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domenica 11 settembre 2016

Il papiro dei Re di Torino, considerazioni intorno al sistema de' numeri presso gli antichi egiziani

Ho appena terminato di leggere un saggio/lettera del Cavaliere Giulio di S. Quintino, "Sopra il sistema de' numeri presso gli antichi egiziani" pubblicato il 15 gennaio 1825, inviata all'Abate Giovan Battista Zannoni.
Avendolo trovato molto interessante e non avendo mai sentito prima parlare di ciò, ho ritenuto importante scrivere alcune righe per ricordarlo.
Il Cavalier Giulio di S.Quintino era allora conservatore presso il Museo Egizio di S.M. il Re di Sardegna, in Torino, mentre l'Abate era segretario della Reale Accademia della Crusca e Regio antiquario nell'I. e R galleria di Firenze.
L'oggetto della lettera/saggio, come traspare dal titolo, è il sistema numerale degli Egizi.
Il Cavaliere spiega di essersi avvalso, per i suoi studi, di contratti demotici e registri ieratici "pieni in ogni loro parte di date e di quantità numerali" ma, più utili sono stati per lui "i miseri avanzi di un antico codice cronologico egiziano che presso di noi pure si conserva, ridotto però dal tempo, in centinaia di frammenti".
Il Cav. ci parla dunque di un codice cronologico antico e molto rovinato. Aggiunge che il primo a visitare e studiare il codice fu Champollion il minore. Sulla base dell'analisi del codice, Champollion pubblicò diversi articoli sui giornali d'oltralpe, definendo il papiro "un vero canone reale fatto a somiglianza di quello di Manetone; come un tesoro per la storia, di cui non si potrà mai deplorare abbastanza la perdita per ciò che ne manca; come un'appendice inestimabile alla celebre tavola genealogica d'Abydos, e contenente una serie di oltre cento Monarchi egiziani".
Una notizia interessante senza dubbio, per quei tempi di sicuro, trattandosi di una scoperta che aggiungeva almeno cento Re a quelli allora noti. Sicuramente Champollion utilizzò questi dati nella sua cronologia, facendo risalire i faraoni più antichi anche al 6.000 a.C., per Champollion il Re Menes, capostipite della Prima dinastia, unificò alto e basso Egitto nel 5867 a.C.. Attualmente si ritiene che Menes abbia regnato intorno all'anno 3000 a.C., ma siamo sicuri che le datazioni odierne siano corrette? 
Vediamo cosa ci dice ancora il Cavaliere Giulio di S. Quintino.
"Ora egli è evidente che aggiungendo quei settecento od ottocento anni, all'anno millequattrocento settanta tre avanti l'era volgare, nel quale, con molta ragione, si crede dagli eruditi che il Re Sesostri abbia cominciato a regnare, noi saremo trasportati, dalla sola tavola d'Abydos oltre i tempi d'Abramo, in un'epoca già assai vicina al diluvio, secondo la cronologia de' libri Santi.
Come si può vedere chiaramente, l'autore è preoccupato di non andare in contrasto con la cronologia ufficiale riconosciuta dalla chiesa. Il periodo di 700 o 800 anni, riferito ad un centinaio di Faraoni è chiaramente sottostimato, potendosi più realisticamente valutare, a mio parere, in almeno 2000 anni.
Ma non è tutto, infatti poco più avanti si dice: "Eppure Ella dee sapere, sig. Abate pregiatissimo, che i nomi dei Faraoni che si trovano sparsi in quei frammenti sono veramente assai più di cento; io stesso ne ho riscontrato più di dugento; ed è cosa probabilissima che nell'intiero papiro il loro numero fosse anche maggiore...".
Ciò potrebbe significare aggiungere non 2000 anni ma piuttosto almeno 4000!
Riportando così l'epoca dei primi faraoni almeno al 5000/6000 a.C. ovvero ai tempi indicati da Champollion. 
Ma allora cosa spinge i nostri studiosi a porre molto più vicino nel tempo l'alba dell'Egitto?
Non penso che oggi si tratti di rispetto per la cronologia biblica ma non ne capisco il reale motivo.
Proseguendo la lettera, il Cavaliere avanza delle ipotesi più che credibili:
"Questo nostro canone cronologico tanto celebrato non sarebbe egli mai per avventura quello stesso codice nel quale erano registrati i 340 Re, i quali secondo ciò che i sacerdoti di Tebe voleano far credere ad Erodoto (Erodoto, II, 142) tennero lo scettro di Egitto per lo spazio di undicimila trecento e quaranta anni, da Menes, loro primo Monarca fino a Sethos Re e sacerdote di Vulcano?"
In effetti conoscevo già la storia di Erodoto e non ho mai capito per quale motivo i nostri storici non abbiano mai preso la cosa sul serio. Anche nel Timeo di Platone si fa riferimento all'antichità dell'Egitto ma per i nostri scienziati e storici gli Egizi non possono aver creato un regno sopravvissuto per più di 3000 anni!
Il Cavaliere prosegue dicendo che il codice riportava, per ogni Faraone, il nome, il periodo del suo regno  in anni, mesi e giorni "con estrema precisione". 
Riconosce pure lui che una serie di duecento sovrani non poteva non abbracciare un periodo di tempo inferiore ai trenta o quaranta secoli. Dice inoltre che gli elenchi furono trovati somiglianti a quelli di Manetone, per inciso altro autore non tenuto in considerazione dagli storici.
A questo punto sembra che il Cavaliere Giulio di S. Quintino si ricordi che sta scrivendo ad un Abate e ritorna a parlare del suo studio sul sistema numerale, professando anzi la sua contrarietà all'approfondire lo studio della successione dei Monarchi: "Abbandonai quindi al suo destino tutta quella turba disordinata di Faraoni, nascosti sotto il velo di oscuri prenomi per lo più mutilati; perchè com'ella può credere, non mi vanno punto a genio sì fatti antichi documenti cronologici, che non so trovar modi di conciliare facilmente coi testi delle scritture sante, ed in particolare colle otto generazioni che precedettero, dopo il diluvio, la nascita d'Abramo (Genesi XI)".
Ecco, così il Cavaliere abiura al suo ruolo di uomo di scienza per prostrarsi di fronte all'uomo di chiesa!
Questa, forse, la sua unica preoccupazione: che qualcuno possa comprendere che nel papiro si parli di tempi antecedenti allo stesso Adamo: "Pericolo è che tale papiro possa contribuire segretamente a distruggere l'infallibilità della sacra storia scritta da Mosè".
Non credo di dover aggiungere altro!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Goffredo MAMELI, il corpo e lo spirito della nazione.




Goffredo Mameli ma chi era? Per molti concittadini Mameli è “quello” che ha scritto l’Inno d’Italia, ma poco si sa della sua intensa e breve vita. Lo stesso Inno è poco amato, la patria dei grandi musicisti come Verdi, Rossini, Puccini, Donizetti, sembra essere poco rappresentata dalla “marcetta” del “Canto degli Italiani”.

Ma le cose non nascono per piacere, la storia non è un discount a scaffali dove prendere ciò che più ci attira e soddisfa. La storia è la vita degli uomini e delle loro gesta, e la vita di Mameli è la vita di un uomo, di un intellettuale, di un patriota e di un martire.

Quando Goffredo Mameli muore a soli 22 anni, il 6 luglio 1849, l’Italia unita era ancora un miraggio, un sogno irraggiungibile. Molti dopo la disfatta della Repubblica Romana di Giuseppe Mazzini si convinsero che l’Italia Unita non avrebbe mai visto la luce. Troppi nemici fuori e dentro il continente italiano remavano contro l’unificazione, e soprattutto la repubblica di Mazzini sembrò aggravare le contraddizioni del processo Unitario - La Repubblica Romana apparve troppo sconveniente per conciliare il paese che doveva essere del Papa e dei Savoia. Cavour capì bene la situazione e da uomo pragmatico quale era disegnò una strada per l’Unità che prevedeva i Savoia e il papato a discapito delle idee di Mazzini e dei mazziniani.

Ma torniamo a Mameli. Gli eventi che caratterizzano la vita di Mameli si consumano velocemente, nell’arco di soli tre anni. Diciannovenne, ancora studente, aderì alle idee del risorgimento italiano e preferì una vita di sacrifici ad una agiata carriera diplomatica, dato che proveniva da una antica e benestante famiglia nobile. Nel 1846, compose la poesia “Fratelli d’Italia” che iniziò a circolare tra gli studenti e i circoli risorgimentali genovesi, ma non era ancora un canto. Nel 1847, Mameli contattò il musicista Navaro per dare una musica compiuta alla sua poesia. Il canto che venne fuori, che venne anche indicato come il “Canto degli Italiani” fu cantato per la prima volta durante i moti di Genova di cui Mameli fu uno degli organizzatori. Il 10 dicembre 1847, in occasione della commemorazione della rivolta del 1746 dei genovesi contro gli austriaci, nelle piazze di Genova, all’insaputa delle autorità, i patrioti iniziarono a sventolava il tricolore e a distribuire dei volantini con il canto di Mameli-Navaro e fu subito un successo mediatico.

Per le sue gesta piene di entusiasmo e le sue capacità intellettuali e organizzative il giovane studente e patriota Mameli fu arruolato nelle fila rivoluzionarie e fu portato al cospetto di Mazzini. Nella primavera seguente, a soli 21 anni era già un personaggio di spicco del movimento, e con Bixio si fece promotore, durante i moti del 1848, della spedizione dei trecento volontari per la liberazione di Milano che diedero vita alle 5 giornate e, in virtù dello straordinario successo dell’episodio, che vide il passaggio di mano del potere milanese dagli austriaci a patrioti, venne arruolato come ufficiale nell'esercito di Giuseppe Garibaldi.

L’eco delle 5 giornate di Milano infiammò la penisola, i patrioti si convinsero che era possibile l’liberare l’Italia dello straniero. A Roma, Papa Pio IX, che in un primo tempo sembrava volesse sostenere la causa italiana, cominciò a temere per il potere temporale della chiesa. La posizione ambigua del Papa portò la popolazione di Roma alla rivolta e Pio IX fu costretto alla fuga a Gaeta. I risorgimentali riuscirono a indire una costituente e a proclamare la Repubblica a Roma. Il Papa in esilio chiamò in soccorso i francesi per restaurare il papato. Dal canto loro i patrioti chiamarono le truppe volontarie di Garibaldi, il quale aderì immediatamente e con lui Mameli e il Canto degli Italiani venne adottato fin da subito come Inno della Repubblica Romana.

Non ci fu molta partita, i francesi di Napoleone III meglio organizzati e maggiori in numero ebbero la meglio e l’esperienza della Repubblica Romana finì presto (9 febbraio - 4 luglio 1849). Negli scontri, il 3 giugno, Mameli si ferì ad una gamba e morì il 6 luglio 1849 di cancrena, poco dopo essere stato nominato capitano, con nel cuore la disfatta della Repubblica e il sogno di una Italia unita che svaniva.

Mameli morì come cittadino romano, in quanto perì per la difesa della Repubblica Romana e quindi venne seppellito al Verano, il cimitero monumentale di Roma, con una tomba che riporta le insigne della città di Roma. Dopo di che, di Mameli non si parla più, una volta raggiunta l’Unità d’Italia nel 1861, i Savoia scelsero come inno del nuovo Regno la “Marcia Reale” e del Canto degli Italiani non si ebbe più traccia.

Nel 1941 la prima svolta. Mussolini era in forte crisi di consensi, il fascismo da tempo aveva esaurito la sua spinta propulsiva, e allora ebbe un’idea, egli volle riscoprire le radici repubblicane del risorgimento italiano per dare una immagine giacobina e patriottica ad un regime ormai logorato da anni di dittatura e di guerra. Organizzò in pompa magna la traslazione della salma di Mameli dal Verano al Gianicolo, luogo della battaglia a difesa della Repubblica Romana e dove Mameli venne ferito.

Una cerimonia laica che interessò tutta la città di Roma, un lungo corteo dal Verano fino al Gianicolo passando per le maggiori piazze della città. Fiori, lacrime, scene di regime certo, ma anche di un sincero affetto per un episodio, quello della Repubblica Romana, che era ancora vivissimo nell’immaginario collettivo. Il corteo non salvò il fascismo, e Mussolini si avviò alla inesorabile disfatta, e con lui quella di tutto il paese. Il 2 giugno del 1946, dopo la liberazione, gli Italiani scelsero la Repubblica, e la Marcia Reale fu chiusa in un cassetto e allora si pose il problema di trovare un inno che riunisse le varie anime di un paese nelle macerie oltre che fisiche, anche morali.

Avvenne la seconda svolta. Nel consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946, il Ministro della Guerra propose l’Inno di Mameli come canto per le Forze Armate, e da li si estese a Inno provvisorio per l’Italia repubblicana.

Ma ancora non ci fu pace ne per Mameli ne per l’Inno. Molti esponenti delle Forze Armate avrebbero preferito la canzone del Piave, e non la canzone legata ad un oscuro episodio del passato, peraltro finito male. La sinistra Italiana avrebbe preferito l’Inno di Garibaldi, la sinistra radicale lo giudicava troppo militaresco, la borghesia colta invece avrebbe preferito il “va pensiero” di Verdi. La destra monarchica non digeriva la Repubblica, figuriamoci l’Inno, e comunque la destra vedeva scomparire tutti i simboli del precedente regime e per i cattolici era troppo legato ad episodi anti papalini. Insomma non piaceva proprio a nessuno, per questo, come da buona tradizione italiana, era quello giusto.

Le polemiche non si sono mai sopite del tutto, la ricostruzione, il boom economico, il periodo del terrorismo e delle lotte studentesche, tangentopoli, durante qualsiasi fase della storia della nostra recente Repubblica c’è sempre stato un motivo per attaccare Mameli.

A partire dagli anni 2000, la terza svolta. Ciampi prima e Napolitano dopo, imposero l’inno in tutte le manifestazioni ufficiali a partire da quelle dove era presente il Capo dello Stato. Disse Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente della Repubblica: È un inno che, quando lo ascolti sull'attenti, ti fa vibrare dentro; è un canto di libertà di un popolo che, unito, risorge dopo secoli di divisioni e di umiliazioni.


Alessandro Ghinassi

giovedì 8 settembre 2016

Graffiti rupestri a Monte Baranta - Olmedo

Archeologia in Sardegna, niente di più appassionante.
Questo perché dovunque ti giri vieni sommerso da resti di antiche civiltà, quella nuragica è la più evidente ma non l'unica.





Questa mattina siamo stati a Monte Baranta e dopo essere rimasti sconvolti dallo stato di abbandono del posto, che preferisco non commentare, siamo rimasti colpiti dalle strutture metaforiche presenti sul posto, mi sembra che siano diverse da quanto visto fino ad oggi. Ma questo breve articolo mira solo a presentarvi una piccola scoperta. Il posto è pieno di lastrone sparsi sul terreno e uno di questi ha destato la mostra attenzione per i segni che vi erano incisi.
 Dalla foto non è proprio evidente come in presenza, ma nella foto qui sotto ho evidenziato quei segni che mi sembra siano inequivocabilmente di natura umana.
Devo dire, senza esagerare, di essere rimasto felicemente colpito dalla scoperta.
Fino ad ora, nonostante le innumerevoli escursioni non mi era mai capitato di trovare niente di simile.
Nella pietra si vedono anche altri segni ma è difficile distinguerli.
Naturalmente ora sta al mondo degli studiosi verificare la mia ipotesi. Buon lavoro a tutti.

Invito tutti coloro che amano la nostra Sardegna a fare qualcosa affinché posto come Monte Baranta possano essere trattati come meritano.

Alessandro Rugolo e Giusy Schirru

giovedì 25 agosto 2016

Colloqui con Mussolini, di Emil Ludwig

Mussolini!
Chi era quest'uomo?
Lo si conosce troppo poco, raramente si sente parlare di lui. Lo si considera come un pezzo di storia da dimenticare. Eppure, il compito della storia è proprio quello di ricordare, per insegnare, e si impara dagli errori come dai successi.
Mussolini commise errori ma non solo.
Il libro di Ludwig, risultato di una serie di interviste al dittatore fascista, tenute tra il 23 marzo e il 4 aprile, mette a nudo Mussolini, prima dei tragici errori che l'hanno condannato di fronte alla storia.
Il libro ha, a sua volta, una storia particolare. 
Mussolini prima ne approvò la pubblicazione, poi se ne pentì e lo emendò. La versione che ho appena terminato di leggere è quella integrale. Cosa lo spaventò? Forse leggere il suo pensiero messo a nudo dall'abile scrittore?
Ludwig con la sua intervista riesce a scoprire alcuni aspetti dell'uomo allora più potente d'Italia e forse d'Europa.
Conoscendo la storia, anche quella successiva all'intervista, ci si può chiedere come mai Mussolini, messo in guardia sugli errori compiuti da alcuni famosi suoi predecessori (Ludwig fa spesso riferimento a Cesare e Napoleone) sia comunque caduto negli stessi errori.
Ludwig porta il dittatore a pensare ai grandi temi del mondo.
La guerra: cosa pensa Ella della guerra? Potrebbe essere una delle domande di Ludwig (e lo fu, seppur formulata diversamente!).
La guerra è una scuola di vita, "oltre a tutto il resto, si impara la difesa e l'attacco", fu la risposta del Duce.
Napoleone, a cosa è dovuta la sua rovina?
"Con l'Impero ebbe inizio la decadenza! La corona lo costrinse sempre a nuove guerre [..] ogni impero ha il suo zenit. Poichè si tratta sempre di una creazione di uomini sia pure eccezionali, le cause del tramonto vi sono già insite."
E che cosa pensa Mussolini del socialismo e del nazionalismo, le due anime della sua vita? E dell'Europa? E cosa pensa degli italiani, della massa, del popolo e di come lo si deve guidare?
A cosa serve la rivoluzione? E cosa deve essere fatto dopo, per mantenere i risultati raggiunti?
La sala del Mappamondo di Palazzo Venezia, nel 1932, fece da contorno all'incontro tra il grande statista, Mussolini, e il grande scrittore, Ludwig. 
Forse in qualche modo anche il luogo ha avuto la sua influenza e leggendo il libro ci si può sentire testimoni di fronte alla storia.

Un libro da leggere tutto d'un fiato e che scopre al lettore alcuni aspetti poco noti di Mussolini, uomo e duce.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 21 agosto 2016

Notizie dal futuro (20 gennaio 2019)

Ancora una volta il presidente del consiglio di turno, un piemontese stavolta, pone il veto sul passaggio della legge elettorale.
Dopo il referendum di novembre 2016, dal quale il governo Renzi uscì sconfitto a larga maggioranza, il nuovo governo non aveva più avuto bisogno di usare il veto.
Evidentemente qualcosa sta cambiando e anche il movimento è diventato come i partiti che combatteva!

A.R.

sabato 20 agosto 2016

Narni, antica città Umbra

Oggi decidiamo di visitare l'antica città di Narni, in Umbria.

Un tempo il suo nome era Narnia, città romana, prima ancora Nequinum, insediamento Osco-Umbro. I Romani la presero nel 299 a.C. e le cambiarono nome.
Nel 30 d.C. vi nasce l'Imperatore Romano Nerva e la città, nonostante il tempo, ha un'aria aristocratica.

Girando per le strade si intuisce che la città è stata importante. 

Gli stemmi nobiliari sovrastano le porte di molti antichi edifici.
Le chiese ricordano le famiglie dei papi e dei signori locali.
Un tempo antico, sembra che a Narni vi fosse un porto. Alcuni stemmi infatti ci fanno pensare ad imprese marinare.
Le chiese sono ricche di tesori dell'arte italiana, di tutti i tempi.

Sculture e pitture inestimabili stanno al loro posto, da secoli.

Purtroppo alcune volte il tempo dimostra la sua forza ma senza portarne via completamente la bellezza.
 
Oggi, girando per le strade, di tanto in tanto si sente qualcuno che suona, entrando nelle chiese non è difficile trovare qualche ragazzo che suona il violino, in compagnia del suo insegnante. 

L'ambiente è infatti adattissimo a sviluppare la giusta confidenza che il musicista deve avere con il suo strumento.
Più tardi, nel XIV secolo, viene costruita la Rocca di Albornoz, nobile e difensore del territorio papale.

La Rocca è ancor'oggi bene conservata e sovrasta la città, come a volerla proteggere.

Anche per oggi la gita è finita, andiamo via con nel cuore le immagini di una piccola splendida città.
Per cui vi saluto, amici, alla prossima!
 

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 18 agosto 2016

D’Annunzio e Gramsci profeti a Fiume

Disertori in avanti, così definì Filippo Tommaso Marinetti gli autori dell’impresa fiumana capeggiati dal poeta Gabriele D’Annunzio. Poco meno di tremila legionari fuoriusciti dal regolare Regio Esercito occuparono, nel settembre del 1919, la città di Fiume e la dichiararono italiana. Pietro Badoglio, che in quel periodo era stato nominato dal Governo Nitti Commissario Straordinario per la Venezia-Giulia li dichiarò disertori e ne voleva la testa. Si sfiorò una guerra civile in un territorio, quello fiumano, che veniva annesso al Regno d’Italia senza che il Re e il Governo lo volessero, tra l’altro D’Annunzio diede a Fiume una costituzione repubblicana scritta dal leader del Sindacalismo Rivoluzionario Alceste de Ambris. Fiume, dopo la Prima Guerra Mondiale, essendo a maggioranza italiana, divenne territorio di contesa sull’onda dell’irredentismo italiano che aveva contribuito alle ragioni stesse dello scoppio della guerra. Alla fine del conflitto, la Conferenza di Parigi stabilì che Fiume non poteva essere Italiana, e a molti nazionalisti italiani questa decisione non piacque, perché contraddiceva uno dei principi della Conferenza stessa, quello della “Autodeterminazione dei Popoli”. D’Annunzio si fece portavoce di questa contraddizione e con i suoi legionari occupò Fiume.
Perchè questa vicenda ci porta ad Antonio Gramsci, dato che D’Annunzio e Gramsci militavano su fronti molto diversi?
D’Annunzio, borghese, di destra, nazionalista e successivamente vate del fascismo poco sembrerebbe avere in comune con Gramsci, operaista, di sinistra, internazionalista e fondatore successivamente del Partito Comunista d’Italia. Per capirlo dobbiamo partire da alcune considerazioni e dalla figura di Alceste de Ambris, colui che scrisse la Costituzione della Fiume italiana.
Gramsci non ha mai disprezzato ne la borghesia nel suo profondo ne l’Unità d’Italia, certo lui da sinistra pensava ad una società diversa da quella borghese e monarchica uscita dal processo dell’Unità d’Italia. Gramsci voleva più protagonismo per le classi subalterne soprattutto per i braccianti del sud che, a suo dire, erano stati traditi dal Risorgimento. Tuttavia Gramsci vedeva nella Borghesia una classe emancipata ed evoluta rispetto alla classe parassitaria dei nobili e vedeva nell’Unità d’Italia comunque un progetto di emancipazione e una opportunità anche per la classe operaia. Nell’impresa di Fiume Gramsci vede esplodere tutte le contraddizioni della monarchia, della borghesia dominante e del processo unitario. La quasi guerra civile che sembrava esserci tra d’Annunzio e il governo Italiano testimoniavano l’incompiutezza del processo risorgimentale, e la fragilità della classe dominante. D’Annunzio, dal canto suo, affidò la costituzione della Reggenza Italiana del Carnaro – così si chiamò la repubblica italiana di Fiume - ad un Repubblicano e fondatore del sindacalismo rivoluzionario, il socialista Alceste de Ambris. La Costituzione di de Ambris (nota come Carta del Carnaro) superava di molto lo statuto Albertino in termini rivoluzionari, termini cari anche ad Antonio Gramsci. Riporto qui due degli articoli più significativi, della carta del Carnaro, perché a ben vedere assomigliano molto alla nostra attuale Costituzione Repubblicana:
« Art. 2 - La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta, che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l'armonica convivenza degli elementi che la compongono. »
 
« Art. 5 - La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, l'istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l'assistenza in caso di malattia o d'involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l'uso dei beni legittimamente acquistati, l'inviolabilità del domicilio, l'habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere. »
Sembra la nostra costituzione, anzi essa si porta avanti, prevede addirittura il salario minimo garantito. Queste posizioni che evidentemente venivano dal repubblicano e socialista de Ambris colpirono l’attenzione di Gramsci. Gramsci sembra scorgerci le soluzioni ai problemi del processo unitario così come li aveva intravisti anche lui. Gramsci cercò di incontrare d’Annunzio, ma non fece in tempo (in realtà non lo sappiamo per certo), l’esperienza fiumana finì presto. D’Annunzio ritornò su posizioni di destra che lo portarono a sostenere Mussolini, Gramsci uscì dal Partito Socialista per andare verso posizioni più radicali e fondare il PCd’I . Sullo sfondo resta la figura poco nota di Alceste de Ambris. De Ambris fu antifascista, ma restò nel Partito Socialista Italiano, si trasferì a Parigi per scampare al fascismo, anche se Mussolini, che da giovane condivideva le stesse idee di de Ambris, cercò di portarlo nel partito fascista. In Francia de Ambris si adoperò per fondare la LIDU (Lega Italiana per i Diritti dell'Uomo) ma morì a soli 60 anni. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1964, alcuni Socialisti e Repubblicani con una sottoscrizione fecero tornare la salma in Italia – oggi sepolta a Parma – e sulla lapide hanno fatto scrivere: "Alceste de Ambris - scrittore-tribuno-combattente per la libertà e la giustizia. Licciana 1874 - Brive 1934".

Alessandro GHINASSI