessuno sa che fine abbia fatto. Ma io ormai sono grande e non ho più alcun bisogno di essere aiutata. Ora so chi sono e cosa devo fare.
Domani è la mia festa. Meglio andare a dormire presto, domani sarà una lunga giornata.

Mi alzo presto la mattina, mi vesto con il vestito migliore che possiedo. Sui capelli metto una rosa rossa, nata nell'orto. Una spina mi graffia la fronte ed una goccia di sangue cola sul viso, lungo la guancia, fino al collo.
Prendo il forcone dal granaio e lo stringo tra le mani.

Il paese è a pochi minuti dalla casa. 
E' ancora presto e non incontro nessuno per strada. 
Mi fermo alla prima casa e busso alla porta. 
"Chi è a quest'ora del mattino?"
Urla una voce per niente gentile dall'interno. Riconosco la voce, è la maestra. Non mi ha mai difeso quando gli altri mi chiamavano Pichfork. 
Si apre la porta e me la ritrovo davanti. E' un po ingrassata ma non fatico a riconoscerla...
"Pichfork, sei tu? Cosa..."

Non le lascio il tempo di finire la frase, le infilo il forcone nelle budella, dal basso verso l'alto, e spingo con tutte le forze... fiotti di sangue mi colano sulle mani. Lei non parla più. 
Uno sguardo stupito si trasforma in smorfia di dolore. Solo pochi secondi di agonia e poi si accascia a terra. Devo aver raggiunto il cuore, penso... devo fare più attenzione la prossima volta.

Pochi passi mi separano dalla seconda casa. E' la casa del prete. 
Non busso, passo dal retro, come ho fatto tante volte. So dove si trova la chiave. La prendo ed entro, in punta di piedi. Il sangue comincia a rapprendersi sulle mani e sul vestito ma non ci faccio caso.
Entro nella sua stanza. E' ancora a letto. Mi avvicino in silenzio e lo bacio sulle labbra. Lui si sveglia e mi guarda compiaciuto, chissà cosa pensava... sollevo il forcone e glielo infilo nel collo. Non una sillaba... un fiotto di sangue nero gli esce dalla bocca e mi sporca il vestito nuovo.
Lo lascio li, agonizzante, con le mani al collo e una smorfia di orrore sul viso... non merita neppure un ultimo sguardo.

La giornata è ancora lunga e ho tanto da fare, non posso certo perdere troppo tempo se voglio fare pulizia...

Da allora molti anni sono passati eppure non ho mai dimenticato. Dopo quel diciottesimo compleanno sono sempre stata rinchiusa.
All'ospedale mi hanno riempito di medicine. I primi anni mi tenevano legata al letto. Poi, col tempo, hanno capito che non ero più pericolosa degli altri e mi facevano uscire a prendere aria nel giardino.
Ora i tempi sono cambiati e mi dicono che sono guarita e posso andare via. Posso tornare a casa. Come se ce l'avessi una casa. 

Domani è il grande giorno. Sarò libera.
Esco per l'ultima volta in giardino a vedere le rose. Ne taglio una, rossa come il sangue. Senza badarci me la infilo tra i capelli. Una spina mi graffia leggermente ed una goccia di sangue cola lungo la guancia.
Mi giro per rientrare e, poggiato al muro, vedo un forcone, forse dimenticato dal giardiniere...

"Dottore, è sicuro che io sia guarita?"
Le parole mi escono dalla bocca con sicurezza. Il dottore si gira e mi guarda con un sorriso... 
Il forcone penetra sotto il mento e fiotti di sangue ricoprono ancora una volta le mie mani...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


Pasqua

Ricordo con piacere i preparativi pasquali di quando, bambino, appena mi affacciavo alla vita.
Era tutta una festa! Il paese di Seui eera come scosso dai preparativi.
La settimana prima di pasqua tutti noi partecipavamo con gioia alla messa cercando di accaparrarci la palma più bella e intrecciata. Poi spesso, con in mano solo poche foglie intrecciate alla meno peggio e un rametto d'olivo, tornavamo a casa di corsa.
I dolci, le uova (vere) dipinte, il pane coccoi con l'uovo al centro, l'uovo di cioccolato, uno per tutta la famiglia, da rompere rigorosamente il giorno di pasqua...
Tante cose sono cambiate oggigiorno, se in bene o in male non saprei dirlo. Sicuramente la famiglia era più unita e trovarsi a tavola con i parente era qualcosa  di piacevole, ormai sempre più raro.
E allora, per concludere, un augurio a tutti: che possiamo ritrovare i valori di un tempo con il benessere di oggi. 
Buona pasqua 2016 a tutti!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Visita a Sulmona

Ancora una splendida giornata di marzo, in quest'anno senza inverno, ci spinge a ridosso del parco nazionale della Majella, fino a Sulmona, piccola cittadina abruzzese in provincia dell'Aquila. 
Due cose colpiscono immediatamente: il profumo dello zucchero e delle mandorle dei suoi confetti, che aleggia per ogni dove,


e il ricordo del suo più noto concittadino, Publio Ovidio Nasone.

 

E' giorno di mercato, la piazza è gremita di persone che comprano frutta e verdura, dolci, pane, bocconotti e fiadoni... questi ultimi assaggiati anche da noi!


La cittadina è animata di turisti, diverse lingue si mescolano ai profumi per dare un non so che di esotico.
Lungo le strade tantissimi negozi di confetti, ce n'è per tutti i gusti. Confezionati, singoli, in buste di varia dimensione o in forme di fiore, ape, coccinella... senza dimenticare le esigenze dei numerosi tifosi di calcio.

Lo stemma della città riporta una sigla: SMPE, il cui significato deriva dalle iniziali di una frase di Ovidio: "Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
milia qui novies distat ab Urbe decem", ovvero: "Sulmona è la mia patria, ricca di gelide acque, dista da Roma novanta miglia". 


La città, secondo Ovidio e Silio Italico, è di origine troiana. Il nome deriva da quello del suo fondatore Sòlimo, compagno di Enea, fondatore di Roma. La città fu chiamata Solimon, poi col tempo divenuta Sulmo, oggi Sulmona.


Le chiese, numerose e stupende, ricordano a tutti il suo passato. Al papa, seppure per poco, Celestino V, ha dato i natali la città. Il Duomo ce lo ricorda.




Il sole ci accompagna piacevolmente risplendendo sulle nevi delle vette circostanti, per le strade della città. 

L'olfatto ci guida invece nella scelta del ristorante. Un tagliere di affettati e formaggi misti con bruschette calde all'olio extra vergine d'oliva ci intrattiene. Trofie e ceppi dai sapori tipici abruzzesi, quindi arrosticini di pecora, annaffiati da vino rosso locale chiudono il pranzo, Ottimo!E' ora di rientrare a Roma. Ci mettiamo in viaggio consapevoli che ciò che abbiamo visto, ed assaggiato, non sia che un centesimo di ciò che c'è, sperando di avere nuove occasioni per tornare, voltiamo le spalle alla città e partiamo...


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO