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mercoledì 9 aprile 2014

Il mondo nuovo e ritorno al mondo nuovo, di Aldous Huxley

Senza dubbio devo alla copertina con  l'immagine distorta da una sfera di cristallo l'interesse iniziale verso il libro di Huxley, ma subito dopo la curiosità, la lettura del testo ha preso il sopravvento...
Aldous Huxley nasce nel 1894 a Godalming, nel Surrey in Inghilterra e muore a Los Angeles nel 1963. 
Il mondo nuovo e ritorno al mondo nuovo sono due dei suoi romanzi, due capolavori definiti fantascientifici. Il primo pubblicato nel 1932, il secondo nel '58, descrivono un mondo molto particolare. Chi ha letto Fareneit 451 e 1984 (di Bradbury e Orwell) può capire cosa intendo.
Huxley descrive un mondo in cui la società fa di tutto per favorire il suo sviluppo armonioso e a questo scopo vengono poste in essere tutte le possibilità offerte dalla scienza, dalla riproduzione assistita in provetta al condizionamento alla Pavlov, attraverso l'uso di una droga, il soma, per controllare la volonta degli esseri viventi (definirli uomini sarebbe troppo). Una società divisa rigidamente in caste in cui tutto è predeterminato e il libero arbitrio sembra non avere spazio. Le stesse parole "padre", "madre", "parto", sono considerate fuori legge o comunque amorali in un mondo in cui tutto è concesso a patto che non vi siano differenze tra gli individui della stessa casta. Tutti uguali significa sicurezza!
Ma come la saggezza popolare insegna, non tutte le ciambelle vengono col buco, perciò, di tanto in tanto il fato fa si che alcuni di questi esseri nati in provetta e condizionati per agire secondo determinati modelli, deviino dalla regola e...
Il resto è da leggere.
Un libro interessante e avvincente, talvolta non troppo lontano da una possibile agghiacciante realtà alternativa!
Buona lettura...
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 6 aprile 2014

I custodi della storia - (Capitolo V) L'agenda

Era un mercoledì sera, intorno alle diciotto, quando un corriere espresso suonò al campanello del condominio in cui lavoravo.

Andai ad aprire, il ritiro della posta faceva parte dei miei compiti. Avevo la delega per il ritiro della corrispondenza di quasi tutti i condomini.

- C'è un pacco per Alessandro Ruvolo.

Mi disse il corriere porgendomi la penna per la firma senza neanche guardarmi in faccia.

- Forse intende dire Rugolo. Sono io

Risposi un po' stupito.

Non avevo ordinato niente e non era periodo di feste per ricevere il pacco regalo che i miei mi mandavano sempre per natale.

Firmai e mi assicurai che il corriere uscendo chiudesse il cancello.

Si trattava di un pacchetto confezionato artigianalmente con la vecchia carta per pacchi e legato con spago di pessima qualità.

Nessun mittente, solo un francobollo da due dollari con la scritta Guyana. Un bel francobollo con ritratto un dipinto di Velazquez e un timbro che non lasciava dubbi. Il pacco era stato spedito dalla città di Cayenne, nella Guyana francese.

Non conoscevo nessuno in quella parte del mondo. Chi poteva avermi spedito un pacco?

Dalla consistenza e dimensione doveva trattarsi di un libro. Lo scartai velocemente e il mio stupore fu grande quando mi resi conto che tra le mani stringevo l'agenda del mio ex professore di storia antica, Claudio.

Come era possibile? Lui era morto un mese prima nell'incidente aereo del volo Orlando – Milano. Da dove saltava fuori l'agenda? L'unico che avrebbe potuto spedirmela era proprio lui ma per quale motivo avrebbe dovuto farlo?

Ero curioso e le domande mi si affollavano nella testa.

- Alessandro, è arrivata posta per me?

Trasalii. La voce dell'avvocato mi colse totalmente di sorpresa e dovetti darlo a vedere.

- Scusa, non volevo spaventarti. Chiedevo se fosse arrivata della posta per me, oggi. Sto aspettando un plico urgente da Roma. Se dovesse arrivare puoi avvisarmi subito? Sono nel mio studio.

- No, mi spiace. Niente posta per lei avvocato. Se dovesse arrivare qualcosa entro le otto glielo porto io prima di andar via.

L'avvocato Giorgetti mi salutò con un sorriso e imboccò la strada delle scale. Nonostante il suo studio si trovasse al quarto piano e vi fosse l'ascensore preferiva salire a piedi, diceva che faceva parte della sua attività per allungare la vita.

Per evitare ulteriori problemi posai l'agenda del professore nel mio zaino e ripresi il mio lavoro al gabbiotto. A casa avrei avuto tutto il tempo per cercare di capire come mai il professore mi avesse mandato la sua agenda per posta e magari sarei riuscito a capire cosa fosse andato a fare nella Guyana francese!

Stavo per chiudere il gabbiotto della portineria quando suonò nuovamente il campanello. Si trattava di un fattorino che mi consegnò il plico per l'avvocato. Lo presi in consegna. Firmai e presi l'ascensore per il quarto piano. Bussai alla porta dell'avvocato. Mi aprì lui personalmente e mi invitò ad entrare. Rifiutai cercando di non essere scortese, l'avvocato era sempre stato molto premuroso nei miei confronti ma quella volta avevo fretta di tornare a casa.

Mi chiese se era tutto a posto, offrendomi il suo aiuto, se necessario. Mi chiese se ci fosse qualcosa che mi preoccupava, disse che sembravo un po' strano, quasi assente.

- Le chiedo scusa avvocato. In effetti oggi è successo qualcosa di strano ma non sono preoccupato, solo stupito.

- Vuoi raccontare anche a me cosa ti è successo? Mi chiese con benevolenza. Sin dalla prima volta che mi aveva conosciuto, quando mi ero presentato per avere il lavoro, era sempre stato con me quasi come se fosse stato un mio anziano parente. Gli dissi che il giorno dopo sarei passato da lui sul tardi, se non aveva impegni, e gli avrei raccontato tutto. Adesso era un po' tardi e dovevo passare all'università per ritirare un libro da alcuni amici. Era una scusa banale, me ne rendevo conto, ma non avevo proprio voglia di parlare. Forse il giorno dopo gli avrei raccontato qualcosa, o forse no. Avevo uno strano presentimento e preferivo evitare dell'agenda del mio professore.

Salutai e andai via.

Rientrai a casa in metropolitana. Da quando avevo lasciato la casa dello studente, due anni prima, abitavo in periferia in una zona di Milano ben servita dalla metro. Avevo trovato una mansarda piccola ma accogliente in una palazzina di tre piani che si affacciava in un piccolo parco. Anche per questo dovevo ringraziare l'avvocato. Mi aveva consigliato lui di lasciare la casa dello studente, diceva che era una cosa per ragazzini e io ero cresciuto ormai. Mi aveva fornito un elenco con i nomi di alcuni amici che affittavano appartamenti. Mi disse di andare a suo nome, mi avrebbero trattato bene.

In effetti così era stato. La mansardina mi piacque subito. L'arredamento era essenziale ma funzionale. C'era tutto quello che poteva servirmi. L'ambiente era caldo e accogliente e io avevo aggiunto all'arredamento quei segni distintivi della mia persona che mi portavo appresso sin da piccolo, i miei libri, alcune foto della famiglia e una vecchia maschera in legno tipica della cultura sarda, un mamuthone.

Nella stanza grande, con il letto in ferro da una piazza e mezza che occupava la parete interna si trovava anche una bella libreria e un piccolo scrittoio che usavo spesso per studiare e tra i due vi era un camino, che a Milano non era certo la norma, in cui spesso accendevo il fuoco. Un cucinino, il bagno e un ripostiglio a muro completavano il mio piccolo mondo di trenta metri quadri. Per ora andava più che bene. Il camino era stato decisivo. Non appena lo vidi presi la decisione, senza neanche visitare altri appartamenti.

Quella sera accesi il fuoco e mi preparai due salsicce alla brace per cena. Le fiamme rosse della legna avevano su di me uno strano potere rilassante. Aprii la finestra che dava sul parco, aveva smesso di piovere da poco e l'odore dell'erba bagnata era molto forte.

Mi sdraiai a letto e finalmente presi l'agenda dal mio zaino.

La girai alcune volte tra le mani quasi volessi assicurarmi che fosse reale poi slegai il cordoncino che la teneva chiusa. Era un'agenda artigianale, con la copertina in pelle rossa lavorata a rilievo. Vi era impresso il disegno di un uccello che assomigliava ad un pavone o ad un qualche altro uccello esotico dalle piume lunghe e vaporose, forse una leggendaria fenice. Aprii l'agenda e mi tuffai nella lettura.

Nella prima pagina vi era nome, cognome e numero di telefono del proprietario, ora non avevo più dubbi, l'agenda era appartenuta al mio ex professore.

Senza un particolare motivo la aprii verso le ultime pagine e cercai l'ultima pagina scritta. In alto a destra vi era la data del 15 marzo, quattro giorni prima dell'incidente aereo in cui era morto. Al centro della pagina solo poche parole scritte velocemente.

Alessandro, se dovesse accadermi qualcosa leggi queste ultime pagine e capirai. Decidi tu che fare. Ho fiducia in te. In bocca al lupo!”

Non sapevo più cosa pensare. Quella notte non andai a dormire.

La luce della camera restò accesa fino a tardi e mentre le fiamme del camino spandevano le loro ombre soffuse sulle pareti io leggevo quelle pagine piene zeppe di appunti, disegni e note.

Vai al Cap. VI: Dentro la piramide.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 3 aprile 2014

Gargantua e Pantagruele di Francois Rabelais

Francois Rabelais nasce in Francia, a Chinon, intorno al 1494, morì nel 1553.
Rabelais, intorno al 1520 diviene monaco. Conosce il greco e il latino e nel 1525, quando la Sorbona proibisce lo studio del greco per evitare che si possano leggere i testi sacri in greco e sollevare problemi, chiede di passare nell'ordine dei benedettini, dove avrebbe potuto continuare i suoi studi e le sue letture. In seguito studia medicina e esercita la professione di medico in diversi ospedali a Lione.
Nel 1542 pubblica "Gargantua e Pantagruele", il primo di cinque libri, l'ultimo dei quali esce postumo nel 1562.
I libri hanno successo ma sono condannati all'Indice dalla Sorbona che li giudica eretici.
I suoi libri non si possono certo considerare classici, nei testi infatti gli argomenti più trattati sono il seeso, le funzioni corporali, il cibo e il vino, conditi dalla inventiva dell'autore, in tutti i campi, ma anche dalla sua vastissima cultura.
Ma veniamo al testo e cominciamo da una avvertenza dell'autore.
Mai avvertenza fu tanto gradita dai suoi lettori e io la riporto integralmente:
 
"Lettori amici, voi che m'accostate,
Liberatevi d'ogni passione,
E leggendo, non vi scandalizzate,
Qui non si trova male ne infezione.
E' pur vero che poca perfezione
Apprenderete, se non sia per ridere:
Altra cosa non può il mio cuore esprimere
Vedendo il lutto che davoi promana:
Meglio è di risa che di pianti scrivere,
Chè rider soprattutto è cosa umana.
 
Ed in effetti la sua opera immensa e particolare, in tante occasioni, se non ridere, fa sorridere per i doppi sensi, ma non è per tutti e non sempre è facile comprendere tutto il testo se non si è dotati di un grosso bagaglio culturale di tipo classico e linguistico. Nel prologo l'autore chiarisce il punto con un paragone tra i Sileni e la sua opera. I Sileni erano dei piccoli contenitori usati nelle farmacie per custodire medicinali e spezie. Contenitori sui quali erano spesso raffigurate immabini buffe e fantastiche. I Sileni erano preziosi, dunque, per il loro contenuto nascosto, non per l'apparenza. Così secondo l'autore, a ben guardare, la sua opera è più preziosa di quanto può apparire ad una prima lettura. Rabelais nei suoi cinque libri fa sorridere ma allo stesso tempo insegna, a chi è in grado di capire, usando la difficile arte dei simboli.
Così, attraverso i suoi strani personaggi: Gargantua, Pantagruele suo figlio, Panurge e frà Giovanni, Rabelais esplora il mondo fantastico o reale che sia, muovendosi non solo nello spazio della fantasia ma anche nel tempo e delle lingue.
Ogni capitolo è intriso di conoscenze antiche e moderne (per i tempi), di inventiva e linguistica, di saggezza popolare e filosofia, di misteri delle religioni del mondo reale e di ridicoli personaggi o personaggi ridicolizzati dall'autore.
 
Un libro enorme e complesso che però, a mio parere, non può mancare nella biblioteca personale.
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 1 aprile 2014

Goggius e muttettus a Gesico - (Canti popolari)

Tempo fa avevo cominciato a raccogliere canti della tradizione popolare del mio paese, Gesico.

Alcuni li potete leggere nel primo articolo sull'argomento: Gesico - Is Muttettus (Canti popolari della Sardegna).

Eccovene di seguito qualche altro, raccolto da mia madre Nanda proprio in questi giorni, grazie alla memoria sempre pronta di zia Nina.

Si tratta di alcuni muttetti che avevano come argomento le giovani del paese di Gesico descritte in modo talvolta ironico per metterne in risalto alcune caratteristiche.
Ma bando alle ciance, eccovi i primi muttetti, seguiti dalla loro traduzione, in attesa che zia Nina ne riporti altri alla memoria:

Aventina Schirru,
bella e curiosa,furba e spiritosa,
de su ballu sardu esti una regina,ancora non esti sposa
e pagu ad'atturai.
Trad:
Aventina Schirru,
bella e curiosa, furba e spiritosa,
del ballo sardo è una regina,
ancora non è promessa sposa, ma poco ci vorrà.

Livia Bernardini,
dipendidi de un ramu fini
e a cunvinci a chini d'ada acquistai.
Trad:
Livia Bernardini,
appartiene ad una famiglia nobile
ancora si deve presentare colui che la chiederà in sposa.

Iolanda Schirru
bogada un modellu,
unu frori bellu non d'ada mancai.
Trad:
Iolanda Schirru
indossa un modello,
un fiore bello non le mancherà.

Sebastiana Contu
aspettada sa primavera e
paridi una passionera pronta a sbocciai.

Trad:
Sebastiana Contu
attende la primavera
e sembra un fiore di passiflora pronto a sbocciare

Teresina beccia
Teresina beccia, innui sesi,
t'appu sciccau
ma su 'entu ti nd'adi pigau
e in s'arru t'appu agattau.
Trad:
Vecchia Teresina
Vecchia Teresina, dove sei,
ti ho cercata
ma il vento ti ha portato via,
e nei rovi ti ho ritrovata.
Così vi lascio, in attesa che zia Nina ricordi qualche altro brano della vita passata del mio paese, Gesico.
Grazie mamma, grazie zia Nina, per questi ricordi.
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO e Fernanda DEMURO

lunedì 31 marzo 2014

I custodi della storia (Cap. IV) - Terra!


Era stata una giornata pesante.

Dopo lo sbarco era immediatamente iniziato un lavoro febbrile tra la nave e il campo a terra. Tutti si muovevano su e giù dalla nave scaricando barili, attrezzatura e materiale da costruzione, cordame, vele, reti da pesca, strumenti di misura e da disegno.

I carpentieri si misero subito all'opera per ispezionare la nave e riparare i danni della lunga navigazione. Altri iniziarono a riparare le vele e controllare il cordame del vascello.

Ma il grosso del lavoro era a terra.

Era necessario preparare un campo prima di dare inizio alla esplorazione della nuova terra, bisognava raccogliere tutte le informazioni possibili sulle caratteristiche del territorio, sulle risorse disponibili e sulla presenza di indigeni.

Il campo era situato ad alcune centinaia di metri dalla linea di costa in cui eravamo sbarcati. Il luogo era ben protetto dai venti e si trovava a circa dieci metri sul livello del mare, al sicuro dall'alta marea e allo stesso tempo sufficientemente lontano dalla foresta che si estendeva a perdita d'occhio lungo tutta la costa.

La prima notte qualcuno aveva notato dei fuochi sulla cima della collina, a qualche miglio di distanza dal campo e la voce si era diffusa velocemente tra gli uomini, forse non era niente ma era meglio assicurarsene. Occorreva verificare che sull'isola non si trovassero indigeni ostili prima di potersi dedicare alla raccolta delle provviste che avrebbero consentito di proseguire l'esplorazione della nuova terra.

Inoltre occorreva risolvere immediatamente il problema dell'acqua, le riserve custodite a bordo erano quasi finite. Era necessario trovare una sorgente al più presto.

Il Capitano Vivaldi organizzò accuratamente l'esplorazione dell'isola dividendo il personale in tre gruppi.

Il primo e più numeroso sarebbe restato al campo base con l'incarico di costruire una palizzata difensiva contro la visita di animali o di ospiti non desiderati e di provvedere alla ricerca dell'acqua e alla raccolta di provviste.

Il materiale da costruzione non mancava di certo e i carpentieri erano degli esperti nel tagliare e lavorare il legno. Nel giro di mezza giornata con l'aiuto di una squadra di mozzi avevano tagliato gli alberi necessari a costruire il recinto e le capanne per gli uomini. La sera il recinto era quasi terminato e un riparo provvisorio fu innalzato per la notte. A poca distanza dal campo fu trovato un ruscello dall'acqua era fresca e pulita.

Gli altri due gruppi esplorarono la costa fino ad una distanza di tre ore dal campo e rientrarono al campo prima prima che tramontasse il sole senza aver trovato tracce di vita umana. In compenso avevano catturato diversi esemplari di una razza tipica di maiali del luogo. Dopo mesi di navigazione un po' di carne avrebbe fatto bene al loro fisico debilitato.



Le esplorazioni sarebbero proseguite nei giorni seguenti ma non diedero alcun risultato di rilievo. Nessuna traccia di villaggi indigeni o della presenza dell'uomo.

Il terzo giorno una squadra raggiunse la collina sulla quale la sera dell'arrivo erano state viste delle luci ma questa volta le cose erano diverse.

Di fronte alla squadra di esploratori si ergeva una antica costruzione in pietra. Segno indiscutibile della presenza umana.

Era una specie di piramide in pietra abbandonata da secoli.

Frate Nicola in quei primi giorni si era dedicato a prendere appunti e a disegnare mappe. Aveva tenuto traccia nel suo diario degli avvenimenti principali durante la navigazione e della posizione delle stelle per cercare di calcolare la rotta tenuta e la distanza percorsa. Le sue osservazioni sarebbero state utili al suo rientro ed erano quanto di più prezioso possedesse. Quando la squadra tornò con la notizia del ritrovamento di una strana costruzione a forma di piramide fra' Nicola decise che il giorno dopo sarebbe andato anche lui sul posto per raccogliere informazioni. Forse i suoi studi questa volta potevano risultare utili. Durante gli ultimi anni aveva passato molto tempo a lavorare per arricchire la biblioteca dell'Ordine e sempre sotto la guida di Giovanni aveva letto molti libri di storia. Classici latini e greci.

La mattina dopo il drappello partì dal campo di buon ora. Frà Nicola seguiva il nostromo che aveva il compito di guidare la spedizione. Durante il viaggio che durò appena quattro ore e non presentò alcuna difficoltà si fermò diverse volte ad osservare la flora e la fauna e a prendere appunti. Vi erano piante simili a quelle europee ma quasi sempre erano di dimensioni differenti, molto più grandi e rigogliose. Fratello Giovanni sarebbe stato molto utile in quel momento. Lui aveva avuto una grande conoscenza dei frutti della terra. Raccolse alcune piante che potevano essere utili per le loro capacità curative e altre che invece destavano il suo interesse per le forme particolari e i colori sgargianti. Arrivati alla piramide il nostromo Vadino Doria diede disposizioni per preparare un campo temporaneo. Avrebbero passato alcune notti nei pressi della piramide per esplorare la zona con calma ma occorreva come al solito premunirsi dagli animali e da eventuali visite inaspettate. Il lavoro iniziò subito e tutti si diedero da fare. Fu approntato un rifugio temporaneo utilizzando i resti in pietra di quella che sembrava una capanna abbandonata da tempo e che avrebbe dato riparo ai dieci uomini del gruppo. Acceso il fuoco, i marinai si sedettero a mangiare del pesce salato e dei tuberi allungati che crescevano in parte sotto terra e che dopo cotti avevano un buon sapore anche se un po dolciastro. C'era acqua in abbondanza e se non fosse stato per la distanza dal mare che avrebbe impedito di sorvegliare la nave, sarebbe stato un ottimo posto per il campo permanente. Nel frattempo frate Nicola e Vadino e due mozzi armati di grossi coltelli cominciarono ad esplorare i dintorni della piramide. Era una struttura antica, abbandonata forse da secoli. In mezzo alle grosse pietre erano cresciute delle piante alte anche venti metri e che, a giudicare dalla dimensione del tronco dovevano avere almeno cento anni. La piramide era costruita a scaloni. Il primo era alto almeno due metri e le rocce utilizzate erano enormi. I quattro uomini si arrampicarono sul primo livello e fecero tutto il giro della piramide a forma perfettamente quadrata. Ogni lato doveva essere lungo circa cento metri. La piramide presentava una grossa apertura solo su un lato che dava verso est. Purtroppo l'ingresso era crollato da tempo ed era impossibile rimuovere le rocce che ne ostruivano il passaggio. Nel mezzo di ogni lato si trovavano delle scalinate che da terra portavano fino alla cima. Dal basso non le avevano notate a causa della vegetazione ma ora era facile individuarle. Decisero di salire in cima alla piramide per vedere se era possibile accedere alla struttura. La piramide era alta circa cinquanta metri ed era composta da diversi livelli, sembravano cinque grosse piattaforme impilate l'una sull'altra e in cima, al centro dell'ultima piattaforma, vi era una grossa roccia piatta scolpita, una specie di altare, pensò subito frate Nicola. Purtroppo da lassù non era possibile entrare all'interno della costruzione. Avrebbero dovuto esplorare tutte le pareti con calma per cercare un qualche accesso secondario.

Il tramonto si avvicinava quando uno dei mozzi lanciò un urlo per richiamare l'attenzione del nostromo. Aveva trovato qualcosa. Una specie di stretto cunicolo si apriva a metà della parete ovest e sembrava penetrare all'interno della piramide per alcuni metri prima che il buio impedisse di vedere oltre.

- Solo un ragazzo o un uomo molto magro potrebbe pensare di entrare ad aesplorare quel cunicolo e di riuscire a uscirne vivo. Disse il nostromo rivolgendosi a frate Nicola sconsolato.

- Pensavo che forse uno dei giovani carpentieri forse potrebbe farcela. Mi sembra si chiami Andrea, ma è restato al campo base. Potremmo mandarlo a chiamare e se tutto va bene domani in tarda mattinata potremmo averlo qui da noi. Cosa ne pensate Vadino? Rispose frate Nicola, senza troppa convinzione.

- Vale la pena di provare. Chiamati due dei suoi uomini gli diede disposizioni affinchè rientrassero al campo e riferissero al Capitano le scoperte e le loro esigenze. Sarebbero dovuti tornare la mattina dopo con il carpentiere che si chiamava Andrea.

I due uomini partirono subito. Andando di buon passo con un po' di fortuna sarebbero arrivati al tramonto.

Non sarebbe stato semplice entrare nella piramide e la luce cominciava a calare. Avrebbero ripreso l'esplorazione il giorno dopo con calma, sperando di trovare qualche altro passaggio più praticabile. Intanto gli altri uomini avevano terminato di appontare il riparo e avevano preso alcuni esemplari di grossi animali che assomigliavano a grossi conigli selvatici e che avrebbero fatto da cena per quella sera.

Mangiarono con gusto e poi andarono tutti a dormire. Dell'erba gettata in terra avrebbe fatto da giaciglio e una vecchia coperta di lana li avrebbe protetti dal freddo della notte. Il fuoco ardeva al centro della capanna e alcuni rami freschi sarebbero serviti a chiudere l'ingresso di quell'improvvisato rifugio. La stanchezza era tanta e tutti si addormentarono pesantemente.

Frate Nicola e il nostromo si sedettero vicino al fuoco e passarono una mezz'ora a chiacchierare del loro viaggio. Vadino Doria era poco più grande di frate Nicola. Doveva avere trentacinque o trentasei anni. Apparteneva ad una importante e famosa famiglia genovese che vantava molti avi nella marina e nel commercio. Da piccolo aveva sempre avuto come esempio da seguire uno zio materno che era un Capitano della marina genovese. Sin da piccolo aveva viaggiato con lo zio attraversando il mediterraneo in lungo e in largo. Nonostante la sua giovane età conosceva i venti e le stelle meglio della propria città e se qualcuno poteva guidarli attraverso l'oceano quello era proprio lui. E così era stato! Ora dava dimostrazione di essere anche un buon comandante, tranquillo ma deciso e autorevole, gli uomini lo rispettavano anche più del Capitano. Il Capitano era temuto, Vadino invece era amato e rispettato. Si erano appena sdraiati ai piedi del fuoco quando sentirono un fruscio subito fuori dall'accampamento li fece alzare di colpo. Vadino afferrò la sua sciabola e frate Nicola raccolse un grosso bastone da terra. Era meglio controllare che non si trattasse di qualche animale pericoloso. Svegliarono gli uomini dell'accampamento e armati di torce uscirono a controllare. Mentre rimuovevano i rami che chiudevano l'ingresso un ruggito li mise in allarme. Doveva essere un leone o un animale simile. Il buio non permetteva di vedere che a pochi passi e non era il caso di allontanarsi dal campo. Accesero altri fuochi nei dintorni e tornarono dentro l'accampamento, rinforzando il tetto e l'ingresso con alcuni tronchi raccolti la davanti.

- Sarà meglio se qualcuno resta di guardia questa notte– disse Vadino rivolgendosi ai suoi uomini – turni da due ore. Il primo turno è il tuo Giovanni. Disse Vadino ad uno dei suoi che sembrava più riposato.

- Io gli faccio compagnia – disse frate Nicola –tanto non ho più sonno.

Stabiliti i turni di guardia gli altri tornarono a dormire. La notte era ancora lunga e il giorno dopo avrebbero dovuto proseguire la loro esplorazione e dovevano riposare, per quanto possibile.

La notte proseguì senza altri problemi. Il grosso animale si era fatto sentire qualche altra volta ma sempre più in lontananza. Evidentemente il fuoco ed i rumori lo avevano spaventato. Il resto della notte passò tranquilla e gli uomini poterono finalmente riposare.

Vai al Cap. V: L'agenda
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 23 marzo 2014

I custodi della storia (Cap. III) - Un'occasione mancata

In quei primi anni di studio mi ero appassionato sempre più alla storia antica. Avevo seguito il corso che più mi si attagliava, l'archeologia e la storia degli antichi popoli mediorientali era il nucleo centrale del mio corso di studi ma mi ero interessato anche delle culture primitive centroamericane senza perdere occasione di approfondire la storia della mia isola nei ritagli di tempo sfruttando le enormi risorse della biblioteca.
La biblioteca era quasi la mia seconda casa, almeno per numero di ore passate al suo interno. Era enorme, custodiva decine di migliaia di libri la cui consultazione era abbastanza semplice per gli studenti. Divenni quasi subito buon amico dei bibliotecari e spesso mi lasciavo guidare da loro nella scelta dei libri su cui approfondire i miei studi.
Uno di loro si chiamava Andrea, aveva una decina d'anni più di me e lavorava li da quando si era laureato. Alto, biondo, colorito pallido, sembrava provenire dal nord Europa, invece era siciliano, di un paese in provincia di Enna che si chiama Nicosia. Era nato per fare il bibliotecario, diceva sempre, e lo faceva con passione. Fu proprio Andrea ad introdurmi nel mondo della biblioteca. Mi spiegò i vari metodi di classificazione dei libri, come trovare velocemente ciò che mi serviva consultando gli indici per titolo ed autore, mi illustrò la disposizione dei libri sugli scaffali. Tutte cose di comune utilità per un bibliotecario, ma non solo. Andrea era innamorato dei libri, erano tutta la sua vita, sin da bambino per cui mi raccontava la storia dei libri a stampa o i metodi di rilegazione come ai bimbi si raccontano le fiabe. Le sue conoscenze erano veramente enormi e quando si aveva bisogno di sapere qualcosa su una particolare edizione di un certo libro bastava chiedere a lui e raramente la richiesta non veniva soddisfatta! Fu lui che mi suggerì di studiare i testi antichi possibilmente nella lingua in cui erano stati scritti in origine. Diceva infatti che ogni traduzione mascherava il testo originale non solo con una lingua diversa ma anche con la cultura di chi lo traduceva e del periodo in cui ciò veniva fatto.
Così, per migliorare le mie conoscenze linguistiche frequentai dei corsi paralleli di lingua greca antica e di ebraico senza trascurare le lingue moderne, inglese e francese, che mi sarebbero state utili per seguire i colleghi studiosi degli altri paesi.
Mi laureai con una tesi sulla storia antica dei Caldei e mi iscrissi immediatamente al Dottorato di ricerca. Il mio professore, Claudio, divenne il mio mentore e quasi il fratello maggiore che non avevo mai avuto.
Claudio era basso di statura, leggermente sovrappeso e con i capelli grigi. Indossava sempre un paio di occhiali a fondo di bottiglia che lo facevano assomigliare ad un vecchio topo di biblioteca. Sotto il braccio destro portava sempre un vecchio tomo dalla copertina rossa, solo più tardi scoprii trattarsi della sua agenda personale di cui era estremamente geloso e su cui prendeva appunti sulle novità e scoperte della storia che più lo incuriosivano. La sua vita sociale era inesistente, a meno che non si voglia considerare tale la sua frequentazione della biblioteca dell'istituto. Non era sposato e raramente si allontanava per andare a trovare l'anziano padre che viveva solo a Pavia. Passammo assieme un fine settimana a Pavia, durante il quale approfittai per visitare la Certosa.
Claudio era un grande studioso, intelligente, paziente, con l'animo del ricercatore e una enorme passione per l'insegnamento, cosa non comune neanche tra gli insegnanti migliori. Anche da professore infatti non si tirava mai indietro e conduceva le sue ricerche in prima persona facendosi sempre promotore di nuove iniziative culturali. Era difficile non innamorarsi della storia antica con un professore come lui e infatti il suo corso era sempre il più seguito.
Solitamente il sabato pomeriggio ci si incontrava nella biblioteca e scelto un volume antico tra le migliaia di titoli disponibili, i partecipanti si alternavano nella sua lettura ad alta voce e poi si discuteva ciò che si era letto. Poteva sembrare una attività da scuola superiore ma così non era, in questo modo noi studenti approfondivamo la conoscenza delle lingue antiche e degli autori classici e allo stesso tempo imparavamo a conoscerci meglio.
La vita da dottorando proseguiva tranquilla tra studi, lezioni e lavoro da portinaio. Non mi potevo certo lamentare anche se quando avevo lasciato la mia terra aspiravo a qualcosa di più.
Poi, un giorno, Claudio mi chiamò per telefono annunciandomi di aver fatto una scoperta che avrebbe cambiato non solo la sua vita ma – disse – il mondo intero. Disse che avrebbe avuto bisogno di qualcuno che gli desse una mano perché ci sarebbe stato molto lavoro da fare e voleva che quello fossi io, mi chiese di diventare suo assistente. Io non riuscivo a crederci, ma accettai immediatamente.
- Certo Claudio, sai che puoi contare su di me. Ma cosa dovrò fare? Di cosa mi dovrò occupare?
- Alessandro, ne parliamo al mio rientro a Milano. Ora ho fretta e non posso stare al telefono. Puoi venire a prendermi all'aeroporto?
- Certamente, a domani sera Professore. Mi capitava spesso di chiamarlo ancora professore nonostante ci conoscessimo da diversi anni e fossimo ora buoni amici.
Mi avrebbe raccontato tutto al suo rientro a Milano, sarei dovuto andare a prenderlo il giorno dopo, a Malpensa alle 22.00, scalo internazionale.
Claudio negli ultimi due anni si era assentato diverse volte per lavoro, stava svolgendo alcune ricerche nel sud America ma non mi aveva mai parlato di questi suoi studi. Quando facevo qualche domanda rispondeva sempre evasivamente e dopo un po' avevo pensato che fosse meglio non fare domande sull'argomento. Ma ora cambiava tutto. Se aveva bisogno di un assistente avrebbe dovuto spiegarmi di cosa si stava occupando e del perché di tanta segretezza.
Passai la serata in compagnia di alcuni amici nel pub irlandese che si trovava vicino a casa cercando di non pensare troppo al futuro. Diventare assistente di Claudio mi inorgogliva ma allo stesso tempo significava che avrei dovuto lasciare il mio lavoro da portiere. La cosa mi dispiaceva in fondo. Il lavoro non era pesante, mi piaceva e mi piacevano soprattutto i condomini. Col tempo avevo imparato a conoscerli bene. Oltre l'avvocato vi erano altre undici famiglie che mi avevano quasi adottato. Mi sentivo un po' in colpa, ma non potevo rinunciare all'opportunità di diventare assistente di Claudio. Magari avrei potuto cercare un ragazzo del primo anno che avesse bisogno di lavorare e presentarlo all'avvocato. Poi sarebbe stato lui a decidere.
Quella notte andai a letto tardi, non riuscivo a prendere sonno e così passai alcune ore leggendo un libro.
Il giorno dopo come al solito andai all'università. Il tempo sembrava non passare mai.
Quella sera come al solito pioveva.
Si trattava di una pioggerellina sottile e fastidiosa e il vento pungente proveniente dalle Alpi si sentiva nelle ossa, la nebbia fitta inoltre rendeva le strade della periferia milanese molto pericolose.
Decisi di uscire di casa con largo anticipo e arrivai all'aeroporto mezz'ora prima del previsto atterraggio. Fortunatamente trovai parcheggio proprio di fronte agli arrivi internazionali così evitai di bagnarmi troppo. Trovai un posto libero nella grande sala antistante gli arrivi e nell'attesa lessi qualche pagina della biografia di Isaac Newton. Un bel libro, ma la mente non faceva altro che pensare alle parole del professore e poi il freddo della sera non mi lasciava un attimo.
Lasciai perdere la lettura e cominciai a guardarmi attorno alla ricerca di un bar. Mi alzai e decisi di attendere l'arrivo del volo gustando una tazza di cioccolata calda e cercando di trovare le risposte alle tante domande che mi passavano per la mente.
Ero curioso di sapere a cosa andavo incontro. Per telefono il professore era stato evasivo, ma dalla sua voce intuivo che doveva trattarsi di qualcosa di straordinario. Non l'avevo mai sentito così entusiasta come la sera prima, al telefono.
Avevamo parlato tante volte di misteri della storia che affascinavano entrambi che vi era solo l'imbarazzo della scelta. Ancora pochi minuti e avrei saputo di che si trattava.
Un allarme fastidioso mi richiamò alla realtà.
Non vi era stato alcun annuncio ancora ma diversi passeggeri si erano diretti verso le vetrate che davano su una delle piste e parevano visibilmente agitati. Mi resi conto che sotto il brusio generale si sentivano in lontananza le sirene dei vigili del fuoco. Doveva essere accaduto qualcosa.
Qualche istante dopo una folla di gente si affacciava alle vetrate che davano sulla pista. Un bagliore rosso fuoco la illuminava a giorno e le esplosioni si succedevano spaventose.
Un 747 in fase di atterraggio con i suoi centosettanta passeggeri era andato a impattare sulla pista esplodendo all'istante. Nessun sopravvissuto!
Il mio Professore, l'amico Claudio, avrebbe portato il suo segreto con se, nella tomba, per sempre.

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Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO
 

lunedì 17 marzo 2014

I custodi della storia (Cap. II) - Il viaggio

Anno del signore 1290, 2 gennaio.
 
Era una fredda giornata d'inverno quando Nicola e Lazzaro lasciarono Assisi alla volta di Genova dove li attendeva una nave per la Sardegna. Da li sarebbero partiti poco dopo alla ricerca di una terra lontana e sconosciuta, nel lontano ovest, sanza sapere se sarebbero mai tornati a casa.
Nicola, il più anziano, aveva compiuto da poco quarant'anni anche se non li dimostrava. Portava i capelli tagliati corti e una folta barba nera incorniciava la sua faccia squadrata e dalla pelle abbronzata. Il naso aquilino gli dava un'aria nobile e forte. Era nato ad Assisi quarto figlio di una famiglia di ricchi commercianti ma era entrato in convento già all'età di dodici anni dove aveva preso gli ordini minori.
Lazzaro ne aveva dieci in meno di anni, anche lui era nato ad Assisi ma apparteneva ad una famiglia povera. Era alto poco più di Nicola ma di corporatura più esile. Di carattere calmo ma fermo nelle decisioni, si era subito trovato bene con Nicola che considerava un po' come un fratello maggiore. Il padre era stato soldato di ventura ed era morto in una scaramuccia con alcuni commilitoni. I frati lo avevano accolto con amore dopo la morte della madre quando aveva appena compiuto otto anni.
Entrambi vestivano il saio scuro dei francescani, portavano ai piedi dei vecchi sandali aperti e intorno al collo il Tau, la croce di Francesco, il fondatore del loro Ordine. Nella povera bisaccia di cuoio custodivano i loro tesori, alcuni testi di preghiere, un antico diario di viaggio, alcune mappe e l'occorrente per scrivere e disegnare.
Avevano discusso a lungo del viaggio col loro fratello Giovanni. Era stato Giovanni a raccontargli della mappa e della possibilità di raggiungere il lontano Oriente viaggiando verso Occidente. Giovanni era stato il loro insegnante di Latino e greco antico e le sue conoscenze dei classici erano enormi. Spesso, durante il lavoro, gli raccontava le storie che aveva letto tanti anni prima con una tale disinvoltura che il tempo passava senza che neppure se ne accorgessero. Nicola e Lazzaro ci avevano pensato tante volte a quel fantastico viaggio verso oriente e ora ora che lui era morto non avevano più nessuno che li trattenesse.
Guidati dalla fede nel loro Signore e dalla Regola che li avrebbe aiutati a sopportare un così lungo viaggio partirono sicuri di riuscire dove altri avevano fallito.
Sapevano bene a cosa andavano incontro, o forse era l'esatto contrario a spingerli, l'incoscienza, ma erano pronti a mettere a rischio le loro vite per conquistare nuove terre alla fede.
Il loro successo sarebbe stato il successo di fratello Giovanni. Dio li avrebbe guidati e soccorsi.
Non erano soli nell'impresa. Con loro viaggiavano i giovani rampolli di alcune famiglie liguri, Ugolino Vivaldi e Vadino, Guido e Teodisio della famiglia Doria. Quattro giovani avventurieri che avevano fondato una società con l'intento di raggiungere le Indie e tentare così la fortuna.
Per il viaggio allestirono due navi, la Sant'Antonio e l'Allegranza, dando fondo ai risparmi accumulati dalle loro famiglie e con la loro ciurma costituita da marinai, pirati redenti e semplici mozzi, partirono alla ricerca di fortuna, alla volta di una terra misteriosa e ricchissima di cui avevano sentito parlare nelle antiche storie che si tramandavano in famiglia.
Il viaggio sarebbe stato lungo e difficile ma così è la vita.
Solo sei persone sapevano approssimativamente cosa li attendeva. Ne avevano discusso a lungo coi tre frati prima di farsi convincere ad investire tutte le loro fortune in una impresa che poteva significare la fortuna di tutti come la morte.
Durante la preparazione del viaggio avevano pianificato tutto per stare in mare tre mesi di seguito prima di fare scalo. I genovesi avevano conosciuto i tre frati durante un viaggio di lavoro ad Assisi. Avevano cenato nella stessa osteria e bevuto vino rosso alla stessa tavola fino a che non avevano sentito parlare fratello Giovanni che raccontava di una sua lettura in cui era descritto un viaggio in una terra lontanissima e immensa ad ovest della Spagna, oltre l'Oceano. Giovanni assicurava che nel libro che aveva letto alcuni anni prima vi era una mappa e lui era certo di averla vista. Gliela avrebbe mostrata alla prima occasione dato che il libro sicuramente si trovava ancora nella biblioteca della famiglia del fondatore dell'Ordine. I genovesi avendo sentito Giovanni parlare di questa terra lontana, avevano loro offerto da bere e cominciarono a far domande. Giovanni era sempre felice di avere attorno giovani vogliosi di ascoltarlo raccontare le storie da lui lette e non aveva lesinato in particolari. Raccontò di una terra straniera, il cui ricordo era perduto nel tempo, una terra immensa che si estendeva da un estremo all'altro del mondo e che millenni prima era stata raggiunta dai viaggiatori che partirono dalle coste del mediterraneo.
Così avevano stretto amicizia ed era nata l'idea del viaggio.
Ci volle del tempo prima che la mappa fosse ritrovata e che i preparativi per il viaggio fossero completati. Una brutta polmonite si portò via fratello Giovanni che non poté assistere alla partenza dei suoi giovani confratelli.
Nicola e Lazzaro partirono da Genova in una giornata di primavera, costeggiando la Corsica, diretti verso Castelgenovese, castello e porto del nord Sardegna appartenente alla famiglia Doria. Da lì, dopo aver fatto rifornimento di viveri e acqua, sarebbero ripartiti dieci giorni dopo alla volta delle colonne d'Ercole.
Il tempo era buono e non ci sarebbero state più soste, fino all'arrivo in Africa sulla costa Atlantica, dove avrebbero fatto scalo all'altezza del fiume Geba. Il viaggio durò trentadue giorni durante i quali i marinai oltre al loro lavoro alle vele passavano il tempo a pescare per integrare il cibo della cambusa con del pesce fresco. Un giorno un forte temporale rischiò di mandare a picco l'Allegranza ma proprio quando la situazione si era fatta più critica il temporale cessò e il tempo cambiò con insolita velocità. I due frati furono visti pregare in ginocchio per la salvezza delle anime con le braccia rivolte al cielo, incuranti della pioggia e dei fulmini, e questo era stato sufficiente per indurre i marinai a credere che lo scampato pericolo fosse opera della loro intercessione verso dio.
Erano le dieci del mattino quando il nostromo avvisò il capitano che erano arrivati a Geba. Un fiume di acqua dolce e fango si inoltrava per miglia e miglia prima di disperdersi nell'acqua azzurra dell'oceano, segnalando ai marinai esperti la sua inconfondibile presenza.
Gettarono le ancore a circa mezzo miglio dalla riva fangosa poco oltre la foce del fiume. Un gruppo di selvaggi aveva acceso un fuoco per segnalare un approdo sicuro e l'intenzione di scambiare le proprie merci, principalmente frutta e acqua, con i marinai. Era una pratica comune lungo le coste dell'Africa. Spesso i marinai lasciavano le loro mercanzie sulla riva dove in precedenza gli abitanti della zona avevano lasciato le loro merci e lo scambio avveniva sulla fiducia. Altre volte era possibile scendere a terra e trattare con i commercianti del luogo.
La sosta fu breve e tranquilla. I marinai sbarcarono per fare rifornimento nel vicino villaggio. Comprarono cibo fresco per altri tre mesi di viaggio in alto mare e cinque giorni dopo già si ripartiva. La sera prima di partire tre marinai scesero a terra mezzi ubriachi e allontanatisi nella giungla all'inseguimento di una specie di maiale selvatico non tornarono più indietro.
La mattina dopo, all'alba, il convoglio prese il largo con tre marinai in meno, diretto senza alcun tentennamento ad ovest.
La costa si allontanava velocemente. Le due imbarcazioni avanzavano velocemente nell'oceano spinte da un vento forte e regolare. I primi giorni di viaggio il tempo si mantenne buono anche se il vento aumentava costantemente la sua forza.
Il quarto giorno di navigazione, poco prima di mezzogiorno, il cielo cominciò a farsi scuro e all'orizzonte si profilava un grosso temporale. Le onde cominciarono a crescere di altezza fino a raggiungere i dieci metri di altezza. I galeoni, grandi e sicuri fino a quel momento, sembravano diventati dei gusci di noce in balia del mare. Incapaci di qualsiasi manovra i marinai della Sant'Antonio ammainarono le vele sperando che questo li aiutasse a resistere al vento e alla forza delle gigantesche onde. L'Allegranza invece volse la prua verso est per aggirare il temporale con l'unico risultato di venire trascinata lontano dalla Sant'Antonio. Dopo pochi minuti le due navi si persero di vista. Per tre giorni e tre notti gli uomini dell'Allegranza restarono in balia della burrasca cercando di lottare per sottrarre la nave alla furia del mare e dei venti. Il temporale infuriava tutto intorno a loro e la nave cigolava sinistramente sotto i possenti colpi delle onde, diffondendo sinistri presagi tra gli uomini spossati e scoraggiati. Il quarto giorno il vento era calato leggermente e le nuvole si erano aperte ad ovest lasciando intravvedere un lembo di cielo azzurro in lontananza.
La Sant'Antonio era stata più fortunata.
Il temporale non li aveva risucchiati al suo interno ma li aveva sospinti indietro, verso le coste dell'Africa lasciate qualche giorno prima. Sfortunatamente il galeone aveva subito danni all'albero maestro e non era più in condizione di percorrere un lungo viaggio. I marinai erano troppo sfiduciati per proseguire e due giorni dopo approdarono a poca distanza dal fiume Geba dove cominciarono immediatamente i lavori di riparazione, sperando di rivedere di li a poco i compagni della Allegranza. Le cose sarebbero andate diversamente, ma nessuno poteva saperlo.
Il mare aveva deciso diversamente.
Sarebbero passati quarantasei giorni prima che l'Allegranza e il suo equipaggio potesse vedere in lontananza una scura linea di costa e i due gruppi non si sarebbero mai più rivisti.
A bordo dell'Allegranza il Capitano Ugolino Vivaldi e il nostromo Vadino Doria, accompagnati da frate Nicola proseguirono il viaggio verso ovest.
Prima di lasciare le coste dell'Africa Nicola e Lorenzo si erano salutati augurandosi di potersi riabbracciare presto. Ognuno di loro portava con se una copia della mappa. Il viaggio era stato lungo e faticoso ma niente in confronto a ciò che li aspettava.
Dopo il temporale che li aveva separati dalla Sant'Antonio il viaggio proseguì per venti giorni senza particolari problemi. Il ventunesimo giorno dalla fine del temporale alcuni giovani marinai poco abituati alle privazioni avevano cercato di convincere gli altri a tornare indietro. Il Capitano Vivaldi li aveva sentiti confabulare tra loro e lamentarsi con il resto della ciurma. Li aveva affrontati di petto, minacciandoli di buttarli a mare se non avessero smesso immediatamente.
Uno dei tre estratto il coltello e aveva provato a saltargli addosso ma era stato troppo lento, il Capitano l'aveva passato a fil di spada sul ponte della nave per poi buttarlo ai pesci, ancora vivo.
- Volete seguire il vostro amico?
Disse torvo ai due mozzi che lo guardavano con il terrore negli occhi.
- Liberi di scegliere. O proseguite con me o potete buttarvi in acqua. Potrete proseguire a nuoto verso la costa se ne avete la forza, oppure più probabilmente, finirete nella pancia di qualche grosso pescecane come quelli che potete vedere banchettare la sotto. La spuma dell'acqua, bianca fino a qualche istante prima, era diventata rossa del sangue del loro compagno le cui parti si contendevano tra grossi squali dalle enormi pinne grige.
Che scegliessero liberamente la loro sorte.
A malincuore i due giovani ripresero il lavoro dietro stretta sorveglianza del nostromo e dei marinai più anziani, più abituati alla dura disciplina di bordo.
- Siete stati incoscienti e fortunati voi due. Due anni fa il capitano della nave sulla quale ero imbarcato per molto meno ha fatto impiccare un mozzo all'albero maestro! - Disse uno degli anziani ai giovani, guardandoli di sottecchi.
- Finitela di lamentarvi o vi abbandoneremo, vi siete imbarcati volontariamente e non si torna indietro fino a che non lo deciderà il Capitano. E poi sarebbe da stupidi morire adesso che il viaggio è quasi giunto alla fine.
In effetti i più esperti avevano già notato i segni distintivi della presenza di una terra non troppo lontana. Da due giorni il numero degli uccelli acquatici era aumentato e le acque diventavano a tratti più chiare. Rami e foglie si intravvedevano in superficie, trascinati dalla corrente, segno inconfondibile della presenza di una terra non troppo lontana. Qualche giorno di navigazione al massimo e la terra sarebbe stata avvistata.

Il due luglio dell'anno del signore 1292 il marinaio di guardia urlò con quanto fiato aveva in corpo:
- Terra! Terra!
Il Capitano si diresse immediatamente a prua per osservare l'orizzonte. Alzò la mano destra all'altezza della fronte per proteggersi gli occhi dal sole e confermò la scoperta con un cenno del capo.
Di fronte a loro si stagliava la costa di una terra sconosciuta, solo accennata con una linea nera sulla mappa dei due francescani.
Il Capitano Ugolino Vivaldi accompagnato dall'amico e nostromo Vadino Doria, da fratello Nicola e dai centododici marinai superstiti si trovarono di fronte quella linea scura di terra che si estendeva a perdita d'occhio all'orizzonte.
Ancora un giorno di viaggio e sarebbero finalmente sbarcati.
Il tre luglio il Capitano mise piede sulla terra ferma prendendone possesso in nome del Comune di Genova. Fratello Nicola ne era testimone di fronte a Dio ma non era più tanto sicuro di aver fatto la cosa giusta.
La morte del giovane marinaio l'aveva colpito profondamente. Non avrebbe mai pensato che il Capitano Vivaldi, quel giovane simpatico conosciuto nella taverna di Assisi, avrebbe potuto uccidere. Forse avevano sbagliato tutto – pensò – non era questo che immaginava prima di partire. Avevano messo in conto sofferenze e privazioni ma non gli omicidi. Se aveva ucciso un suo uomo senza batter ciglio, cosa avrebbe potuto fare ad uno sconosciuto? Ma oramai era tardi per tornare indietro, occorreva riporre le speranze nelle mani del Signore.
Appena messo piede sulla spiaggia si gettò a terra in ginocchio e pregò dio padre perché proteggesse la sua anima.

Vai al cap. III: Un'occasione mancata.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO