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domenica 15 gennaio 2017

Il crepuscolo degli Dei (Parte VI - Il libro scomparso)


- “Buon giorno signorina… Odges?”

- “Si, sono io. Posso aiutarla?”

- “Sono Martin Sena, lavoro per la Larren Books e...”

- “Ancora voi? Pensavo di essere stata chiara. Il libro di mio padre non è in vendita, ne ora ne mai!”

Maria era stata brusca ma già il mese prima aveva chiarito la questione. A costo di sembrare sgarbata fece per chiudere la porta quando lo sguardo dell’uomo la colpì.

- “Venga dentro. Gradisce un caffè?”

Stupito per il repentino cambiamento Martin Sena, dottore in filologia antica e attualmente dipendente della Larren Books con l’incarico di fattorino…non se lo fece ripetere que volte. Fare il fattorino non era la sua massima aspirazione ma Martin sperava sempre di riuscire a cambiare, prima o poi, con l’aiuto di un po di fortuna!

- “La ringrazio signorina”

Lei lo fece accomodare nel salotto, un ambiente piccolo ma confortevole. Il padre ne era sempre andato fiero, era il suo gioiello. Alle pareti aveva appeso alcuni quadri senza valore ma molto belli, erano delle nature morte, cesti di frutta che sembrava vera e una scena di caccia al cinghiale. I cani circondavano il povero animale ferito e lo mordevano alle zampe, per cercare di immobilizzarlo.

- “Mi dispiace ma non ho dei biscotti, però se vuole ho del latte”

- “Non si preoccupi, va bene il caffè nero. Sa, sono di origine italiana e da noi il caffè si prende nero e bollente.”

Sorseggiò il suo caffè per poi poggiarlo quasi subito sul tavolino. Non si poteva certo dire che fosse il miglior caffè della sua vita! Era arrivato il momento di riprendere il discorso…

- “Signorina Odges – si schiarì la voce – come le dicevo io lavoro per la Larren Books...”

- “Si, ho capito. Sono stata gentile con lei ma cerchi di capire, non voglio vendere il libro di mio padre, come ho già detto ai suoi colleghi… ”

- “Si, ho saputo del mio collega che le ha fatto visita il giorno dopo il funerale. Con una certa mancanza di tempismo, non c’è che dire...”

- “Senza dubbio. Poi mi sembrava di essere stata chiara la settimana scorsa. Questa volta si trattava della sua collega, una signora bionda, sulla quarantina, non ricordo il nome però aveva dei modi molto garbati e non ha insistito. Ora a lei ripeto la stessa cosa. Il libro non è in vendita!”

- “Scusi signorina Maria ma io non sono qui per comprare il libro, a dir la verità non sono qui per conto della Larren Books ma per conto mio. E comunque da noi non lavora nessuna signora bionda e sulla quarantina.”

Questa volta era Maria ad avere una faccia stupita. Eppure era sicura. Lei si era presentata come dipendente della Larren Books e aveva parlato delle intenzioni di pubblicare il romanzo.
Secondo lei sarebbe stato un grande successo… e poi la Larren Books avrebbe pagato bene.
Poi le aveva chiesto di poter vedere il manoscritto ma lei non glielo aveva mostrato, aveva inventato una scusa e l’aveva allontanata.

- “Ma la signora mi aveva detto che...”

- “Signorina Maria, da noi non lavora nessuna donna, siamo tutti uomini.”

Il tono non ammetteva replica.

- “Ma allora chi poteva essere? E perché fingere di essere qualcun altro? E lei, signor Martin, cosa vuole da me visto che non è qui per il libro?”

- “Veramente non le ho detto che non sono qui per il libro. Le ho detto che non sono qui per conto della Larren Books. La società per la quale lavoro non è più interessata al libro di suo padre. Ha ricevuto delle forti pressioni per dimenticarsene e comunque è passato più di un mese dalla – ehm – morte di suo padre… e, diciamo così, non è più un affare vantaggioso per la Larren Books.”

Maria ascoltava sempre più stupita. Chi poteva avere interesse a non far pubblicare un libro? Chi aveva di fronte? Da quando aveva scoperto che suo padre era stato un agente segreto vedeva complotti dietro ogni cosa. Eppure, a ben vedere, sembrava avere ragione a sospettare di tutto e di tutti.

- “Sono qui per mio conto. Anche io come suo padre, sono un esperto di filologia antica e mi occupo di leggende. Ho scritto diversi libri ed ho assistito alla prima del “Crepuscolo degli Dei”. La rappresentazione mi ha molto colpito e avevo intenzione di parlare con suo padre per chiedere lumi su alcune leggende cui ha sicuramente fatto riferimento nella sua opera, ma non ho fatto in tempo… posso chiederle la cortesia di mostrarmi il manoscritto. Può farmelo leggere? Le prometto di non disturbarla, lo leggerò qui, a casa sua, così il manoscritto sarà sempre sotto la sua sorveglianza. Non ho nessuna intenzione di portarle via un ricordo di suo padre...”

Sembrava sincero. E poi il suo tono di voce, come i suoi occhi, le dicevano di potersi fidare. Maria si alzò per prendere il manoscritto dallo scaffale in cui l’aveva riposto qualche giorno prima, dopo averlo mostrato alla signora bionda che affermava di lavorare per la Larren… ma il manoscritto non era al suo posto.
Qualcuno l’aveva rubato!


(Continua ???)

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


Puntate precedenti:

Parte prima ->>

Parte seconda _>>

Parte terza ->> 

Parte quarta ->> 

sabato 14 gennaio 2017

Chi sono i padroni del mondo, di Noam Chomsky

Chi sono i padroni del mondo?
 
La verità è sotto gli occhi di tutti, per cui non c'è alcun bisogno di porsi questa domanda, ne tanto meno di cercare la risposta, qualcuno potrebbe pensare.

Eppure l'autore del libro si è posto la domanda e ha cercato di dare una risposta.
Così si scopre che forse le cose non sono come abbiamo sempre creduto, o come ce le hanno sempre raccontate.

Ogni medaglia ha due facce, un dritto e un rovescio, e non si può mai dire con certezza qual è il dritto e quale il rovescio.

Noam Chomsky è un intellettuale statunitense, di origine ebraica, considerato il massimo esponente di linguistica al mondo, professore emerito al Massachusetts Institute of Technology (MIT), storico e attivista politico.

Il suo libro inizia con il chiedersi chi siano gli intellettuali e quale sia la loro funzione per passare poi ad altre domande.
Chi sono i più pericolosi terroristi al mondo? 
Perché Russia e Cina si comportano in questo modo?
In America c'è la democrazia?

Ancora domande scontate.

Forse, ma le risposte di Chomsky non sono scontate!

La sua è una analisi storico politica che mette a nudo i reali interessi che vi sono dietro le frasi altisonanti e i programmi politici della Superpotenza per eccellenza, gli Stati Uniti d'America.

Prendiamo alcuni esempi.

Che cosa sappiamo di Nelson Mandela, presidente del Sudafrica e premio Nobel per la pace nel 1993? Per quale motivo, per il Dipartimento di Stato statunitense, Mandela fino al 2008 faceva parte della lista dei terroristi?

Che cosa sappiamo dell'attentato terroristico dell'11 settembre? 
Sappiamo che ha cambiato il mondo. In quell'occasione il presidente Bush dichiarò infatti guerra al terrorismo.
Eppure l'11 settembre, del 1973, questa volta in America Latina, "quando gli Stati Uniti riuscirono finalmente nell'impresa di rovesciare il governo democratico cileno di Salvador Allende grazie a un golpe militare che insediò l'abominevole regime del generale Augusto Pinochet", è stato completamente dimenticato... nonostante i crimini compiuti allora, dagli Stati Uniti, siano paragonabili se non superiori a quelli compiuti il più famoso 11 settembre 2001.

Perché i palestinesi continuano a prendersela con accanimento con gli israeliani? Quanti crimini di guerra sono stati commessi, e da chi, in questa guerra infinita?

Quali motivi inconfessabili hanno spinto gli Stati Uniti ad isolare Cuba dal mondo?
Cosa li spaventava al punto da individuare in Cuba e nel suo capo di Stato un pericolo per la democrazia degli Stati Uniti d'America? E per quale motivo i sovietici, nel 1962, cercarono di installare dei missili proprio sul territorio di Cuba, a un tiro di fionda dal confine americano?

E ancora il Vietnam, il Laos, le manovre in acque internazionali lungo le coste cinesi, Saddam Hussein, l'Afghanistan, l'invasione dell'Iraq, la guerra al fondamentalismo islamico e ai nazionalismi, l'estensione della NATO ai confini con la Russia, la guerra al narcotraffico...

Cosa devono dimostrare, continuamente, gli Stati Uniti d'America?
Forse che loro sono i padroni del mondo?

L'analisi di Chomsky pare condurre proprio in quella direzione.

Naturalmente, occorre fare attenzione. Quando si parla di padroni del mondo si parla di chi tiene le redini del potere in America, una classe politica finanziata dalle grandi potenze economiche, le multinazionali e la finanza. 
Il popolo americano non sembra essere tra le priorità dei politici americani più di quanto non lo sia il popolo italiano per i politici italiani.

Chi sono i padroni del mondo.

Un grande libro, da leggere con attenzione e su cui riflettere.
Un libro di denuncia contro i crimini internazionali commessi dagli Stati Uniti d'America e da Israele, scritto da un americano di origine ebraica.

Dritto e rovescio, due facce della stessa medaglia... ma qual è il dritto e quale il rovescio è tutto da vedere!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 10 gennaio 2017

Annibale, di G.P. Baker

Mediterraneo!
Il Mare Nostrum dei romani. Antiche città sorsero lungo le sue coste in tempi diversi. 
Tra queste Utica, che in fenicio significa "città vecchia", ma anche Kart Hadasht, città nuova, che i romani chiamarono Cartagine.
La storia di Cartagine è legata a quella di Siracusa, di Roma e delle guerre Puniche ed a quella di una famiglia: i Barca.
Amilcare, padre di Annibale, era stato comandante delle truppe cartaginesi in Sicilia, dove da alcuni anni si assisteva agli scontri tra Roma e Cartagine, di volta in volta chiamate alla guerra per conquistare l'egemonia sul Mediterraneo.

Annibale nasce a Cartagine proprio in questo periodo, era il 247 a.C.

Dopo la fine del conflitto in Sicilia, Amilcare lascia la testa dell'esercito e rientra in patria. Seguiranno anni di ribellioni causati dal mancato pagamento del soldo alle truppe mercenarie.
Cartagine, in quella che è conosciuta come prima guerra punica e nelle rivolte successive, oltre alla Sicilia, perse anche la Sardegna. 

A seguito di un tentato colpo di stato architettato da Amilcare, non andato a buon fine, il generale partì per la Spagna, forse chiamatovi dal genero Asdrubale, e da li ricominciò i preparativi per la conquista dell'Italia.

Annibale in quel tempo aveva solo nove anni quando, un giorno, il padre lo chiamò a se e gli chiese se voleva seguirlo in Spagna. Annibale accettò con gioia. Il padre gli fece pronunciare allora un solenne giuramento con il quale si impegnava a non riconciliarsi mai con i suoi nemici, i Romani.

Nei nove anni successivi Amilcare, sempre con suo figlio al fianco, conquistò la Spagna. 
Si stava preparando alla conquista di ulteriori territori nel nord della Spagna quando, attraversando un fiume, annegò. 
Il potere passò nelle mani di Asdrubale, suo genero, che proseguì le sue campagne di conquista per altri otto anni, attestando il confine sull'Ebro. Oltre il fiume iniziava la zona di influenza dei Romani, non era possibile attraversarlo a meno di riprendere la guerra.
Asdrubale fu assassinato nel 221 a.C..
Annibale aveva 26 anni ed era il naturale successore di suo zio, a lui spettavano le redini del comando. D'altra parte Cartagine non si preoccupava più di tanto di quanto accadeva in terra di Spagna, così alla morte di Asdrubale fu ratificata la nomina di Annibale a nuovo comandante dell'esercito. 

In quegli anni di conquista in Spagna, l'esercito era cambiato. 
In primo luogo era diventato un esercito professionale. Assoldato, addestrato e pagato dallo Stato Maggiore che ne disponeva senza chiedere nessun parere alla classe politica di Cartagine. Non si trattava più dell'esercito di mercenari impiegato in precedenza e che tanti problemi aveva provocato al ritorno dalla Sicilia.
Annibale disponeva di un esercito ben addestrato e soprattutto fedele a lui e solo a lui.
Nei due anni successivi si preoccupò di consolidare il suo potere e di sottomettere le tribù della valle dell'Ebro, cercando di non entrare in conflitto con i Romani. Almeno fino a quando non furono i Romani a violare il trattato di pace allora in vigore. 
Una piccola città, Sagunto, a sud dell'Ebro e quindi sotto l'influenza dei cartaginesi di Spagna, chiese aiuto a Roma. Roma decisa a fermare l'avanzata di Cartagine intervenne in favore di Sagunto, dichiarando che la città si trovava sotto la sua protezione.
Annibale aspettava proprio questo momento. 
Incontrò gli ambasciatori Romani e si lamentò con loro dell'ingerenza nei territori che considerava suoi. Disse che non poteva far finta di niente a scapito della credibilità sua e di Cartagine. Se le cose restavano così la pace tra Cartagine e Roma era rotta e la responsabilità era dei Romani.
Il Senato di Roma non prese sul serio le minacce del giovane Barca, anche perchè era impegnato a gestire i problemi della più vicina Illiria (che si trovava dove oggi si trova Albania e il Montenegro). 
Il console Lucio Emilio Paolo era appena partito alla volta di Dimale, città nei pressi dell'attuale Durazzo, presso la quale il re dell'Illiria Demetrio di Faro (ex alleato Romano) aveva dislocato tutte le sue forze, quando Annibale intraprese l'assedio di Sagunto.
La conquista di Sagunto fu la prima grande impresa di Annibale, il grande generale Cartaginese che sarà ricordato dalla storia per aver attraversato le Alpi con i suoi elefanti da guerra e per aver messo in ginocchio i Romani nella celebre battaglia di Canne.
L'intelligenza del generale Cartaginese, la sua forza di volontà, le sue capacità di manovra e l'astuzia di cui diede ampia dimostrazione, ne fanno ancora oggi uno dei più studiati.
Il libro di George Philiph Baker, autore inglese nato a Plumstead nel 1879, è veramente appassionante, scritto con stile, mai pesante, ricco di particolari e citazioni dagli autori classici, merita a pieno titolo di far parte della biblioteca personale di ogni appassionato di storia.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 7 gennaio 2017

Visita alla Galleria Borghese - Roma

A Roma ieri è stata una giornata fredda, serena ma fredda.
Di quel freddo intenso delle giornate di tardo inverno, con quel vento freddo che ti congela le guance e le orecchie...
Noi abbiamo approfittato comunque del tempo libero per visitare la Galleria Borghese, uno dei nostri obiettivi ormai da diversi mesi.
La Galleria Borghese si trova all'interno dei giardini di Villa Borghese. Occupa una splendida palazzina che si staglia elegante sullo sfondo azzurro del cielo, fatta realizzare intorno alla fine del 1500 dal cardinale Scipione Borghese.


Al suo interno sono custodite opere di Caravaggio, Bernini, Canova, Raffaello, Tiziano... e tanti altri pittori e scultori famosi.

La visita va prenotata ed è un po cara, anche perchè oltre al costo dei biglietti si paga la prenotazione obbligatoria e il servizio di vendita al concessionario, comunque, dopo aver sborsato una media di 20 euro a testa, ci si può finalmente godere la visita.

Purtroppo è vietato scattare fotografie, per cui posso solo mostrarvi alcuni scatti effettuati prima di sentire l'avviso e qualche foto di alcune opere tratte da internet.

Tra le opere che ho più apprezzato, ecco forse la migliore: si intitola "Il ratto di Proserpina", ed è un gruppo scultoreo in marmo di Carrara di Gian Lorenzo Bellini, realizzata per il cardinale Scipione Caffarelli Borghese.




Per chi fosse interessato alla storia di Proserpina, la si può trovare in Ovidio, Metamorfosi  (Libro V, 391 e seguenti), da cui traggo una piccola parte:

           "Non lontano dalle mura di Enna vi è un lago di acqua profonda di nome Pergo; il Caistro non ode più di quello canti di cigni nelle sue acque correnti. Un bosco incorona le acque, cingendo ogni lato e con le sue foglie, come con un velo, allontana i raggi del sole; i rami danno frescura, l'umida terra fiori purpurei; vi è perpetua primavera. Mentre Proserpina si trastulla in questo bosco e coglie o viole o bianchi gigli e mentre con fanciullesca cura riempie i cestelli e il lembo della veste e si sforza di superare le coetanee nella raccolta, appena vista fu amata e rapita da Plutone, a tal punto fu rapida la passione."

Sempre del Bernini è una seconda opera in marmo, eseguita però con l'aiuto di un altro maestro scultore, Giuliano Finelli, che realizzò le parti più delicate, si tratta di "Apollo e Dafne", anche questa storia è tratta da Ovidio (I, 450 e seguenti).


La terza opera che voglio mostrarvi è è il David, sempre del Bernini.


L'opera è stata commissionata dal cardinale Peretti ma poi acquistata dal solito cardinale Scipione Caffarelli Borghese.

Non c'è molto da dire, di fronte a queste opere d'arte, bisogna solo osservarle in silenzio, ruotare attorno al loro piedistallo e osservarle ancora, alla ricerca di un particolare, di una muscolo, di una smorfia del viso...

Naturalmente nella Galleria Borghese sono esposti tantissimi quadri, oltre alle statue di cui vi ho fornito un assaggio.
Purtroppo le luci o la posizione elevata spesso non consentono di osservarli altrettanto bene che le statue.

Tra i quadri più belli, per me, uno su tutti, realizzato da Michele di Ridolfo del Ghirlandaio: Leda.

  
Per la sua particolarità, mi è restato in mente il "Paesaggio con corteo magico" di Girolamo da Carpi:


Osservando da vicino un quadro molto colorato mi sono reso conto che si trattava di un mosaico... di Marcello Provenzale, dal titolo "Orfeo".



E qui mi fermo, non certo perchè le altre opere non meritino di esser citate (ve ne sono più belle e sicuramente più famose) ma solo perchè mi sembra giusto dare anche a voi la possibilità di vedere coi vostri occhi, le opere presenti alla Galleria Borghese.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 5 gennaio 2017

Mostra di Antonio Ligabue

Da alcuni mesi e fino al 29 gennaio, al Vittoriano è possibile visitare la mostra di Antonio Ligabue, pittore italiano (ma nato in Svizzera, a Zurigo, nel 1899).


Ligabue (Antonio Costa, poi Laccabue) ebbe una gioventù abbastanza movimentata, nato a Zurigo, da padre ignoto, fu riconosciuto dal marito della madre, ma sin da subito fu affidato ad un'altra famiglia svizzera con la quale visse.
Ebbe grossi problemi comportamentali a causa dei quali dovette cambiare scuola diverse volte. Nel 1917 ebbe una crisi di nervi e fu ricoverato in un ospedale psichiatrico. Infine, nel 1919, fu addirittura cacciato dalla Svizzera, su denuncia della madre adottiva.
Esiliato in Italia, senza amici, senza parenti e senza conoscere la lingua, si trovò a cercare di sopravvivere come poteva, lungo le rive del Po.
Nel 1928 incontrò Renato Marino Mazzacurati, scultore e pittore italiano della cosiddetta scuola Romana. Questo artista riteneva che l'arte avesse una funzione sociale e, forse anche per ciò, aiutò Ligabue a sviluppare il suo talento. Ligabue aveva iniziato a disegnare e dipingere già dal 1920.
I quadri di Ligabue sono generalmente considerati appartenenti alla corrente pittorica "naif".
Quasi tutti i suoi quadri (quelli presenti nella mostra) presentano come soggetto principale una scena di lotta tra animali.
E' difficile trovare un soggetto differente.
Qui sotto, uno dei quadri che mi è piaciuto di più, la tigre. 
  
 

Ligabue si cimentò non solo nella pittura ma anche nella scultura, sono sue diverse opere esposte, tra le quali questo splendido tacchino.
 Il leone
 La capra

 il gufo
Uno dei soggetti preferiti del pittore era il leopardo, sempre ripreso in movimento, in azione di caccia.


 
Interessanti i particolari. I quadri vanno osservati attentamente, spesso infatti tra le foglie o gli alberi si nascondono personaggi o animali.
Qui sotto invece, tra le zampe del leopardo si trova uno scheletro umano che sembra sorridere.
Bellissimi i colori.
Sembra che a Ligabue piacesse molto ritrarsi. Sono numerosi gli autoritratti esposti. In ognuno vi è qualche particolare distintivo, un cappello, una farfalla, una mosca...

  Belli anche i paesaggi alpini, con le mucche al pascolo.


o i cavalli delle carrozze postali dei paesaggi Svizzeri.



Ecco una bella scena di caccia al cinghiale
 
la lotta per la sopravvivenza tra un ragno gigante e un piccolo uccello
 la lotta tra galli
 i cani in caccia

 un paesaggio di campagna
ed infine, uno scoiattolo, questa volta solitario.
Una bella mostra, non il mio genere preferito, ma la pittura di Ligabue ha qualcosa di selvaggio, che colpisce e attira.
Lui non ebbe modo di godersi la fama.
Al termine della sua vita la pittura gli permise di non lottare più contro la fame, ma nulla di più.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 3 gennaio 2017

Archimede e l'assedio di Siracusa

Spesso dalla lettura di un libro, nascono delle curiosità da soddisfare che ti condcono inesorabilemnte a leggere altri libri, visitare luoghi, conoscere persone ed opere...
Nel mio caso, dalla lettura della biografia di "Annibale", di Baker, hsono passato ad approfondire alcuni brani di Polibio e a conoscere l'opera di Giulio Parigi.
Ad un certo punto nel libro su Annibale si parla infatti dell'assedio di Siracusa ad opera di Marco Marcello, allora console romano.

Ci troviamo proiettati nel 212 a.C., cosa che non dobbiamo dimenticare!
Siracusa, come tutti sappiamo, era la patria di Achimede.
Di Archimede si racconta sempre che fu l'inventore degli specchi ustori. 
Ma questa non fu l'unica "arma" da guerra del grande matematico. 
Opera di Giulio Parigi - Architetto e matematico fiorentino
Polibio, grande storico dell'antichità, racconta che durante l'assedio di Siracusa da parte dei romani, il console Marco Marcello era a capo della flotta condotta alla conquista di Siracusa.
Nel libro l'autore scrive così delle invenzioni di Archimede: 
"... Archimede sventò i progetti del console. Il muro era stato bucato perché le barbette e gli scorpioni potessero tirare, oggi si direbbe, a bruciapelo. E non solo gli assalitori dovettero subire questi congegni, ma ebbero ad affrontare qualcosa di più spaventoso.: grandi braccia, munite alle loro estremità di una mano di ferro e di una catena, passarono al disopra dei merli. Quelle mani spazzarono i soldati che erano più avanti lasciando cadere enormi pesi; poi afferrarono le prore delle navi. Furono veduti allora i vascelli innalzarsi al disopra dell'acqua. Quando all'uomo che manovrava quelle macchine pareva che il battello fosse abbastanza sollevato in alto, apriva la mano di ferro tirando una corda e lo lasciava ricadere. Alcuni ricaddero su un fianco, altri si capovolsero, altri colarono a picco con tutti gli occupanti... 
Fu necessario battere di nuovo in ritirata."
 
Oggi possiamo dire che il grande Archimede utilizzò, a quanto pare, delle enormi gru come arma, indubbiamente efficaci sul piano materiale. 
Possiamo solo tentare di immaginare quale effetto psicologico ebbe la scienza di Archimede sugli avversari!


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 31 dicembre 2016

Tamerlano, di Harold Lamb

"Erein mor nigen bui", il sentiero d'un uomo è uno solo!
In questo libro è raccontato il sentiero di Tamerlano, ultimo dei grandi conquistatori.

Tamerlano nacque intorno al 1335 a Shahr-e Sabz (Città Verde), attualmente nell'Uzbekistan, nei pressi del grande fiume Amu Darya, a sud di Samarcanda.
"La sua abitazione era una casa di legno e di argilla cruda, con un recinto in muratura che chiudeva un cortile e un giardino."
Ma nonostante avesse una casa, passò quasi l'intera sua vita come facevano tutti i nomadi, a cavallo e sotto una tenda.
Il padre di Tamerlano, Tagarai, uomo mite, era il capo tribù dei Tatari Barlas, una tribù di guerrieri: "essi erano tatari, uomini di alta statura, di ossatura grossa e prominente. Barbuti, bruciati dal sole, camminavano - quando proprio era necessario andare a piedi - dondolando la persona e senza mai voltarsi per nessuno, a meno che si trattasse di un tataro più ragguardevole di loro."
  Il nome Tamerlano è la trasposizione fonetica di Timur-i-lang ovvero Timur lo zoppo, infermità contratta a seguito di una delle numerose battaglie cui prese parte. 
Naturalmente gli amici e i sudditi si guardavano bene dal chiamarlo così, il loro re era per loro Amir Timur Garigan, il Signore Timur, lo Splendido.0
Timur passava il tempo coi ragazzi della sua età mettendosi in mostra sin da subito per la serietà e la maestria nell'andare a cavallo e nell'uso delle armi: arco e spada.
Un giorno gli giunse la notizia che il "creatore di re" lo cercava. 
Fedele al richiamo del suo signore, Kazgan, sistemò gli affari di famiglia e partì alla volta di Sali Sarai, una zona nei pressi del fiume Amu Darya in cui i tatari, "signori, giovani di nobile schiatta e guerrieri", erano accampati.
Fu li che si fece notare. Un giorno Kazgan incaricò Timur di recuperare dei cavalli rubati da un gruppo di predoni. 
Timur si comportò bene e riportò il bottino al suo signore che da allora gli si affezionò.
Timur divenne ben presto un "bahatur", uno degli eroi leggendari dei clan tatari, coloro che andavano alla battaglia come ad una festa. Sedeva tra loro e partecipava alle battaglie. 
Era un capo nato, vigoroso, instancabile, amava comandare e possedeva una virtù che non tutti i capi possiedono: in qualunque situazione si trovasse restava sempre calmo e riflessivo.
Il tempo passava e Timur prese moglie, Aljai Khatun Agha.
La sua importanza cresceva anche a corte e Kazgan lo nominò "ming-bashi", comandante di mille uomini e lo mise a capo della avanguardia del suo esercito.
Poco tempo dopo Kazgan, con l'aiuto di Timur e dei suoi guerrieri, conquisto Herat e catturò il signore della città. Da ciò nacquero dei dissidi interni e Kazgan fu ucciso da alcuni suoi sottoposti.
Timur, appena venne informato, prese ad inseguirli e non si fermo di fronte a niente fino a che non li ebbe raggiunti e uccisi.
Alla morte di Kazgan seguì un periodo di caos.
Il figlio non riuscì a prendere le redini del comando a Samarcanda. I Clan iniziarono una lotta senza tregua, "solo chi sa brandire una spada può impugnare uno scettro" era infatti il motto dei tatari. 
Due capi clan su tutti si contendevano il potere: Hadji Barlas, zio di Timur, e Bayazid Jalair.
Nel bel mezzo del chaos lasciato dalla morte di Kazgan, il Gran Khan del nord , sovrano dei Mongoli Jat, decise di scendere nel sud a riaffermare il suo dominio sui territori da tanto tempo perduti.
Timur, anche in quella occasione si mantenne calmo, al contrario degli altri capi tribù che sembravano impazziti dalla paura. 
Decise di restare nella sua casa della Città Verde e attendere.
Quando le avanguardie nemiche arrivarono di fronte alla sua casa, lui accolse il comandante degli esploratori e offrì a lui e ai suoi uomini un sontuoso banchetto. L'Ufficiale, obbligato dal vincolo dell'ospitalità, impedì agli uomini di far man bassa dei beni di Timur ma chiese in cambio dei doni di grande valore. Timur lo accontentò ed espresse la volontà di andare incontro al gran Khan del nord per fargli omaggio.
Il gran Khan, Tugluk, si trovava accampato con la sua corte nei pressi di Samarcanda, li lo raggiunse Timur con tutti  i suoi averi e quelli del suo clan.
Giunto di fronte al gran Khan, smontò da cavallo e gli rese omaggio: "Padre mio, mio khan, signore dell'ordu, io sono Timur, capo tribù dei Barlas della Città Verde". Poi gli donò tutto ciò che possedeva, aggiungendo che il dono sarebbe stato molto più grande se alcuni degli Ufficiali che l'avevano accompagnato non lo avessero depredato.
Timur così conquistò il khan Tugluk e da lui, prima che partisse nuovamente verso il nord per sedare delle rivolte che in sua assenza erano scoppiate, fu nominato "tuman-bashi" cioè comandante di diecimila uomini. 
Timur era stato l'unico a non fuggire di fronte al gran khan del nord, certo, non aveva potuto combattere, non ne aveva la forza, ma aveva mostrato a tutti le sue doti di diplomatico e aveva così salvato la sua valle e la sua città dalla razzia e dalla distruzione. Aveva anche creato invidie e ciò comportò ancora una volta lotte e guerre per il potere. 
Alcuni anni dopo il gran Khan tornò al sud per ripristinare l'ordine. Timur fu investito del titolo di principe di Samarcanda ma Tugluk lasciò sul territorio il figlio Ilias e il generale Bikijuk con il compito di sorvegliare il regno.
Questi mongoli erano dei predoni e lo dimostrarono.
 Timur protestò verso il suo sovrano per il comportamento del figlio e del generale ma non ottenne niente così si ribellò e dopo le prime schermaglie, dichiarato fuori legge, dovette scappare nel deserto. 
Dalla fuga nel deserto ha inizio la fortuna di Timur, sarà nelle difficoltà che emergeranno tutte le sue doti di guerriero, stratega e conquistatore.
Il libro continua nel racconto della vita del grande conquistatore, di colui che a ragione, poteva essere definito il degno erede di Gengis Khan.
Fino alla fine, nel 1405, all'età di circa settant'anni, quando lo fermò una malattia nel rigido inverno che lo vedeva in marcia verso il Catai, alla testa del suo enorme esercito. 
Aveva conquistato tutto. Aveva combattuto sempre in testa ai suoi uomini e dove era passato aveva sempre ottenuto strepitose vittorie.
I suoi uomini lo amavano, il suo popolo lo rispettava e lo temeva.
Di fronte ad un nemico che si arrendeva era capace di atti di giusta prodigalità, di fronte ad un alleato che lo tradiva innalzava piramidi di teste, staccate dal collo.
La giustizia nel regno era esercitata con fermezza e correttezza. 
I suoi ministri, se ottemperavano al loro dovere, venivano premiati, se sbagliavano o si comportavano scorrettamente col popolo, venivano decollati!
Timur, fu l'ultimo dei grandi conquistatori, ma fu anche un grande costruttore. Samarcanda, sotto di lui, divenne la più grande capitale del mondo, ospitando circa due milioni di persone, di tutte le razze e religioni.
Ovunque andasse osservava tutto e al suo rientro in patria faceva innalzare le opere che aveva ammirato nelle città conquistate. 
Il suo regno poteva essere percorso in lungo e in largo senza pericolo. 
Lungo le strade principali stazioni di posta consentivano ai viaggiatori di sostare e cambiare i cavalli, e ai corrieri di Timur, di viaggiare senza interruzione per portare notizie al loro signore.
Purtroppo, come molti dei suoi predecessori, dopo aver conquistato tutto, se ne andò lasciando il regno, in parte, nel caos, non essendo presente un altro Timur capace di mantenere il potere.
Timur fu un grande conquistatore, in occidente per lo più sconosciuto, nonostante a lui si debba, probabilmente, la salvezza dell'Europa che altrimenti sarebbe caduta sotto l'Impero Ottomano!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO