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sabato 14 dicembre 2013

Il potere del silenzio, di Carlos Castaneda

Se non sono vent'anni che questo libro fa parte della mia biblioteca, poco ci manca!
Nel tempo ha cambiato posizione nella libraria e nelle varie case in cui ho abitato, assecondando le tendenze di lettura del momento. I giorni scorsi, durante il riordino della libreria, è riemerso ancora una volta e così, dopo averlo iniziato e abbandonato diverse volte, almeno tante quante "Il pendolo di Foucault", sono riuscito ad arrivare alla fine.
Comincio col dire che leggere "il potere del silenzio" è stata un'impresa non banale. Non avevo mai letto niente di Castaneda (1925-1998) e non ne conoscevo la storia. Antropologo peruviano naturalizzato USA, scrittore di successo, nagual ovvero stregone e maestro, se non ho capito male.
Avrei dovuto cominciare a leggere il primo suo libro (Gli insegnamenti di Don Juan, una via Yaqui alla Conoscenza), forse avrei capito prima in cosa mi ero imbattuto, ma a volte non si può scegliere, alcune cose succedono e basta.
Dopo un primo momento di stupore, in cui cercavo di capire tutto ciò che leggevo, procedendo quasi a marcia indietro nella lettura, ho cambiato approccio cercando di trovare delle somiglianze tra le esperienze descritte e la mia vita. Probabilmente Don Juan avrebbe detto "Stupido, devi separarti dal mondo reale", ma tutto sommato io ho trovato utile fare così.
Il libro racconta parte dell'esperienza dell'autore nel suo percorso verso la magia Yaqui (o verso una diversa forma di Conoscenza?), sotto la guida esperta dello stregone, il suo maestro, Don Juan.
Storie bizzarre si susseguono a momenti di riflessione sullo spirito e sulle tecniche per congiungersi con esso. Essenziale, in ogni caso, la presenza di un nagual!
Durante la lettura mi sono sentito diverse volte scoraggiato e pensavo di abbandonare ancora una volta, però alla fine mi sento soddisfatto e penso che acquisterò presto il primo libro della serie di dodici, per cercare di approfondire. Credo che sia interessante anche leggere la biografia di Castaneda per capire se alla fine, sia da considerare scrittore, antropologo o nagual, oppure, come probabilmente è, tutte e tre le cose assieme...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 13 dicembre 2013

Natura...

Che incredibile forza, la Natura!

Nascosta dietro l'apparente fragilità di una farfalla,
quanta forza creativa,
quanta bellezza in quelle forme simmetriche.

Mascherata dalla improbabile goffaggine di un panda,
dalla nuotata sinuosa di una manta,
quanta forza vitale in ogni essere vivente.

Nella sabbia del deserto o nelle profondità oceaniche,
nell'agitazione dei freddi venti polari,
nella pacatezza delle acque di una laguna,
nelle forme perfette di un atollo polinesiano
o nelle cime affilate dell'Everest,
quanta possenza in ogni Sua manifestazione.

Quanta violenza creatrice nel fuoco di un vulcano,
quanta forza distruttiva nel cadere di una valanga,
morte e rinascita, indissolubilmente legate tra loro.

Quanto tempo evolutivo
dietro la nascita di un microorganismo
o nella struttura del nostro codice genetico.
Migliaia, miliardi di anni di evoluzione
e di conoscenze ancora per noi incomprensibili.

Che maestosa rappresentazione di un Dio incommensurabile,
la Natura!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte quarta)

Proseguo la traduzione dell'articolo della Revue des deux mondes, del primo febbraio 1863: "Souvenirs de la Sardaigne" del Conte di Minerva.

Per chi non avesse letto i precedenti ecco i link ai precedenti:

- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte prima);
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte seconda).
- Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte terza).

Ricordi dell'isola di Sardegna
del Conte di Minerva
(Parte quarta)
 
Al momento del nostro arrivo, dei paesani della fattoria e alcuni pescatori facevano una frugale colazione all'ombra degli olivi. Dei cani da guardia arrivarono furiosi su di noi; si affrettarono a trattenerli. Il signor Feralli non era ancora alla fattoria, ma una elegante barca che avevamo appena intravvisto in direzione sud-ovest, verso la punta del giglio, sembrava essere la sua e si calcolava che non avrebbe tardato a toccar terra. In effetti ben presto si poterono distinguere due uomini e tre donne sotto la tenda che ricopriva la parte posteriore del bastimento. Gian-Gianu me li nominò. C'era il signor Feralli, la sua donna e la loro figlia Argenia; un amico del signor Feralli, zio di Gian-Gianu, lo zio Gambini, come lui lo chiamava, con sua figlia Efisia.
Quando la Feluca arrivò a non più di cento metri dalla riva buttarono giù le vele e i due uomini scesero su un canotto che li condusse sulla spiaggia, dove noi eravamo andati loro incontro.
Il signor Feralli a prima vista non aveva niente che colpisse. Il suo viso, osservato ugualmente con attenzione, non esprimeva altro che sincera bonomia, unita a una certa sagacità dovuta alla conoscenza umana e l'abitudine agli affari.
Il suo modo di essere era quello d'un ricco proprietario di campagna della Beauce o della Brie.
"Vi chiedo scusa signore", mi disse avvicinandosi velocementee tendendomi la mano. Avvisato troppo tardi, non ho potuto venirvi incontro fino a Porto Torres. Sono stato trattenuto ad Alghero per un affare urgente con il mio amico Gambini, e lui stesso è voluto venire a scusarsi di essere stato, in qualche modo, causa della mia mancanza di cortesia-
Mi girai verso il signor Gambini per salutarlo e la sua fisionomia (me lo lasciate dire?) mi diede una impressione poco favorevole.
Si poteva sentire una sorta di fierezza selvaggia mal contenuta. I suoi capelli, completamente ricci, erano un tutt'uno con la sua barba e nonostante la sua corporatura diritta e ben composta, la sua attitudine orgogliosa, i suoi gesti bruschi e nervosi, annunciavano un vigore praticamente giovanile.
Appresi più tardi che egli aveva quarantotto anni e che possedeva tutta una grande regione del Campidano, il monte Minerva. Discendeva dai conti dei quali questa montagna porta il nome e sembrava che lui personificasse tutte le loro passioni violente. Il Conte di Minerva, che chiameremo più familiarmente Gambini era, come Gian-Gianu, restato fedele al costume nazionale: aveva solamente sostituito il "collete" in pelle di cervo con un giustacuore di drappo nero e il berretto frigio con un grande cappello di feltro. Alla cintura, una specie di cartucciera a tubi allineati, era inserito un pugnale col manico d'ebano, incrostato di madreperla, sul quale era poggiata la sua mano, fine, secca e nera. Portava in bandoliera un bel fucile a due colpi.
Si era appena chinato, con gravità cerimoniosa, per rendermi il saluto quando si raddrizzò bruscamente mettendosi a correre verso la spiaggia. Un bambino che proveniva dalla fattoria con una galletta di mais in mano era alle prese con un enorme cane di montagna, il cane dello stesso Gambini, che aveva rotto la catena, lasciata la feluca e guadagnato la riva a seguito del suo padrone. Una volta a terra, il cane s'era gettato sul bambino e gli aveva strappato la galletta, non senza dilaniare una delle sue piccole povere mani. E' in quel momento che Gambini intervenne tra i due in lotta. Correre sul vincitore, che si accucciò terrorizzato, estrarre dalla sua gola schiumante la galletta per gettarla al bambino, lanciare quindi il cane in mare, quasi accoppato dai quattro o cinque pugni ricevuti, fu questione di qualche secondo; ma il cane non aveva intenzione di tornare sul vascello sul quale era stato recluso: si mise a nuotare in direzione d'una roccia vicino alla riva.
"Riccio! Riccio! gridava Gambini con voce allettante e rauca, correndo lungo la riva. Il cane nuotava ancora. Allora Gambini si fermò, afferrò velocemente il suo fucile e dopo un ultimo appello premette il grilletto. Il cane, colpito a morte, si rigirò su se stesso e cadde in acqua che presto divenne rossa del suo sangue. In quanto a Gambini, tornò verso di noi, e con tono calmo disse: "Scusatemi, questi cani sono così indisciplinati di natura."
Strano carattere, mi dissi tra me e me. In un momento di collera avrebbe potuto uccidere un uomo come ha ucciso il suo cane?
In acqua! in acqua! gridò tosto Gianu, che faceva avanzare il canotto. Noi vi discendemmo tutti assieme e qualche minuto dopo ci trovavamo a bordo della feluca. Il signor Feralli mi presentò alle signore. La moglie dell'armatore era genovese e la figlia lo era divenuta. L'una aveva ancora, l'altra aveva avuto, quel genere di bellezza esuberante propria delle donne genovesi. Il carattere saliente della loro fisionomia era una docile benevolenza. Entrambe erano vestite come le donne di ricchi commercianti di città. Il taglio dei loro abiti era improntato ai giornali di moda francesi e la cultura locale veniva rivelata nei loro abiti solo dal "pezzoto" di mussola che costituiva la loro cuffia. La signorina Gambini era una persona di tutt'altra originalità. Alta, svelta, con un viso d'un ovale affascinante e quasi infantile, aveva pertanto l'aspetto serio e quasi severo, una piccola bocca vermiglia con un filo di broncio, la fronte unita e leggermente stretta, occhi neri, calmi e profondi. Il suo costume era completamente diverso da quello del paese di Alghero: ricordava invece quella regione montagnosa e selvaggia dell'isola di Sardegna che si chiama campidano d'Oristano, il paese in cui era nata la madre e in cui lei stessa era stata cresciuta.
 
Ora però, chi è interessato dovrà attendere alla prossima puntata,
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


giovedì 12 dicembre 2013

Revue des deux mondes - Ricordi dell'isola di Sardegna (Parte terza)

E' passato un po di tempo da quando ho pubblicato la seconda parte, vi chiedo scusa, proseguo ora la traduzione dell'articolo della Revue des deux mondes, del primo febbraio 1863: "Souvenirs de la Sardaigne" del Conte di Minerva.

Per chi non avesse letto i precedenti ecco i link ai precedenti:
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte prima);
- Revue des deux mondes: Ricordi dell'Isola di Sardegna (Parte seconda).


Ricordi dell'isola di Sardegna
del Conte di Minerva
(Parte Terza)
Questa campagna è la Nurra, che conserva ancora il suo soprannome primitivo di "terra dei pastori".
Prima di arrivare a Porto Conte, dovevamo scendere in questa vasta regione e attraversarla rapidamente. I nostri cavalli si sarebbero buttati al galoppo lungo un sentiero che fungeva da limite tra due alti splendidi pascoli (1). Non si sarebbero fermati che alla capanna situata sull'ultimo pendio della montagna, dove Gian-Gianu mi propose di entrare. Accettai l'offerta, certo che la sosta non sarebbe durata più di qualche istante.
La capanna era preceduta dall'"ovile"recinto riservato alle mandrie e formato da pali intrecciati con traverse. All'udire il rumore che annunciava il nostro arrivo, un giovane uomo coperto con una larga sopravveste in pelle d'agnello apparve sulla soglia. Dietro di lui arrivarono prontamente suo fratello e un vegliardo dall'aspetto fiero. Quest'ultimo mi strinse la mano così premurosamente, allo stesso tempo degno e cordiale, che ricordava veramente le età bibliche.
Venimmo invitati a passare un'ora in un "madao" o capanna dei pastori sardi. Entrammo.
L'abitazione, all'interno, era composta da un solo ambiente in cui il focolare, contornato da un cerchio di mattoni al centro del quale si elevava l'antico treppiede, occupava il centro. In quel momento nel focolare vi era acceso un gran fuoco e tanto fumo dentro la capanna, perché un foro obliquo praticato sul tetto offriva un'uscita di molto insufficiente al passaggio del fumo denso che riempiva il madao. I preparativi per la cena cominciarono sotto i nostri occhi: due spiedi reggevano l'uno due quarti d'agnello, l'altro le interiora dell'animale (uno dei cibi più ricercati della cucina sarda) furono esposti abilmente, dal padre e da uno dei figli, alla fiamma del focolare, mentre l'altro preparava la tavola.
Carlo Stefanoni, cui noi dovemmo questa rustica ospitalità, aveva quattro figli: possedeva quattrocento pecore e centoventi buoi. Egli era proprietario del "salto" di Dentolaccio e di due tancas su San-Govino.
Mentre ci dava questi dettagli i suoi ultimi figli, seguiti da due enormi cani, entrarono nella capanna e qualche istante dopo i due arrosti d'agnello fumavano tra un piatto di legumi ed uno di uova sode, sulla tavola di quercia, sulla quale erano state poste ancora, con una corbula piena di piccoli pani bianchi di forma bizzarra, una grande terrina contenente fianco a fianco delle salsicce e dei formaggi cagliati. Due vasi d'argilla somiglianti alle anfore antiche completavano il servizio, da una si poteva attingere dell'acqua fresca, dall'altra un vino denso, ma saporito.
La storia di questa onesta famiglia mi venne raccontata mentre facevamo onore all'arrosto d'agnello e alla cordula di interiora.
Il vegliardo si scusava, diceva lui, per non averci potuto ricevere come avrebbe voluto. Egli aveva perduto, ormai erano cinque anni, la sua povera figlia Maria: da allora lui diveva ricorrere alle figlie di Brangiu, il suo vicino, per impastare il pane e fare i formaggi; inoltre si attendeva di vedere uno dei suoi figli lasciare la famiglia prossimamente per andare a sposarsi. Tutte queste confidenze furono fatte senza amarezza.
Il pasto fu breve. Dopo l'espediente di Gian-Gianu, si sarebbe giunti a Porto-Conte in quattro ore, e sarebbe stato circa mezzogiorno. Nel giro di qualche istante prendemmo congedo dai nostri ospiti. Ad un segno del padre, due dei giovani pastori corsero in avanti e all'uscita del madao trovammo i nostri cavalli completamente sellati. Altri quattro cavalli erano pronti per i quattro fratelli che vollero scortarci fino ad un torrente vicino alla capanna. Tre ore dopo aver preso congedo da loro con una stretta di mano, così nobilmente ospitali, scoprimmo il mare immenso, d'un blu nerastro, tutto scintillante sotto il sole e coperto di piccole vele latine. Erano le barche dei pescatori di coralli sardi, toscani o anche napoletani, che in quel periodo dell'anno si davano appuntamento nel golfo deserto di Porto Conte e vi installavano per alcuni mesi la loro colonia errante. E' a Porto Conte, ci si ricordi, che dovevo incontrare il signor Feralli.
Nei pressi del golfo Gian-Gianu possedeva una piccola fattoria in cui sembrava impossibile entrare in altro modo che dalle finestre e qui egli ageva dato appuntamento all'armatore genovese.
Dovemmo arrampicarci per un pendio tra i più scoscesi, scendere una sorta di scala curva scavata nella roccia, impraticabile per dei cavalli diversi da quelli sardi, e ci trovammo all'ingresso di un cortile molto ingombrato e rustico. Ci trovavamo alla fattoria di Gian-Gianu e otto ore erano trascorse da quando avevamo lasciato Porto Torres.
Anche per oggi credo sia sufficiente, la prossima parte al più presto.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
Nota 1: I pascoli di pianura si chiamano "tancas", da una parola (senza dubbio celtica) che si ritrova presso i Pirenei e nella bassa Bretagna - tanca, chiudere.

mercoledì 11 dicembre 2013

Oltre il mare...

Mi ero sempre chiesto cosa ci fosse oltre, dietro la linea quasi invisibile che separava il mare dal cielo, l'orizzonte.
Quando ero piccolo andavo a pesca con mio padre sugli scogli di perd 'e pera, una piccola spiaggia vicino a Gairo, ormai cancellata dal mare.
Ci si alzava presto, alle cinque, e si usciva silenziosamente dalla tenda da campeggio, facendo attenzione a non svegliare i miei fratelli più piccoli. Era un percorso ad ostacoli, la tenda non era piccola ma vi abitavamo in sei e lo spazio era sfruttato al massimo.
Si trattava solo di venti giorni all'anno ma erano i migliori che potessi desiderare e me li godevo appieno, per quanto era nelle possibilità di un bambino di sette anni.
La cosa che più amavo era guardare il mare, mentre mio padre pescava.
Osservavo le onde, sentivo il rumore della risacca, guardavo le figure che le onde disegnavano sulla spiaggia, ma soprattutto pensavo a cosa ci fosse oltre, oltre quella linea d'orizzonte che sembrava disegnata con i pastelli, soprattutto al mattino, quando albeggiava.
Di solito arrivavamo sulla spiaggia al pomeriggio, montavamo la tenda dove trovavamo posto e poi si andava a fare la spesa per la settimana nel vicino paese. La sera il primo bagno e poi, sul tardi, dopo cena, mentre i grandi giocavano a carte e i miei fratelli correvano rumorosamente sulla spiaggia, io amavo sedermi a scrutare le onde al tramonto.
Che fine farà l'orizzonte la notte?
Mi chiedevo, senza realmente cercare una risposta.
Sapevo bene che lui era sempre li, nascosto alla vista dal buio che piano piano diventava sempre più nero.
Il mare mi affascinava ma allo stesso tempo mi faceva paura. Cercavo sempre di stare dove potevo vedere cosa avevo intorno. Solo una volta entrai in acqua col buio, per un bagno di mezzanotte con gli amici, ma l'impressione che mi fece fu tremenda. Non sopportavo di essere circondato da quel liquido nero, con i suoi riflessi iridescenti, al cui interno si nascondono i peggiori incubi del proprio inconscio. No, il mare non era per me, decisamente.
Crebbi e dimenticai, ad un certo punto, non so perché, smettemmo di andare al mare tutti gli anni. Forse la spiaggia era stata portata via da una mareggiata, forse non si poteva più campeggiare liberamente, forse eravamo semplicemente cresciuti e le abitudini erano cambiate, chi può dirlo, io non lo ricordo.
Dimenticai le ore passate a guardare l'orizzonte, dimenticai i disegni delle onde sulla spiaggia e i colori pastello del mare al tramonto, dimenticai quei momenti di assoluto silenzio e mi buttai a capofitto in una vita di affanni e di lavoro, in cui il tempo per pensare era sempre meno, in cui il tempo per osservare in silenzio era riempito dal frastuono dell'umanità!
Poi una sera, percorrendo una strada lungo il mare, dall'altra parte di quel mare che frequentavo da bambino, oltre l'orizzonte di quando ero piccolo, mi fermai lungo la spiaggia.
Senza pensarci guardai il mare, vidi ancora una volta l'orizzonte lontano, colorato di quei colori che avevo visto tante volte ma che ogni volta erano diversi, mi sedetti affascinato a scrutare il mare e mi tornò in mente la domanda che mi ero posto tante volte quando ero piccolo.
Cosa ci sarà oltre l'orizzonte?
Mi domandai, un'ultima volta...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 10 dicembre 2013

Un libro impossibile: Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio


Lewis Carroll (1832-1898) è l'autore di due romanzi impossibili, diciamo quasi stile Jorges Luis Borges, anche se il secondo venne dopo.
Matematico, letterato inglese e fotografo, scrisse i due romanzi per ragazzi secondo uno stile molto particolare.
Nel mondo di Alice, la protagonista di "sette anni e sei mesi" tutto è possibile e per "tutto" s'intende proprio tutto!
Ho letto questi racconto un po' in ritardo, direte voi, ve lo concedo.
Ma meglio tardi che mai.
Non c'è un tempo in cui si leggono cose serie e un tempo per le cose da ragazzi, c'è solo qualcosa che si fa e qualcosa che non si fa! Anche se tardi ho deciso di farlo.
Che dire dei racconti. Penso che dei bambini riescano ad apprezzare le peripezie e le stranezze dei personaggi di questo mondo fatato, ma anche gli adulti possono trovare modo di evadere dal mondo reale e credo che il successo delle due opere sia dovuto in gran parte a questo.
Credo però che per essere compreso fino in fondo occorra leggere il testo in lingua originale, dalle note si capisce che molti giochi di parole, nonostante l'abilità del traduttore (Pietro Citati, nell'edizione Einaudi da me letta) sarebbero comprensibili ad un madrelingua.
Ma se riusciamo ad accontentarci di vivere le avventure di Alice nella nostra lingua, facendo attenzione a non incappare nella terribile Regina di Cuori, e cercando di dimenticarci dell'età, potremo passare anche noi qualche minuto al giorno in un mondo impossibile in cui tutto è possibile.
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Turris Libissonis

Turris Libissonis... l'antico nome di una cittadina in provincia di Sassari, oggi conosciuta col nome di Porto Torres.
Città di mare, porto da sempre, nei primi anni del nuovo millennio aveva vissuto un periodo di crisi a causa della fallimentare politica industriale. Una serie di amministratori incompetenti a tutti i livelli aveva fatto sì che la cittadina si spopolasse.
Nel 2020 contava 15.051 abitanti, nel 2030 era scesa a 12.893.

Poi c'era stata la rinascita, Porto Torres si era ritrovata ad essere una cittadina turistica.
Col tempo aveva sostituito la più nota Alghero ed ora era diventata la meta preferita dei ricchi turisti "mordi e fuggi" di tutto il mondo.
Ma andiamo con ordine.

Tutto ebbe inizio per caso o, forse, per un bicchiere di troppo di quell'ottimo vino prodotto nella vicina cantina di Sella e Mosca, sulla strada per Alghero.
Ricordo ancora quella sera di cinquant'anni fa, eravamo cinque amici, stanchi e un po annoiati. Discutevamo della cena, maialetto arrosto e gamberoni accompagnati da antipasti, dolci e vini tipici del luogo. Serata indimenticabile!
Un goccio di filu ferru barricata, acquavite invecchiata in botte di rovere, aveva aggiunto un pizzico di allegria che non guasta mai, un po' di vitalità ad una serata che rischiava di spegnersi prima del tempo.
E così, tra una parola e l'altra era arrivata l'idea vincente.
In verità era stato Gavino, Gavì per gli amici, a convincerci, con la sua parlantina da istrione, appollaiato sulla sua sedia e con una conchiglia rovesciata a mo' di posacenere al fianco, era un tipo caratteristico, geniale, nel suo piccolo!
Gavì era un "ricco borghese", come amava definirsi lui. Aveva ereditato una piccola azienda agricola e passava le sue ore libere, dopo il tramonto e fino a tarda notte, a piantare alberi sul suo terreno, e noi lo aiutavamo senza capir bene il perché!
Preferiva olivi e querce, ma non si faceva problemi se gli capitava sotto mano qualche albero di frutta, qualche pino o un ontano del giappone (Alnus maximowiczii come teneva a precisare) finito chissà come in Sardegna!
Andava avanti così per mesi, ogni anno degli ultimi dieci anni, ed era già arrivato ad una miriade ma non accennava a smettere. Il terreno allora costava poco, anche a causa della crisi ormai cronica, per cui ogni anno alcuni ettari di terreno incolto si aggiungevano alle sue già cospicue proprietà.
Voleva ricreare un bosco... "un bosco incantato tra le montagne della Nurra"... diceva sempre lui! Come quello che ricopriva l'isola prima dell'arrivo dei Cartaginesi, popolo infido e crudele, che nel V° secolo a.C. aveva distrutto tutte le piante per togliere ai Sardi il sostentamento e la voglia di combatterli. O come era prima che lo sfruttamento dei piemontesi, nel 1800, per farne carbone, trasformasse nuovamente l'isola in una tavola brulla e polverosa.

Un bosco in cui muoversi

"a bordo della sua carrozza,
un metro al di sopra del fango dell'Umanità,
diretto alla sua baita solitaria",

amava canticchiare con voce sommessa, mentre lavorava al suo progetto. Un bosco in cui vivere lontano dal mondo, un bosco in cui passare le ore del suo ultimo tramonto.
Chi poteva dargli torto? Il suo era un progetto in cui credere e noi lo ascoltavamo, incantati, e ogni sera lo aiutavamo ad aggiungere dieci, cento nuovi alberi al suo sogno. Questo finché il lavoro non fu terminato!

Una sera Gavì ci aspettava intorno alla tavola imbandita della sua casa di campagna, in cima alla collina più alta della zona. Ci portò sulla terrazza e ci passò il binocolo che solitamente portava appeso attorno al collo.

- "Guardatevi attorno", disse con soddisfazione.

Il bosco si estendeva a perdita d'occhio, a nord fino il confini della città di Porto Torres, fino al mare azzurro chiaro che bagnava le coste della Nurra, fino ad Alghero ad est. Era un susseguirsi di chiome colorate di mille differenti tonalità di verde, giallo, castano. Alberi di tutte le forme e di tutte le dimensioni si stagliavano contro il cielo e ospitavano ormai una ricca fauna, non più costretta a condividere i pochi cespugli di lentisco.
Il lavoro di una vita era finito!
Dove un tempo c'era solo terra e roccia rossa ora c'era un bosco, con tanto di animali, laghi e fiumi, pesci e farfalle.
Un bosco, in un mondo di acciaio e cemento e reti di computer e sommergibili e armi nucleari e viaggi su Marte, ormai colonia della Terra. Dove le città avevano sommerso tutto, cancellato ogni forma di vita diversa da quella umana, dove gli oceani cedevano spazio alle nuove isole, enormi chiatte di spazzatura, poi riutilizzate per costruirci i nuovi quartieri popolari...

Turris Libissonis, Porto Torres per i più, era ormai l'ultimo angolo di natura.

Creato da un uomo, un piccolo uomo di nome Gavino, per chi come me l'aveva conosciuto. Gavino, come il santo protettore della Città.
Un grande benefattore per tutti coloro che ogni anno potevano godere di quel nuovo angolo di paradiso!
 

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO