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giovedì 12 dicembre 2013

Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte terza)

E' passato un po di tempo da quando ho pubblicato la seconda parte, vi chiedo scusa, proseguo ora la traduzione dell'articolo della Revue des deux mondes, del primo febbraio 1863: "Souvenirs de la Sardaigne" del Conte di Minerva.

Per chi non avesse letto i precedenti ecco i link ai precedenti:
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte prima);
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte seconda).


Ricordi dell'isola di Sardegna
del Conte di Minerva
(Parte Terza)
Questa campagna è la Nurra, che conserva ancora il suo soprannome primitivo di "terra dei pastori".
Prima di arrivare a Porto Conte, dovevamo scendere in questa vasta regione e attraversarla rapidamente. I nostri cavalli si sarebbero buttati al galoppo lungo un sentiero che fungeva da limite tra due alti splendidi pascoli (1). Non si sarebbero fermati che alla capanna situata sull'ultimo pendio della montagna, dove Gian-Gianu mi propose di entrare. Accettai l'offerta, certo che la sosta non sarebbe durata più di qualche istante.
La capanna era preceduta dall'"ovile"recinto riservato alle mandrie e formato da pali intrecciati con traverse. All'udire il rumore che annunciava il nostro arrivo, un giovane uomo coperto con una larga sopravveste in pelle d'agnello apparve sulla soglia. Dietro di lui arrivarono prontamente suo fratello e un vegliardo dall'aspetto fiero. Quest'ultimo mi strinse la mano così premurosamente, allo stesso tempo degno e cordiale, che ricordava veramente le età bibliche.
Venimmo invitati a passare un'ora in un "madao" o capanna dei pastori sardi. Entrammo.
L'abitazione, all'interno, era composta da un solo ambiente in cui il focolare, contornato da un cerchio di mattoni al centro del quale si elevava l'antico treppiede, occupava il centro. In quel momento nel focolare vi era acceso un gran fuoco e tanto fumo dentro la capanna, perché un foro obliquo praticato sul tetto offriva un'uscita di molto insufficiente al passaggio del fumo denso che riempiva il madao. I preparativi per la cena cominciarono sotto i nostri occhi: due spiedi reggevano l'uno due quarti d'agnello, l'altro le interiora dell'animale (uno dei cibi più ricercati della cucina sarda) furono esposti abilmente, dal padre e da uno dei figli, alla fiamma del focolare, mentre l'altro preparava la tavola.
Carlo Stefanoni, cui noi dovemmo questa rustica ospitalità, aveva quattro figli: possedeva quattrocento pecore e centoventi buoi. Egli era proprietario del "salto" di Dentolaccio e di due tancas su San-Govino.
Mentre ci dava questi dettagli i suoi ultimi figli, seguiti da due enormi cani, entrarono nella capanna e qualche istante dopo i due arrosti d'agnello fumavano tra un piatto di legumi ed uno di uova sode, sulla tavola di quercia, sulla quale erano state poste ancora, con una corbula piena di piccoli pani bianchi di forma bizzarra, una grande terrina contenente fianco a fianco delle salsicce e dei formaggi cagliati. Due vasi d'argilla somiglianti alle anfore antiche completavano il servizio, da una si poteva attingere dell'acqua fresca, dall'altra un vino denso, ma saporito.
La storia di questa onesta famiglia mi venne raccontata mentre facevamo onore all'arrosto d'agnello e alla cordula di interiora.
Il vegliardo si scusava, diceva lui, per non averci potuto ricevere come avrebbe voluto. Egli aveva perduto, ormai erano cinque anni, la sua povera figlia Maria: da allora lui diveva ricorrere alle figlie di Brangiu, il suo vicino, per impastare il pane e fare i formaggi; inoltre si attendeva di vedere uno dei suoi figli lasciare la famiglia prossimamente per andare a sposarsi. Tutte queste confidenze furono fatte senza amarezza.
Il pasto fu breve. Dopo l'espediente di Gian-Gianu, si sarebbe giunti a Porto-Conte in quattro ore, e sarebbe stato circa mezzogiorno. Nel giro di qualche istante prendemmo congedo dai nostri ospiti. Ad un segno del padre, due dei giovani pastori corsero in avanti e all'uscita del madao trovammo i nostri cavalli completamente sellati. Altri quattro cavalli erano pronti per i quattro fratelli che vollero scortarci fino ad un torrente vicino alla capanna. Tre ore dopo aver preso congedo da loro con una stretta di mano, così nobilmente ospitali, scoprimmo il mare immenso, d'un blu nerastro, tutto scintillante sotto il sole e coperto di piccole vele latine. Erano le barche dei pescatori di coralli sardi, toscani o anche napoletani, che in quel periodo dell'anno si davano appuntamento nel golfo deserto di Porto Conte e vi installavano per alcuni mesi la loro colonia errante. E' a Porto Conte, ci si ricordi, che dovevo incontrare il signor Feralli.
Nei pressi del golfo Gian-Gianu possedeva una piccola fattoria in cui sembrava impossibile entrare in altro modo che dalle finestre e qui egli ageva dato appuntamento all'armatore genovese.
Dovemmo arrampicarci per un pendio tra i più scoscesi, scendere una sorta di scala curva scavata nella roccia, impraticabile per dei cavalli diversi da quelli sardi, e ci trovammo all'ingresso di un cortile molto ingombrato e rustico. Ci trovavamo alla fattoria di Gian-Gianu e otto ore erano trascorse da quando avevamo lasciato Porto Torres.
Anche per oggi credo sia sufficiente, la prossima parte al più presto.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
Nota 1: I pascoli di pianura si chiamano "tancas", da una parola (senza dubbio celtica) che si ritrova presso i Pirenei e nella bassa Bretagna - tanca, chiudere.

mercoledì 11 dicembre 2013

Oltre il mare...

Mi ero sempre chiesto cosa ci fosse oltre, dietro la linea quasi invisibile che separava il mare dal cielo, l'orizzonte.
Quando ero piccolo andavo a pesca con mio padre sugli scogli di perd 'e pera, una piccola spiaggia vicino a Gairo, ormai cancellata dal mare.
Ci si alzava presto, alle cinque, e si usciva silenziosamente dalla tenda da campeggio, facendo attenzione a non svegliare i miei fratelli più piccoli. Era un percorso ad ostacoli, la tenda non era piccola ma vi abitavamo in sei e lo spazio era sfruttato al massimo.
Si trattava solo di venti giorni all'anno ma erano i migliori che potessi desiderare e me li godevo appieno, per quanto era nelle possibilità di un bambino di sette anni.
La cosa che più amavo era guardare il mare, mentre mio padre pescava.
Osservavo le onde, sentivo il rumore della risacca, guardavo le figure che le onde disegnavano sulla spiaggia, ma soprattutto pensavo a cosa ci fosse oltre, oltre quella linea d'orizzonte che sembrava disegnata con i pastelli, soprattutto al mattino, quando albeggiava.
Di solito arrivavamo sulla spiaggia al pomeriggio, montavamo la tenda dove trovavamo posto e poi si andava a fare la spesa per la settimana nel vicino paese. La sera il primo bagno e poi, sul tardi, dopo cena, mentre i grandi giocavano a carte e i miei fratelli correvano rumorosamente sulla spiaggia, io amavo sedermi a scrutare le onde al tramonto.
Che fine farà l'orizzonte la notte?
Mi chiedevo, senza realmente cercare una risposta.
Sapevo bene che lui era sempre li, nascosto alla vista dal buio che piano piano diventava sempre più nero.
Il mare mi affascinava ma allo stesso tempo mi faceva paura. Cercavo sempre di stare dove potevo vedere cosa avevo intorno. Solo una volta entrai in acqua col buio, per un bagno di mezzanotte con gli amici, ma l'impressione che mi fece fu tremenda. Non sopportavo di essere circondato da quel liquido nero, con i suoi riflessi iridescenti, al cui interno si nascondono i peggiori incubi del proprio inconscio. No, il mare non era per me, decisamente.
Crebbi e dimenticai, ad un certo punto, non so perché, smettemmo di andare al mare tutti gli anni. Forse la spiaggia era stata portata via da una mareggiata, forse non si poteva più campeggiare liberamente, forse eravamo semplicemente cresciuti e le abitudini erano cambiate, chi può dirlo, io non lo ricordo.
Dimenticai le ore passate a guardare l'orizzonte, dimenticai i disegni delle onde sulla spiaggia e i colori pastello del mare al tramonto, dimenticai quei momenti di assoluto silenzio e mi buttai a capofitto in una vita di affanni e di lavoro, in cui il tempo per pensare era sempre meno, in cui il tempo per osservare in silenzio era riempito dal frastuono dell'umanità!
Poi una sera, percorrendo una strada lungo il mare, dall'altra parte di quel mare che frequentavo da bambino, oltre l'orizzonte di quando ero piccolo, mi fermai lungo la spiaggia.
Senza pensarci guardai il mare, vidi ancora una volta l'orizzonte lontano, colorato di quei colori che avevo visto tante volte ma che ogni volta erano diversi, mi sedetti affascinato a scrutare il mare e mi tornò in mente la domanda che mi ero posto tante volte quando ero piccolo.
Cosa ci sarà oltre l'orizzonte?
Mi domandai, un'ultima volta...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 10 dicembre 2013

Un libro impossibile: Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio


Lewis Carroll (1832-1898) è l'autore di due romanzi impossibili, diciamo quasi stile Jorges Luis Borges, anche se il secondo venne dopo.
Matematico, letterato inglese e fotografo, scrisse i due romanzi per ragazzi secondo uno stile molto particolare.
Nel mondo di Alice, la protagonista di "sette anni e sei mesi" tutto è possibile e per "tutto" s'intende proprio tutto!
Ho letto questi racconto un po' in ritardo, direte voi, ve lo concedo.
Ma meglio tardi che mai.
Non c'è un tempo in cui si leggono cose serie e un tempo per le cose da ragazzi, c'è solo qualcosa che si fa e qualcosa che non si fa! Anche se tardi ho deciso di farlo.
Che dire dei racconti. Penso che dei bambini riescano ad apprezzare le peripezie e le stranezze dei personaggi di questo mondo fatato, ma anche gli adulti possono trovare modo di evadere dal mondo reale e credo che il successo delle due opere sia dovuto in gran parte a questo.
Credo però che per essere compreso fino in fondo occorra leggere il testo in lingua originale, dalle note si capisce che molti giochi di parole, nonostante l'abilità del traduttore (Pietro Citati, nell'edizione Einaudi da me letta) sarebbero comprensibili ad un madrelingua.
Ma se riusciamo ad accontentarci di vivere le avventure di Alice nella nostra lingua, facendo attenzione a non incappare nella terribile Regina di Cuori, e cercando di dimenticarci dell'età, potremo passare anche noi qualche minuto al giorno in un mondo impossibile in cui tutto è possibile.
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Turris Libissonis

Turris Libissonis... l'antico nome di una cittadina in provincia di Sassari, oggi conosciuta col nome di Porto Torres.
Città di mare, porto da sempre, nei primi anni del nuovo millennio aveva vissuto un periodo di crisi a causa della fallimentare politica industriale. Una serie di amministratori incompetenti a tutti i livelli aveva fatto sì che la cittadina si spopolasse.
Nel 2020 contava 15.051 abitanti, nel 2030 era scesa a 12.893.

Poi c'era stata la rinascita, Porto Torres si era ritrovata ad essere una cittadina turistica.
Col tempo aveva sostituito la più nota Alghero ed ora era diventata la meta preferita dei ricchi turisti "mordi e fuggi" di tutto il mondo.
Ma andiamo con ordine.

Tutto ebbe inizio per caso o, forse, per un bicchiere di troppo di quell'ottimo vino prodotto nella vicina cantina di Sella e Mosca, sulla strada per Alghero.
Ricordo ancora quella sera di cinquant'anni fa, eravamo cinque amici, stanchi e un po annoiati. Discutevamo della cena, maialetto arrosto e gamberoni accompagnati da antipasti, dolci e vini tipici del luogo. Serata indimenticabile!
Un goccio di filu ferru barricata, acquavite invecchiata in botte di rovere, aveva aggiunto un pizzico di allegria che non guasta mai, un po' di vitalità ad una serata che rischiava di spegnersi prima del tempo.
E così, tra una parola e l'altra era arrivata l'idea vincente.
In verità era stato Gavino, Gavì per gli amici, a convincerci, con la sua parlantina da istrione, appollaiato sulla sua sedia e con una conchiglia rovesciata a mo' di posacenere al fianco, era un tipo caratteristico, geniale, nel suo piccolo!
Gavì era un "ricco borghese", come amava definirsi lui. Aveva ereditato una piccola azienda agricola e passava le sue ore libere, dopo il tramonto e fino a tarda notte, a piantare alberi sul suo terreno, e noi lo aiutavamo senza capir bene il perché!
Preferiva olivi e querce, ma non si faceva problemi se gli capitava sotto mano qualche albero di frutta, qualche pino o un ontano del giappone (Alnus maximowiczii come teneva a precisare) finito chissà come in Sardegna!
Andava avanti così per mesi, ogni anno degli ultimi dieci anni, ed era già arrivato ad una miriade ma non accennava a smettere. Il terreno allora costava poco, anche a causa della crisi ormai cronica, per cui ogni anno alcuni ettari di terreno incolto si aggiungevano alle sue già cospicue proprietà.
Voleva ricreare un bosco... "un bosco incantato tra le montagne della Nurra"... diceva sempre lui! Come quello che ricopriva l'isola prima dell'arrivo dei Cartaginesi, popolo infido e crudele, che nel V° secolo a.C. aveva distrutto tutte le piante per togliere ai Sardi il sostentamento e la voglia di combatterli. O come era prima che lo sfruttamento dei piemontesi, nel 1800, per farne carbone, trasformasse nuovamente l'isola in una tavola brulla e polverosa.

Un bosco in cui muoversi

"a bordo della sua carrozza,
un metro al di sopra del fango dell'Umanità,
diretto alla sua baita solitaria",

amava canticchiare con voce sommessa, mentre lavorava al suo progetto. Un bosco in cui vivere lontano dal mondo, un bosco in cui passare le ore del suo ultimo tramonto.
Chi poteva dargli torto? Il suo era un progetto in cui credere e noi lo ascoltavamo, incantati, e ogni sera lo aiutavamo ad aggiungere dieci, cento nuovi alberi al suo sogno. Questo finché il lavoro non fu terminato!

Una sera Gavì ci aspettava intorno alla tavola imbandita della sua casa di campagna, in cima alla collina più alta della zona. Ci portò sulla terrazza e ci passò il binocolo che solitamente portava appeso attorno al collo.

- "Guardatevi attorno", disse con soddisfazione.

Il bosco si estendeva a perdita d'occhio, a nord fino il confini della città di Porto Torres, fino al mare azzurro chiaro che bagnava le coste della Nurra, fino ad Alghero ad est. Era un susseguirsi di chiome colorate di mille differenti tonalità di verde, giallo, castano. Alberi di tutte le forme e di tutte le dimensioni si stagliavano contro il cielo e ospitavano ormai una ricca fauna, non più costretta a condividere i pochi cespugli di lentisco.
Il lavoro di una vita era finito!
Dove un tempo c'era solo terra e roccia rossa ora c'era un bosco, con tanto di animali, laghi e fiumi, pesci e farfalle.
Un bosco, in un mondo di acciaio e cemento e reti di computer e sommergibili e armi nucleari e viaggi su Marte, ormai colonia della Terra. Dove le città avevano sommerso tutto, cancellato ogni forma di vita diversa da quella umana, dove gli oceani cedevano spazio alle nuove isole, enormi chiatte di spazzatura, poi riutilizzate per costruirci i nuovi quartieri popolari...

Turris Libissonis, Porto Torres per i più, era ormai l'ultimo angolo di natura.

Creato da un uomo, un piccolo uomo di nome Gavino, per chi come me l'aveva conosciuto. Gavino, come il santo protettore della Città.
Un grande benefattore per tutti coloro che ogni anno potevano godere di quel nuovo angolo di paradiso!
 

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 9 dicembre 2013

Jorge Luis Borges: Finzioni

Talvolta si inizia per caso la lettura di un libro, talaltra lo si fa guidati da un motivo, più o meno valido.
Così, questa settimana ho affrontato un autore di cui non avevo mai letto niente: Jorges Luis Borges (1899-1986).
Argentino di nascita, fu scrittore, poeta, saggista, traduttore, docente universitario e direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires.
Lo spunto per la lettura mi è arrivato da un fumetto, un numero di Martin Mystere in cui la storia era incentrata proprio sul nostro Borges.
Così dopo una breve ricerca nella biblioteca ho iniziato la lettura di Finzioni (La biblioteca di babele) nella edizione Einaudi del 1978.
Ma prima di andare avanti voglio riportare uno stralcio della quarta di copertina, da cui si può capire a cosa andavo incontro, avrei dovuto leggerla prima del libro!
             "Nel presentarli al pubblico italiano (i racconti) Pietro Citati scriveva: <<Devoto alla logica e alla simmetria, elegante geometra dell'intelligenza, le epoche che egli predilige sono tuttavia quelle più profondamente sofistiche, insieme razionalissime e bizzarre, matematiche e magiche, nelle quali la ragione distrugge se stessa nel momento che trionfa..."
Non che l'aver letto la quarta di copertina mi avrebbe impedito di leggere il libro, ma mi avrebbe messo sull'avviso!
Detto questo, vi chiederete cosa penso del libro.
Vi rispondo che non lo so!
Diciamo meglio, ancora non lo so!
E' la prima volta che mi imbatto in storie simili, e dire che di libri ne ho letti tanti, e di tutti i generi!
Eppure, in questi racconti c'è qualcosa di strano.
Il tempo, lo spazio, gli intrecci delle storie, sono particolari, difficili da seguire. Ogni racconto sembra scritto tenendo a riferimento l'idea del labirinto, della stanza degli specchi, del tempo avvolto su se stesso. Il risultato è che i racconti in alcuni tratti non sembrano dei racconti, in altri tratti appaiono invece essere troppo fantasiosi.
Vi chiederete se mi sia piaciuto, anche in questo caso la risposta è: non lo so!
Devo pensarci su e, forse, rileggerlo più avanti, come ho fatto con altri libri quando mi rendevo conto di non essere in grado di capirne il significato.
Ecco, probabilmente dovrò aspettare... anche se leggere "Pierre Menard, autore del Chisciotte", mi ha fatto sorridere!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 8 dicembre 2013

L'ultimo...

Il buio era sceso per le strade di Londra.
Erano appena le cinque ma la pallida luce del giorno era già scomparsa dietro un velo di fitta nebbia.
Il vicolo era buio e sporco, bidoni di immondezza offrivano riparo a grossi topi di città.
Sulla sinistra tre gradini davano l'accesso ad una vecchia casa diroccata, lì, accucciata in un angolo, s'intravvedeva la sagoma di un uomo, avvolto in una vecchia coperta di lana grossa.
Solo una scarpa sporgeva dalla vecchia coperta, tirata fin sopra i capelli, come a proteggere il volto dal freddo pungente.
In terra una scodella sbeccata di ferro smalto, con dentro poche monete, fungeva da chiaro invito a fare della beneficenza.
Il vicolo dava su una strada ricca di luci e vetrine.
La gente passava di continuo senza mai voltare lo sguardo verso quello che era un angolo buio dell'umanità!
Ricchi signori accompagnavano eleganti signore alla ricerca degli ultimi regali di Natale, abbigliati con pesanti cappotti, colorati cappellini e grossi guanti di pelle. Abbagliati dalle vetrine colorate, preparate per prendere in trappola ricchi avventori, i passanti passeggiavano velocemente, stimolati dal freddo.
La ricca opulenza della strada contrastava fortemente con il buio sporco del vicolo, ma così è Londra, come tutte le grandi città in cui l'umanità si concentra.
Ricchezza e povertà, due facce della stessa medaglia: l'Uomo!
Se qualcuno avesse potuto guardare sotto la coperta, avrebbe visto due occhi grandi, lucidi, azzurri come il ghiaccio, in fervida attesa.
Avrebbe potuto vedere un uomo forte, nervosamente pronto all'azione, ben diverso dall'apparente fragilità dell'accattone che attende un obolo che non arriva mai. Avrebbe potuto toccare il freddo coltello che teneva stretto nella mano destra, in attesa della propria vittima.
Se qualcuno avesse potuto penetrare nel suo cervello vigile avrebbe letto una serie di immagini terribili, che si ripetevano simili nella sua mente. Un passante si avvicina, tende la mano verso la ciotola per attenuare i suoi sensi di colpa particolarmente vivi a natale. Una lama fredda come il ghiaccio si avvicina al suo collo. L'obolo si trasforma in rapina! Il mendicante si allontana rapidamente. Voltato l'angolo buio si libera della coperta e si allontana lentamente stavolta, confuso tra la folla.
Era il suo modus operandi, e rendeva abbastanza.
Talvolta capitava che lo sventurato urlasse, allora doveva scappare velocemente, ma accadeva raramente, solitamente tutto filava liscio.
Quella sera aveva scelto attentamente il posto, era un vicolo con una doppia uscita, alcuni bidoni dell'immondezza che impedivano il passaggio alle auto e buio a sufficienza per realizzare il suo intento, occorreva solo attendere.
Una coppia passava proprio in quel momento. Lo guardarono di traverso, lui infilò la mano nella tasca alla ricerca di qualche moneta ma lei lo tirò via, bruscamente, con sospetto, quasi presentendo il risultato di quell'atto di generosità!
Due mocciosi attraversarono di corsa il vicolo, rincorrendo un cane che si fermò un attimo ad annusargli le caviglie. Lo allontanò con un calcio e si risistemò la coperta sul viso, ritornando al precedente stato di immobilità. In vigile attesa come un pescatore in riva al fiume, come un cacciatore alla posta.
L'attesa era la parte peggiore, il freddo era sempre intenso e non ci si poteva muovere, occorreva stare immobili, come facevano quelli veri, di accattoni.
I due ragazzi tornavano indietro col cane al guinzaglio, questa volta tenuto saldamente dalla mano del più piccolo. Per un attimo il cane si avvicinò nuovamente alla sua scarpa, ancora un istante e l'avrebbe colpito nuovamente, ma non fece in tempo. Il più grande dei ragazzi gli era già addosso e con un coltello affilato gli trapassava il cuore.
Fece appena in tempo a capire che la morte lo portava via. I suoi occhi azzurri si scioglievano in lacrime; il ragazzo lo guardò dritto negli occhi, senza alcun rimorso. Infilò la mano sinistra nelle sue tasche, prese portafogli e orologio quindi estrasse il coltello pulendolo su un lembo della vecchia coperta.
Un fiotto di sangue caldo sgorgò violentemente dalla ferita, ma i due ragazzi erano già lontani.
Un rantolo sordo fu l'ultima cosa che sentì...
quella notte di Natale, l'ultimo!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Natale 2013

L'anno giunge alla fine,
ancora una volta dicembre ci porterà il Natale.

Un Santo Natale,
dipinto di rosso e oro,
invade le strade e le vetrine,
portando allegria ai bimbi nel mondo.

Poi volgo lo sguardo
in un vicolo buio,
un povero vecchio allunga una mano,
chiede aiuto per un tozzo di pane.

Distolgo lo sguardo e mi allontano,
attratto dal rosso d'un babbo natale
che balla di fronte ad un supermercato.

Eppure il cuore rimane indietro,
in quel vicolo buio,
ad osservare, triste...

Torno sui miei passi,
mi avvicino a quel povero vecchio,
gli porgo la mano:
"Buon Natale, amico mio,
cosa posso fare per te?"

Le parole sono spontanee,
il vecchio mi osserva, cercando di capire,
allunga la mano e mi ringrazia,
lo aiuto ad alzarsi e proseguiamo assieme il cammino.

Ecco lo spirito giusto,
lo spirito del Natale che invade l'aria.
Lo spirito che colora di rosso e oro
i vicoli grigi delle nostre città
e quegli angoli ancora più oscuri
del nostro cuore...

Buon Natale a tutti!

Alessandro Giovanni Paolo Rugolo