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mercoledì 25 luglio 2018

Orrore è per sempre - La prima volta (seconda puntata)

Quella sera, in camera sua, aveva già dimenticato tutto... quasi!

Come per tutti i ragazzi, le brutte esperienze durano il tempo di una notte e nuove emozioni si sovrappongono velocemente alle vecchie, che vanno dimenticate.

Quella volta però un foglietto sul comodino, bloccato dalla abat-jour a forma di Topolino (prima o poi l'avrebbe cambiata, oramai era cresciuta per queste cose!), lasciato da sua madre dopo averla messa a letto qualche ora prima  con un tranquillante che era stato oggetto di discussione accesa tra lei e il Dottor Mancini, le ricordava che sarebbe dovuta recarsi in biblioteca con un libro nuovo per chiedere scusa alla signora Giovanna.
Il libro sarebbe stato acquistato la mattina dopo, in centro, per cui aveva tutto il tempo per pensare alle parole da utilizzare.
Parole...
Cosa avrebbe potuto dire?
Non poteva certo raccontare la verità (anche se neppure lei era in grado di distinguere verità da incubo). Non poteva certo descrive il gusto orrendo del sangue che aveva impregnato la sua bocca poco prima del rigurgito di quel che restava dell'hamburger (che, tra l'altro, le era sembrato meno orribile del sangue!).
Non poteva certo descriverle la scena che le si era parata davanti, con tanto d'ascia conficcata profondamente nelle carni di quel malcapitato, ascia bloccata dall'osso della scapola.
No, non poteva. E allora cosa avrebbe fatto? 
Poteva optare per un malessere generale. Aveva sentito tante volte la mamma dire al papà che "era indisposta", che aveva un mal di testa terribile" o che "aveva le sue cose". Ricordava che di tutte queste terribili malattie, secondo il padre la peggiore era l'ultima, almeno vista la reazione di sconforto dell'uomo. Ma lei non sapeva bene cosa fossero le sue cose, anche se si avvicinava il tempo in cui avrebbe avuto modo di impararlo.
Avrebbe potuto dire che aveva la febbre, ma non sapeva se come scusa sarebbe andata bene. 
Per un attimo pensò che, forse, avrebbe potuto dire la verità. Non a tutti chiaramente, ma a lei si, alla bibliotecaria forse si. Pensò, solo per un attimo, che forse lei avrebbe capito, d'altronde avevano molte cose in comune e un amore profondo per la lettura, o almeno così Cristy aveva sempre pensato. 
Anche perché altrimenti che cosa ci faceva dietro quel bancone praticamente tutti i giorni e a qualunque ora?
Per un attimo pensò che avrebbe potuto raccontarle della sua "prima volta".
Allora si che era piccola, era una bimba sorridente e paffutella a cui piaceva da morire l'altalena anche se per sedervisi doveva arrampicarcisi sopra con uno sforzo tremendo.
L'altalena stava nel parco di fronte alla biblioteca ed era sempre piena di bambini schiamazzanti che se la contendevano animosamente.
I più grandi non si sedevano ma stavano in piedi sul tavolato che fungeva da sedile.
Riuscivano a volare, letteralmente.
Un giorno uno di loro, era un bambino dai capelli rossi ricci e una faccia nascosta dietro le lentiggini, aveva appena iniziato a darsi la spinta in avanti quando un cane gli si precipitò addosso da dietro facendolo cadere in avanti. 
Pensò che si sarebbe come minimo sbucciato le ginocchia (ed in effetti il ragazzo che si chiamava Bruno finì con le ginocchia a terra per rialzarsi subito e partire di corsa verso gli amici che giocavano a pallone poco distanti) ma per lei non andò così.
Si rese conto senza capirlo a fondo che stava accadendo qualcosa quando Bruno invece che cadere a terra restò sospeso nell'aria in una posa innaturale, con le mani protese in avanti e la gamba sinistra pronta a darsi la spinta. Vi era qualcosa di irreale in quella caduta, il tempo sembrava non passasse più. Poi sentì un dolore lacerante alla schiena e sentì chiaramente le fauci di un enorme cane dal muso aguzzo (poi capì che doveva trattarsi di un alano) che le penetravano il fianco destro per non fermarsi se non quando i canini superiori toccarono quelli inferiori con uno stridio agghiacciante.
In questo tempo infinito per lei che non durò più di un battito di farfalla, svenne.
Quando si risvegliò, quasi un minuto dopo, fece in tempo a sentire le urla disperate della madre che le alitava in faccia il pranzo a base di burro all'aglio.
Vomitò e svenne di nuovo!
Vomitò in faccia alla madre che ora si che urlava, impiastricciata da quel liquido giallognolo e appiccicoso che avrebbe potuto testimoniare la mancanza di educazione alimentare nella famiglia e che, nel giro di un decennio avrebbe causato la morte del padre per un infarto dovuto ad accumulo di grassi nelle arterie.
Quando rinvenne era in un letto d'ospedale e intorno a lei tre medici cercavano di capire cosa potesse essere accaduto, senza riuscire neanche a far zittire la madre.
- Mamma...
Disse Cristina con un filo di voce...
- Sto bene...
E questa volta fu la madre a svenire!

Alessandro RUGOLO

martedì 24 luglio 2018

Orrore é per sempre... (prima puntata)

...era come se il terrore che tutte quelle persone avevano provato avesse lasciato una traccia che solo lei poteva percepire...

E lei lo percepiva. Intenso, terribile, reale, come se qualunque cosa fosse avvenuta non fosse mai passata!

Ci aveva fatto l'abitudine ormai, anche se qualche volta le capitava di avere i conati di vomito. Non sempre però, solo quando la morte aveva colpito duro, solo quando la persona morente aveva sperimentato il sapore dolciastro e ferroso del proprio sangue o il dubbio gusto acido e amarognolo del vomito! Allora stava male e non era raro che vomitasse anche lei. 
Quando succedeva, la sensazione la colpiva istantaneamente, come se il suo cervello reagisse in automatico agli stimoli, prima ancora che la raggiungesse la consapevolezza di un altro morto ammazzato e potesse visualizzarne le immagini.
Ma ora capitava sempre meno spesso, per fortuna.

Non avrebbe mai dimenticato quella volta che stava al banco della biblioteca. 
La signora Giovanna era una donnona grande e grossa, sempre sorridente e con un amore per i libri che non aveva confini, forse inferiore solo all'amore per il suo cagnolino, un chihuahua dal pelo cortissimo e con due occhioni giganteschi che sembravano sporgere fuori dalla testa per osservare meglio il mondo. 
Eppure quel giorno non l'aveva neppure vista dietro il bancone a riordinare libri e registrare ingressi e uscite con la solita meticolosità. 
Non si era accorta della sua presenza quando le aveva vomitato addosso il panino della sera prima, un hamburger troppo cotto insaporito con ketchup e cetriolini sottaceto.
Non aveva sentito le sue urla di disgusto quando il vomito (degno dell'esorcista del noto film) era straripato dalla sua bocca come un getto della manichetta dei pompieri, investendola in pieno e lasciandole tracce indelebili sul vestito a fiori che indossava quella mattina. Per non parlare di quelle, più impalpabili, che sarebbero restate nella sua ferrea memoria da bibliotecaria.
No, non l'aveva vista, come non l'aveva sentita urlare per lo spavento, eppure la signora Giovanna aveva un petto da tenore e quella mattina al sentirla, si erano precipitati a vedere cosa accadeva anche i colleghi del piano di sopra.

Lei aveva visto e sentito tutt'altro.
Era stata tante volte in biblioteca. 
Amava i libri, soprattutto i gialli di Agata Christie, Hercule Poirot era il suo detective preferito. Di lei aveva letto tutti i libri che si trovavano in biblioteca e pensava di essere ormai un'esperta quando, doveva avere tredici o quattordici anni, si rese conto che la biblioteca non possedeva tutti i libri della sua scrittrice preferita (cosa disdicevole di per se) e come diretta conseguenza lei non aveva letto tutti i libri della sua autrice preferita (orrore!) e non poteva più vantarsene con le amiche!
Poi aveva scoperto i servizi aggiuntivi della biblioteca. Era stata proprio la signora Giovanna a spiegarle che se voleva leggere un libro che non era presente in biblioteca avrebbe semplicemente dovuto compilare una riga del registro richieste e poi, con un po' di fortuna, il libro sarebbe stato acquistato e lei avrebbe potuto leggerlo.
Quella mattina vi era nell'aria qualcosa di diverso. Se ne era resa conto da quando aveva messo piede nel giardino.
Normalmente vi erano dei pappagallini verdi, scappati da chissà quale gabbia, che garrivano rumorosamente al suo passare, ma non quella mattina. Nell'erba passeggiava lentamente un vecchio corvo nero, con le piume rovinate dal tempo e gli artigli adunchi racchiusi intorno ad un ramo d'olivo caduto dall'albero durante la notte.
Ebbe la sensazione che il corvo la guardasse torvo, quasi con odio, se un corvo può odiare. La fece quasi star male ma tirò dritta per la sua strada. La signora Giovanna le aveva appena telefonato per avvisarla che era arrivato un nuovo libro di Agata Christie.
La biblioteca non era distante da casa. Non più di un chilometro e mezzo. Il tempo era bello e nel giro di venti minuti avrebbe stretto tra le mani "Poirot a Styles Court". L'avrebbe rigirato tra le sue mani, annusato, ne avrebbe osservato con attenzione la dimensione dei caratteri e magari qualche imprecisione nella stampa o un graffio sulla copertina, per poi tuffarsi immediatamente nella lettura, già durante il percorso di ritorno verso casa, rischiando di farsi investire più di una volta dalle biciclette che sfrecciavano sulla pista ciclabile, troppo presa dalla lettura per sentire il rumore aggraziato dei campanelli.
La biblioteca era stata aperta quando lei ancora non era nata, le raccontò un giorno sua madre quando si rese conto del suo amore per la lettura. Si trattava di un edificio restaurato alla fine degli anni '70.
Suonò al campanello e attese che le aprisse qualcuno. arrivò di corsa Andrea, uno dei pochi ragazzi che frequentavano la biblioteca, anche lui, aveva scoperto ultimamente, appassionato di Agata Christie.
Un dubbio tremendo le attanagliò lo stomaco. E se avesse già preso il SUO libro?
Forse Andrea glielo lesse in faccia, fatto sta che le aprì la porta e si spostò per farla passare.
- Ciao Cristy, il tuo libro è arrivato. La signora Giovanna ti aspetta al banco. Io lo leggerò dopo di te. Mi sembra giusto dato che non sapevo neanche che esistesse! La signora Giovanna mi ha detto che sei stata tu a chiederne l'acquisto... 
E mentre lei passava quasi di corsa, Andrea continuò a parlare da solo e a guardarla con occhi da innamorato.
Ma lei era troppo impegnata per queste cose allora, era troppo piccola, troppo innamorata dei libri per rendersi conto che Andrea l'amava...
Arrivò al banco di corsa e fu colpita da una zaffata putrida e umida. Di fronte a lei non c'era la bibliotecaria ad attenderla col suo libro ma un uomo alto e magro, grondante di sangue rappreso che scendeva copioso lungo la sua giacca marrone per arrivare fino a terra.
Qualcuno lo aveva colpito da dietro con un'ascia che aveva ancora conficcata a metà del collo. Schizzi di sangue sgorgavano dalla ferita mortale e sangue gli usciva dalla bocca. Sangue rosso scuro e dal sapore dolciastro e ferroso... non aveva fatto in tempo a pensare. Aveva solo vomitato in faccia alla signora Giovanna che in quel momento, riconosciutala, le tendeva il suo libro...
Poi era svenuta, finendo nella pozza del suo stesso vomito.
Quel giorno era stato terribile ma mai come due giorni dopo, quando si ripresentò in biblioteca per scusarsi con la signora Giovanna!

Alessandro Rugolo

domenica 27 marzo 2016

Pitchfork

Chi sono io?

Quando mi guardo allo specchio vedo solo l'immagine sbiadita di me stessa, come l'ombra di una donna in una notte di luna piena o un fantasma in un maniero medievale.
Eppure, mi dico, sono sempre io, o ciò che resta di me.

Cosa ho fatto?

Ripenso agli anni passati e ancora non capisco, non riesco a comprendere in cosa ho sbagliato. Ombre nere ricoprono il mio viso e lo nascondono alla vista del mondo.

Sarebbe potuto essere tutto diverso, ma evidentemente questo è il mio destino. Portare nel mio cuore un simile peso fino alla morte.

Ricordo ogni istante le immagini dei corpi straziati, il sangue rosso scuro colare lungo i corpi, l'odore forte del sangue rappreso mi torna prepotentemente alla mente. Non riesco a non pensarci. E' quasi una tortura. Non passa istante che io non ricordi quei volti, contorti dalla sofferenza, urlanti di dolore. 
Poi un velo nero si posa sui miei occhi e non vedo più niente, forse svengo anche io, forse il mio cervello si rifiuta di continuare a vedere, a sentire...

Ogni volta mi risveglio in un posto differente. 
La prima volta mi svegliai nella cantina della nonna. L'odore nauseabondo mi colpì come uno schiaffo sul viso. Avevo le mani appiccicose, quasi nere. Ai miei piedi una pozza di sangue rappreso. Mio nonno mi prese in braccio senza dire una sola parola e mi portò in cucina. La nonna aveva preparato una tinozza di acqua calda e, dopo avermi spogliato e gettati via i vestiti, mi ci immerse completamente. 
L'acqua era calda e l'odore del sapone mi destò del tutto.

"Pichfork, pichfork"
urlavano gli altri bambini, girandomi attorno.
"Pichfork, pichfork"
mi schernivano ogni giorno. Poi decisi di non andare più a scuola. Non mi volevano e io non volevo loro. 
I nonni non l'avevano presa bene. Quelle poche ore in cui io stavo a scuola a loro servivano per ritemprarsi. Avevano una certa età e dovevano prendersi cura di me. Certo, mi volevano bene, ma comunque erano anziani, molto anziani, e di li a poco se ne andarono anche loro, come avevano fatto il papà e la mamma...

Avevo dodici anni, credo, e la vita divenne dura. Non era facile vivere da soli ma ci feci presto l'abitudine.

A tredici anni tornai a scuola.
Avevo sempre studiato per conto mio per cui la cosa non mi pesò per niente. Volevo riprovare, volevo vedere se gli altri avevano dimenticato. Speravo che il mio destino potesse cambiare, ma mi sbagliavo.
Passò solo qualche giorno, prima che qualcuno si ricordasse del mio soprannome. "Pichfork, pichfork", li sentivo dire tra loro sorridendo, mentre gli passavo vicino, quando entravo in classe, quando mi chiamava la maestra. Sempre la stessa storia.

Dovevano farla finita!

Un giorno persi la pazienza e cominciai a urlare. Poi mi misi le mani sulle orecchie e scappai fuori dalla classe. Non tornai mai più.

La casa dei nonni era poco fuori dal paese e io continuavo a viverci da sola.
Ero in grado di cucinare, accudivo il bestiame, raccoglievo le uova. L'orto mi dava ciò che serviva per vivere e il prete del paese mi mandava spesso la sua perpetua per aiutarmi.
Ero isolata dal paese ma allo stesso tempo ne ero parte integrante.

Domani compirò diciotto anni.
Mi preparo per l'evento con perizia maniacale.
Tutto deve essere perfetto. Non ho più parenti, non ho amici. Il parroco ha smesso da qualche anno di mandarmi la sua perpetua. Quella donna è sparita da tempo e nessuno sa che fine abbia fatto. Ma io ormai sono grande e non ho più alcun bisogno di essere aiutata. Ora so chi sono e cosa devo fare.
Domani è la mia festa. Meglio andare a dormire presto, domani sarà una lunga giornata.

Mi alzo presto la mattina, mi vesto con il vestito migliore che possiedo. Sui capelli metto una rosa rossa, nata nell'orto. Una spina mi graffia la fronte ed una goccia di sangue cola sul viso, lungo la guancia, fino al collo.
Prendo il forcone dal granaio e lo stringo tra le mani.

Il paese è a pochi minuti dalla casa. 
E' ancora presto e non incontro nessuno per strada. 
Mi fermo alla prima casa e busso alla porta. 
"Chi è a quest'ora del mattino?"
Urla una voce per niente gentile dall'interno. Riconosco la voce, è la maestra. Non mi ha mai difeso quando gli altri mi chiamavano Pichfork. 
Si apre la porta e me la ritrovo davanti. E' un po ingrassata ma non fatico a riconoscerla...
"Pichfork, sei tu? Cosa..."

Non le lascio il tempo di finire la frase, le infilo il forcone nelle budella, dal basso verso l'alto, e spingo con tutte le forze... fiotti di sangue mi colano sulle mani. Lei non parla più. 
Uno sguardo stupito si trasforma in smorfia di dolore. Solo pochi secondi di agonia e poi si accascia a terra. Devo aver raggiunto il cuore, penso... devo fare più attenzione la prossima volta.

Pochi passi mi separano dalla seconda casa. E' la casa del prete. 
Non busso, passo dal retro, come ho fatto tante volte. So dove si trova la chiave. La prendo ed entro, in punta di piedi. Il sangue comincia a rapprendersi sulle mani e sul vestito ma non ci faccio caso.
Entro nella sua stanza. E' ancora a letto. Mi avvicino in silenzio e lo bacio sulle labbra. Lui si sveglia e mi guarda compiaciuto, chissà cosa pensava... sollevo il forcone e glielo infilo nel collo. Non una sillaba... un fiotto di sangue nero gli esce dalla bocca e mi sporca il vestito nuovo.
Lo lascio li, agonizzante, con le mani al collo e una smorfia di orrore sul viso... non merita neppure un ultimo sguardo.

La giornata è ancora lunga e ho tanto da fare, non posso certo perdere troppo tempo se voglio fare pulizia...

Da allora molti anni sono passati eppure non ho mai dimenticato. Dopo quel diciottesimo compleanno sono sempre stata rinchiusa.
All'ospedale mi hanno riempito di medicine. I primi anni mi tenevano legata al letto. Poi, col tempo, hanno capito che non ero più pericolosa degli altri e mi facevano uscire a prendere aria nel giardino.
Ora i tempi sono cambiati e mi dicono che sono guarita e posso andare via. Posso tornare a casa. Come se ce l'avessi una casa. 

Domani è il grande giorno. Sarò libera.
Esco per l'ultima volta in giardino a vedere le rose. Ne taglio una, rossa come il sangue. Senza badarci me la infilo tra i capelli. Una spina mi graffia leggermente ed una goccia di sangue cola lungo la guancia.
Mi giro per rientrare e, poggiato al muro, vedo un forcone, forse dimenticato dal giardiniere...

"Dottore, è sicuro che io sia guarita?"
Le parole mi escono dalla bocca con sicurezza. Il dottore si gira e mi guarda con un sorriso... 
Il forcone penetra sotto il mento e fiotti di sangue ricoprono ancora una volta le mie mani...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


mercoledì 18 dicembre 2013

Parole, soltanto parole...

- Chiare e ben distinte, mi raccomando!
 
Mi dice l'assistente di regia senza guardarmi in faccia. Sono solo una delle tante centinaia di ragazze in fila per il provino, alla ricerca di un posto da doppiatrice.
 
- Legga prima di tutto le due pagine che le daranno l'idea del contesto, si cali nella parte e poi quando le faccio cenno legga la frase che ha sul foglio, quella in neretto.
Cerchi di dare il massimo la prima volta, non c'è un secondo tentativo. Oggi è tardi...
 
Come dire, diamoci una mossa che me ne devo andare a casa. Grazie per l'incoraggiamento, mi verrebbe da dire, ma poi mi trattengo, nel mondo dello spettacolo sono tutti suscettibili e non vorrei che mi cacciassero senza neppure aver provato a leggere la mia frase "in neretto".
 
- Si ricordi di avvicinarsi bene il microfono alle labbra
 
Si, lo so, è il settantaquattresimo provino che faccio!
Pensai, senza aprir bocca. La guardai in faccia sperando che alzasse lo sguardo ma ancora una volta l'assistente di regia mi ignorò, sembrava lo facesse apposta. E poi quando parlava era così impersonale, semprava che parlasse al muro, non ad una persona. Odiosa...
 
- Ha detto qualcosa? Non ho sentito bene...
 
Accidenti!
Che mi fosse sfuggita una parola? E ora? Cosa dovevo rispondere? Forse era meglio far finta di niente... Meglio girarsi dall'altra parte e far finta di non aver sentito. Eppure mi era parso, per un attimo, che mi avesse guardato in faccia, proprio mentre pensavo che era odiosa. Che sfiga! E se mi avesse letto nel pensiero? Ma no, è impossibile, queste cose accadono solo in tv e nei romanzi. Probabilmente avrò mosso le labbra e lei avrà intuito qualcosa. Magari le sono antipatica, come lei è antipatica a me. Se fosse così sono rovinata!
 
- Aspetti un attimo, la regia non è ancora pronta...
 
Che strega, ancora quella voce stridula nelle orecchie. Non la sopportavo proprio. Non vedo l'ora che finisca questo provino, e dire che questa mattina non volevo neanche venire! Che razza di vita, non ne posso proprio più! E se dovessero assumermi come farò? Non credo che la sopporterei tutti i giorni.
 
- Può andare, è il suo momento...
 
Se mi dovessero assumere... avrei fatto di tutto per starle lontano...
 
- Signorina tocca a lei...
 
Se mi dovessero assumere farò di tutto per farla licenziare. Non la sopporto proprio, non la posso vedere ne sentire...
 
- Signorina, legga la sua frase, quella in neretto...
 
Se mi assumono... devono assumermi! Io sono brava, sono la migliore e poi...
 
- Signorina, la prego, non faccia come le altre volte, legga la sua frase!
 
Ormai ho una certa esperienza di provini!
Tutta colpa di quella strega, non la sopporto!
 
- Signorina, la prego, non so più che fare per aiutarla. Dica qualcosa, la prego...
 
Non può andare avanti così!
L'assistente di regia mi guardava dritta negli occhi e parlava, parlava... ma io non la sentivo più. Mi girai come le altre settantatre volte e me ne andai verso la porta, scoraggiata e delusa! Non sapevo se avrei avuto il coraggio di tornare ancora.
Non ne posso più di quella. 
E' tutta colpa sua, mi fa paura come mi guarda,
e poi quella voce...
 
...la prossima volta la uccido! 

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 13 marzo 2011

Il fantasma della casa sull'Olona

Non riesco più a fare le cose che facevo prima, non posso più uscire per strada senza pensare a quanto mi è accaduto...
Sono passati tanti anni ormai, ma ancora non riesco a dimenticare. 
La mia vita è cambiata... e non potrò mai tornare indietro...
Ogni volta che mi trovo a passare di fronte a quella casa, un brivido freddo mi percorre la schiena e i miei sensi, stimolati dal ricordo, trasmettono al mio cervello segnali d'allarme! 
Non riesco a dimenticare... non VOGLIO dimenticare!

Cosa accadde, mi chiederete...
Non so se riuscirò mai a dire tutto. 
Anche scrivere, come ora sto facendo, mi riapre una ferita ancora sanguinante... 
Eppure devo provarci, il mio psicologo dice che devo superare quello che mi è successo... dice che devo metabolizzare e secondo lui scrivere e parlare di quanto mi è accaduto non può che farmi bene!
Io non sono tanto convinto ma che altro posso fare?

Era il 1989, quando mi trasferii a Legnano, avevo trovato lavoro in una società della zona come ingegnere alla produzione. Un lavoro ben pagato ma che mi portava via molto tempo. Dovevo viaggiare spesso e non avevo modo di passare molto tempo con mia moglie così, di tanto in tanto, la portavo con me. A lei piaceva molto viaggiare così approfittava dei miei viaggi di lavoro per visitare le capitali d'Europa e per acquistare libri... a volte romanzi ma più spesso antichi testi che lei diceva di adorare.

Lei conosceva diverse lingue oltre l'italiano. Il francese, l'inglese, lo spagnolo, ma anche lingue morte come il latino e il greco antico non la spaventavano per niente, ed ogni volta che per lavoro mi recavo in un paese in cui si parlava una lingua sconosciuta, per lei era una festa. Preparava la sua valigia velocemente, selezionava accuratamente le grammatiche e i libri che le sarebbero potuti servire e, alcune settimane prima della partenza, iniziava a studiare la nuova lingua che poi puntualmente praticava e approfondiva sul posto.
Non sono mai riuscito a capire come facesse... eppure per lei era semplice, sembrava che le lingue non avessero segreti e la cosa cominciava anche ad essere utile per il mio lavoro. Avere un interprete personale e di totale fiducia non è da tutti infatti!

Dopo un anno di duro lavoro la società decise di assumermi come dirigente, dovevo occuparmi dei grossi contratti con l'estero, l'attività era in forte espansione e avrei preso una percentuale per i nuovi contratti. Accettai senza pensarci due volte e anche Anna, così si chiamava mia moglie, ne fu felice.
Ora potevamo permetterci una casa tutta nostra, sarebbe stata la nostra reggia.

Allora abitavamo nei pressi della stazione ferroviaria, in una palazzina degli anni '50, in una mansarda arredata semplicemente, una camera da letto, un angolo cottura che si apriva su un terrazzo che dava sulla stazione, un bagno veramente minuscolo e una seconda stanza che io usavo come studio e Anna come biblioteca, con una sola grande poltrona in pelle nera al centro, che condividevamo, e un tavolino sempre ricoperto di libri e progetti... tutto intorno una libreria in legno scuro stracarica di libri e una lampada a muro rendevano l'ambiente intrigante e accogliente... I libri provenivano da tutto il mondo e probabilmente tutte le lingue vi erano rappresentate, come al palazzo dell'ONU e forse più!
  
Quando decidemmo di compare la casa non avevamo idea di cosa acquistare, l'unica esigenza era legata allo spazio per i libri di Anna e al mio studio, che al momento era troppo ridotto. Per il resto tutto andava bene.
Cominciammo ad uscire la sera alla ricerca di una zona che ci piacesse. Percorremmo a piedi più volte tutta la città di Legnano, ci spingemmo fino a Castellanza, a Busto Arsizio e visitammo anche i paesi limitrofi ma non trovavamo niente che soddisfacesse le nostre esigenze e fosse anche alla nostra portata. Ogni sera, tempo permettendo, facevamo chilometri, osservando attentamente le case, i giardini, le persone... alla ricerca di quella che sarebbe diventata la nostra casa. 
     
Una sera più luminosa del solito, accompagnati dalla luna piena e con il cielo stranamente libero da nuvole, notammo a pochi metri dal fiume Olona, una vecchia casa diroccata, quasi completamente ricoperta di edera rampicante, secca, cadente dai tetti spioventi... 
Le finestre erano chiuse, gli scuri in legno cadenti, appesi ad una cerniera in ferro corrosa dal tempo e dalla pioggia, cigolavano per il vento.
Ci guardammo in faccia, sorridendo. Sembrava la casa dei fantasmi, pensai, e già proseguivo il mio cammino...

"Ecco, è questa la casa che voglio!"   

Le sue parole mi arrivarono all'orecchio come uno schiaffo inaspettato, restai interdetto per un attimo, poi mi girai verso di lei, pensando scherzasse. Dai suoi occhi capii immediatamente che non scherzava, era seria, anzi serissima. Realizzai immediatamente che qualunque cosa avessi potuto dire o fare sarebbe stato inutile, quella sarebbe diventata la nostra casa. Conoscevo Anna da quando era una ragazzina quindicenne e stavamo assieme da altrettanti anni, sapevo che se voleva una cosa l'avrebbe ottenuta, con le buone o con le cattive. Ci dovevo fare l'abitudine, quella sarebbe stata la nostra casa.

Il giorno dopo tornammo assieme di fronte alla casa, certo, ci sarebbe voluto un po di tempo prima di rendere abitabile quel che restava di una casa indipendente, abbandonata da almeno venti anni, ma non c'era fretta. Mentre osservavo il tetto cercando di capire quante di quelle tegole erano ancora intere, una vecchia ci rivolse la parola con quell'accento tipico legnanese che avevamo cominciato a capire ed apprezzare. Ci chiese chi fossimo e cosa volessimo e senza aspettare le nostre risposte cominciò a raccontarci della sua vita, di quando era arrivata a Legnano col marito, della loro vita felice, dei figli, del fatto che ormai era vecchia e non sentiva più bene da un orecchio (ma la lingua le funzionava ancora benissimo, pensai) e dei fantasmi che abitavano la casa che stavamo osservando...    

"Fantasmi?" La interruppi involontariamente...
"Fantasmi?" Ripeté Anna a voce alta...

E così la vecchia, che abitava proprio affianco, cominciò a raccontare dei rumori che provenivano dall'interno di quella casa, delle luci che apparivano di tanto in tanto, delle ombre scure, enormi, che aveva visto tante volte nascosta dietro le tende della finestra della cucina. Dei suoi gatti scomparsi negli anni passati e dei giocattoli rotti che di tanto in tanto trovava nel suo giardino...

Ogni parola non faceva altro che spingere Anna verso quella casa... come esche ben poste sull'amo di un esperto pescatore, quelle parole attiravano la preda verso la trappola mortale. trappola che per Anna avrebbe significato...

Non capivo come potesse piacerle, ma non provai neanche a discutere la sua scelta, anche questa volta l'avrei accontentata e poi, nel caso, me ne sarei pentito in silenzio, per amore.

Riuscimmo a scoprire chi era il proprietario della casa e nel giro di qualche mese fu nostra, solo nostra (e della banca che ci aveva concesso il mutuo) e ancora qualche mese e sarebbe stata abitabile. Ci volle più tempo del previsto a causa di una crepa nascosta che arrivava dal tetto alle fondamenta ma alla fine i lavori terminarono e la casa ci fu consegnata. Non restava che acquistare qualche mobile e fare il trasloco delle nostre cose. Comprammo una bella camera da letto. La cucina dovemmo ordinarla su misura e lo stesso per la libreria dello studio, che era ampio e luminoso. A metà maggio ci trasferimmo.

La casa aveva cambiato aspetto, l'edera rampicante cresceva rigogliosa e tutto ciò che un tempo era arrugginito e cigolante ora sembrava aver ripreso vita. Anna era felicissima e il suo viso raggiante mi aveva fatto dimenticare quella strana sensazione che avevo provato sentendo parlare dei fantasmi...

La vecchia vicina, da quando aveva saputo che avevamo acquistato non ci aveva più rivolto la parola, ci passava vicino senza salutare, triste in volto. La sorpresi una sera mentre gettava del sale di fronte alla nostra porta. In faccia aveva uno strano sorriso. Ma non ci feci tanto caso, al momento.

Erano passati diversi mesi da quando ci eravamo trasferiti nella nostra nuova casa. Sembrava che tutto andasse per il meglio e anche la vicina aveva ripreso a salutarci anche se si vedeva da lontano che non approvava la nostra presenza. Poi, una sera, un fatto inusuale mi colpì. Anna era seduta sulla sua poltrona, ne avevamo comprata un'altra, al centro della biblioteca-studio e io arrivavo dalla cucina. Al suo fianco, vicino alla mia poltrona, vidi la sagoma di un uomo chino su di lei che leggeva.
Un brivido freddo mi pervase, un urlo strozzato uscì dalla mia gola...

"Che succede, caro?!?" 
   
L'ombra scomparve... non riuscivo a parlare, avevo visto bene o era solo suggestione? 
Mi lasciai cadere sulla poltrona, senza forze, come svuotato dalla vita. 
Avevo visto un fantasma? Le parole della vecchia mi tornarono in mente...
Chi era quell'essere, là, affianco alla mia Anna? 
Lei era in pericolo?
Queste e altre domande si affacciavano alla mia mente ma non riuscivo a parlare, non potevo aprir bocca, era come sigillata. Non riuscivo a muovermi, ero come paralizzato dalla paura.

La sensazione che avevo provato alla vista di quell'ombra non era scomparsa, anzi, era più forte che mai... come se quell'essere mi osservasse alle spalle, come se mi trattenesse con braccia invisibili e mi chiudesse la bocca con labbra di ghiaccio. Non riuscivo a muovere un muscolo, ero paralizzato sulla poltrona e guardavo, con gli occhi sbarrati dal terrore... le palpebre aperte innaturalmente, le pupille dilatate. Anna era li, di fronte a me e l'ombra si faceva sempre più vicina, terribile, assetata di sangue.

Poi la colpì, una, due, dieci volte... la lama del coltello penetrò nelle sue carni e il  sangue schizzava sulle copertine dei libri, sulla tappezzeria, sulle carte del mio ultimo contratto, lentamente, appiccicoso... sangue rosso rubino.
Tentai di muovermi, di urlare, di avvisarla, di salvarla... ma non potevo far niente, potevo solo guardare quello spettacolo orribile che ora vorrei poter dimenticare.

L'ombra scomparve, silenziosa... Il tempo passava, la notte trascorse senza rumori, l'odore del sangue riempiva la stanza ma io non potevo muovermi, ero come incollato alla poltrona...
Poi la mattina dopo, cominciai a riprendermi, riuscii a muovere le braccia e poi le gambe e a trascinarmi fuori dalla casa strisciando sul pavimento. Aprii la porta e urlai a squarcia gola, una, due, tre volte...

La vecchia vicina di casa era li, di fronte a me, per niente stupita, come se avesse capito cosa era accaduto... come se sapesse! Le chiesi di chiamare i Carabinieri, balbettai qualcosa a proposito di Anna, del fantasma, del sangue... poi svenni.

Mi risvegliai in ospedale, legato al letto con una camicia di forza. Mi dissero che avevo dato in escandescenze, che avevo urlato per tre giorni, che farneticavo di ombre e fantasmi e dell'assassinio di una donna, Anna. Mi dissero di aver controllato la casa, non c'era sangue ne segni di lotta. Non c'erano neanche più i libri, solo sporcizia e i segni di una casa abbandonata a se stessa, senza la mano di una donna. 
La vecchia vicina aveva raccontato ai Carabinieri che qualche settimana prima la donna che viveva con me, Anna, mi aveva lasciato per non tornare... e io non l'avevo presa bene. Forse ero impazzito... ma non era vero. Io sapevo qual'era la verità, io c'ero stato in quella stanza, io avevo visto la vecchia, guardarmi di traverso, avevo visto l'ombra e il sangue... io.. io ero forse pazzo?!? 


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 6 marzo 2011

Solo... un incubo!

Era una fredda giornata ... nuvole gonfie di pioggia si avvicinavano, sospinte da un freddo vento di tardo autunno...
Di tanto in tanto un pallido raggio di sole illuminava la piazza e i suoi mercatini. Povere bancarelle piene di oggetti vecchi e inutili!
Il freddo non mi aveva però impedito di uscire, così mi aggiravo solitario tra le bancarelle alla ricerca di un libro da leggere la sera, e con indosso il senso di tristezza che porta con sé una buia giornata autunnale.
Su quella bancarella non c’era niente di interessante, solo vecchiume e qualche falso, realizzato recentemente nel magazzino di qualche abitante del luogo... pensai, mentre osservavo i pezzi apparentemente più antichi per vedere se c’era qualcosa che valesse la pena di essere acquistato!
Poi un vecchio, poco distante, attirò la mia attenzione... aveva un carretto a mano... uno di quei carretti in legno che non mi capitava più di vedere da anni. Doveva essere appena arrivato perché non c'era nessuno attorno... nessun curioso che frugasse tra quegli oggetti...
Ottimo! Pensai... 
Sono il primo cliente, chissà...
Una folata di tramontana mi congelò il viso... un brivido mi scosse la schiena... come a voler ricordare che ancora qualche giorno e sarebbe stato inverno, un inverno freddo sicuramente!
Sul carretto del vecchio c'erano oggetti di varia foggia, in equilibrio precario, l'uno sull'altro. Alcuni in legno, altri in ottone, la maggior parte in pietra nera e lucida...
I più bizzarri, erano appena sbozzati, e ricordavano la forma di quelle teste imbalsamate che mi era capitato di vedere in Africa. Ogni oggetto sembrava avere due facce...
Non badai molto al resto, tutte cianfrusaglie senza valore e di dubbio gusto. Mentre mi giravo per andar via mi accorsi della presenza di una ragazza, dietro il banco.
Era seduta su di un basso banchetto in legno, sulla sinistra del vecchio venditore. 
Un secondo carretto, su cui erano esposti degli oggetti di scarso valore, l'aveva nascosta alla mia vista.
Tutto in lei sapeva di antico eppure doveva essere giovane...
Mi ritrovai a fissarla intensamente, senza volerlo. Mi colpì subito ma non saprei dire per quale motivo, era molto bella...
Lunghi capelli neri le coprivano il viso cadendo lungo le spalle, le mani sorreggevano la testa nascondendole il viso.
Mi spostai di qualche passo, inconsciamente. 
Desideravo vederla in faccia...
Presi tra le mani un oggetto che poteva essere l’incisione del volto di un soldato, con l’elmetto in testa, mi accorsi che era veramente brutto e lo riposi.
Raccolsi poi un piccolo oggetto in pietra nera che attirò la mia attenzione. 
Aveva una forma strana, come ogni oggetto su quella bancarella. Aveva le fattezze di un volto di donna, ma questo era particolare. Mi ricordava qualcosa... qualcuno che conoscevo ma non riuscivo a mettere a fuoco, come un ricordo lontano...
In quell'istante, la ragazza dai capelli neri si alzò, mi guardò fisso negli occhi e senza una parola si allontanò... seguita dal mio sguardo incantato. C'era qualcosa di irreale in quella sua camminata sinuosa, qualcosa di pericolosamente attraente. Non potei fare a meno di seguirla con gli occhi fin verso il centro della piazza che, un tempo, doveva essere stata una bellissima arena in pietra. Di colpo lei iniziò a correre...
“Aspetta...” gridai... “Aspettami...”
La voce che uscì dalle mie labbra mi sorprese. Era stato un riflesso involontario o realmente volevo fermarla, incontrarla, interrogarla e... stringerla tra le braccia?!?
La sua snella figura ondeggiava, sempre più veloce, in direzione di una apertura che si apriva seminascosta nella parete di pietra...
Non so per quale motivo la seguii, ma lo feci! 
Arrivato agli scalini in pietra mi resi conto che stringevo ancora in mano quell'oggetto, lo poggiai.
In quel momento vidi nuovamente la ragazza... ora correva lungo il cerchio dell’arena, si voltò verso di me e... rideva! Mi fissava e rideva! 
Era una risata stridula, che mi fece accapponare la pelle!
Udii degli altri rumori, indistinti, come in un incubo. Non riuscivo a capire dove fossi né cosa accadesse intorno a me!
Ruotai la testa nella direzione da cui provenivano quei rumori ma non vidi nessuno. 
Mi voltai nuovamente, la ragazza si allontanava di corsa, lei e quella sua terribile risata. 
Avevo freddo! Le mani congelate, la fronte mi pulsava... 
Lanciai un urlo!
Non so perché, mi voltai e corsi in direzione opposta, lontano dalla ragazza, dalle bancarelle, dalla 

"Amore, sveglia... mi hai spaventata... che succede?”

Mia moglie mi stringeva la mano destra...

“Niente amore, solo... un incubo...”

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 27 febbraio 2011

Fantasmi dal passato...

“I capelli!”
La voce era uscita spontaneamente dalla sua bocca, aveva quasi urlato! Ma tanto che importava, non c’era nessuno in casa…
“Diamine, stavo dimenticando l’appuntamento col barbiere!”
Poteva urlare quanto voleva adesso! Nessuno si sarebbe lamentato. Erano passati tanti anni da quando la moglie l’aveva lasciato portandosi appresso i suoi due figli…
“Sono già le sette, spero di fare in tempo. Le odio, queste cene di beneficenza. Mi fanno perdere un sacco di tempo ma pare facciano bene alla mia immagine.”
Immagine…allora non si preoccupava dell’immagine quando picchiava la moglie. Non se ne preoccupò neanche quando la mandò all’ospedale con una gamba rotta perché aveva preso le difese del piccolo Arthur! Ma adesso era diverso, ora era un uomo importante oltre che ricco e così doveva curare la sua immagine…
“Fortunatamente è giusto qua, dietro l’angolo, sono quasi arrivato.”
Quella volta stava per essere denunciato ma, si sa, i soldi possono tutto! Così se l’era cavata ancora.
“Maledizione! Chiuso per lutto, non è possibile!
E ora?”
E si, se l’era cavata! Quando la moglie rientrò dall’ospedale lui era fuori per lavoro, i bambini erano con la domestica. Lei prese le suo poche cose e i suoi bambini e sparì nel nulla. Lui avrebbe potuto ritrovarla forse, ma non se ne occupò minimamente. La sua ritrovata libertà lo affascinava! Non si preoccupò neanche dei figli, pesi inutili!
“Guarda là che fortuna, quell’insegna è nuova!”
I bambini avevano sette e nove anni, Arthur era il più grande. Presero il treno delle sette per Liverpool. Non tornarono mai più indietro! Lei trovò alloggio in un quartiere malfamato, sotto falso nome. Trovò anche un lavoro come cucitrice in una grossa fabbrica di tessuti. Lavorava sedici ore al giorno in un ambiente malsano, morì due anni dopo di polmonite, lasciando i due piccoli senza speranze.
“Barberia. Certo che per essere nuova è abbastanza strana, sembra antica!”
Arthur fece quello che era in suo potere per accudire Jimmy, si trovò un lavoro e rientrava a casa a notte fonda. Jimmy non faceva che piangere per la morte della madre e un bel giorno ne morì!
“Non ho tempo da perdere, l’importante è che ci sia un barbiere dentro!”
Dopo la morte di Jimmy niente era più importante per Arthur eppure continuò a vivere a Liverpool per anni, lavorando e crescendo…
“Ragazzo! Barba e capelli…e sbrigati che ho molta fretta!”
Poi un giorno, leggendo il giornale vide una sua foto! Il padre era in lista per ricoprire una altissima carica ed era dato per vincente! Chissà se era cambiato! Non provava odio, ma solo terrore! A causa sua era morta la madre e il fratello, era un Mostro!
“Ragazzo! Ho detto che ho fretta… cosa aspetti a servirmi?”
“Mi scusi signore, arrivo subito!” Prese l’ampolla dell’acqua per bagnare i capelli e con gesto maldestro versò alcune gocce sulla giacca del cliente.
“Che diamine combini! Deficiente d’un garzone.”
“Ma è solo acqua signore, l’asciugo subito”
“Pensi forse di cavartela così? Io ti rovino, ti distruggo. Dov’è il tuo padrone?”
Non era cambiato, ora ne aveva la prova! Fu una questione di un attimo, la lama affilata del rasoio penetrò in profondità nella morbida pelle del collo del padre! Un fiotto di sangue sgorgo e andò ad imbrattare la camicia candida. In un ultimo gesto sollevò gli occhi e vide in faccia il suo assassino!

“Ciao Papà!”

L’orrore gli riempì l'anima...

L’inferno lo aspettava!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 24 maggio 2008

L'invasione

L'uomo guardava incredulo...
di fronte a se migliaia di esseri apparivano dal nulla, tutti diversi ma ugualmente mostruosi.
Vicino a lui un gruppo di ragni enormi si contendeva il teschio del suo vicino... dopo averlo staccato dal collo con un solo colpo d'artiglio, affilato come una falce...
Erano sempre più vicini e l'uomo continuava a fissarli, con gli occhi sbarrati e un filo di bava che colava dalla bocca... Li sentiva distintamente, come fossero enormi insetti, ripugnanti insetti dalle forme spaventose, con le loro zampette troppo cresciute...
Poi reagì, imbracciò il fucile e cominciò a sparare di fronte a se. Uno, due, tre colpi e poi ancora... tanto aveva una scatola di cartucce a pallettoni!
Li vedeva cadere a terra,... schizzi di sangue ovunque...
Poi, ecco, l'ultima cartuccia...
L'uomo caricò il fucile, ancora una volta... l'ultima!
Si portò la canna alla bocca...
Pezzi di cervello e ossa vennero proiettati violentemente sul soffitto...
Due bottiglie di whisky vuote sul pavimento.
Una famiglia sterminata a colpi di falce e di fucile.
Questo il risultato dell'ultima bravata di G, alcolizzato e tossicodipendente del quartiere...
Una strage!
Così riportava il titolo del giornale del paese, sulla prima pagina... il giorno dopo!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
(Olbia-Civitavecchia, 24 maggio 2008)

giovedì 30 agosto 2007

Nebbia...

Si muoveva per la città veloce, silenziosa, strisciante e fredda, come la morte...

Le luci contribuivano non poco a render tetro il paesaggio.
Quella luminescenza verdastra che si diffondeva nell'aria avanzava con l'avanzare di quella strana nebbia...
Capitava spesso che la nebbia scendesse a valle dalle colline che circondavano il paese, eppure non era mai stata cosi...
Non so come descrivere quella strana sensazione.
Tutto sembrava impregnato di morte.
Le vie erano deserte e il silenzio quasi assoluto, rotto solo da qualche sempre più raro ululato di cani ormai selvatici...
Guardai il cielo...
non c'era la luna e le stelle, quelle poche che ancora si vedevano, erano circondate da quella foschia opaca e irreale, come fossero sul punto di spegnersi e morire anche loro.
Tutto era freddo e silenzioso, così irreale nella sua terribile realtà, così diverso dal chiasso di qualche giorno prima.
Ricordo ancora le strade affollate, il rumore delle auto in corsa, la gente che si ferma di fronte ad una vetrina.
Troppa gente - penso - che ci sarà di tanto interessante?
Ricordo di essermi avvicinato anch'io, incuriosito da tante grida di stupore...
Ricordo quel televisore sintonizzato su un telegiornale e le parole del cronista, incredibilmente cariche di preoccupazione:
"Sembra che sia nuovamente guerra, tra le grandi potenze..."
e poi più niente, il segnale era sparito!
Per un attimo il silenzio irreale della morte ci pervase.
Poi il silenzio si trasformò in consapevolezza e la consapevolezza portò con se il terrore...
Fu questione di istanti, il cielo si fece bianco, poi luminescente... accecante.
Si alzò un vento caldo che sapeva di morte, che veniva da lontano... poi da vicino... ... puzza di carni bruciate.
La gente cominciò a morire subito dopo.
La stessa sorte toccò ad animali e piante.
Erano bastati pochi giorni per sterminare sette miliardi di esseri umani, ben poca cosa, comunque, rispetto le perdite della Natura.
Poche eccezioni si muovevano lentamente per quelle lande ora deserte, in attesa del loro destino.
Ora tutto poteva ricominciare, lentamente, ancora una volta, e chissà a chi sarebbe toccata stavolta la corsa all'evoluzione...
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO