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sabato 19 marzo 2011

Il vecchio cotonificio...

"La mia storia è come quella di tanti ragazzi del sud...
una vita spesa a lavorare, cercando di mettere qualche soldo da parte per poter un giorno tornare al paese.
Ma, sedetevi, la mia casa è povera ma una sedia e un bicchiere d'acqua fresca non si nega a nessuno".

Il vecchio signor Peppino era sempre gentile con noi e ogni volta che andavamo a trovarlo ci raccontava qualche storia di quando era giovane...
Io avevo 10 anni quando lo conobbi per la prima volta, ora ne ho molti di più, ma non l'ho mai dimenticato... 

Un giorno la maestra di quarta elementare ci aveva detto che dovevamo fare una ricerca, dovevamo parlare dei lavori del 1800 nella Lombardia. Così ai miei genitori venne in mente di portarmi a Gorla, un piccolo paese subito fuori Legnano (dove abitavamo) dove qualche anno prima avevano conosciuto per caso un vecchio signore che aveva allora almeno ottanta anni e che aveva lavorato nel vecchio cotonificio Cantoni. Lui avrebbe saputo render sicuramente interessante la ricerca...

"Volete sapere come si lavorava in un cotonificio? Mh... è stato tanti anni fa che non ricordo più neanche il nome del proprietario..."

Oggi so bene che scherzava, il vecchio signor Peppino aveva sempre voglia di scherzare, ciò che non gli era mai mancato era proprio una memoria di ferro e la voglia di vivere che lo portava sempre a vedere il lato positivo delle cose... eppure allora mi sembrò quasi una inutile perdita di tempo. Non capivo perché mio padre mi avesse voluto far conoscere quello strano vecchio. Avrei potuto semplicemente andare in biblioteca, sedermi ad un tavolo e sfogliare uno di quei grossi libri pieni di foto del passato... ma mentre pensavo, il vecchio assunse un'aria pensosa e, chinata la testa come se portasse sulle spalle tutti gli anni del mondo, cominciò a parlare. 
La voce era roca, profonda, come se venisse direttamente dal passato... le parole erano poche e misurate, ne più ne meno di quelle che servivano per descrivere la vita di una Legnano del 1800 e dei sui tanti abitanti di allora, come se ci fosse stato anche lui!

"Allora Legnano era un bella cittadina, certo, non così estesa come oggi, ma comunque bella... la gente camminava per le strade con passo svelto, tutti andavano al lavoro o a sbrigare qualche commissione che non poteva aspettare oltre. Le signorine di buona famiglia erano sempre vestite a festa, scarpette lucide che si impolveravano subito per le strade di Legnano, abiti bellissimi in cotone fresco e colorato, adatti per la tarda primavera e l'estate, un po' meno per le altre stagioni. E quegli abiti, proprio quelli che esse indossavano, erano ciò che ci dava da mangiare... la mia famiglia lavorava al cotonificio Cantoni già dal 1830, quando era una semplice filanda. Il lavoro era duro ma onesto..."

All'inizio avevo pensato che il vecchio signor Peppino ci prendesse in giro, era il 1975, lui non poteva certo parlare di se stesso quando raccontava di ciò che accadeva nel 1830! Ma non mi importava più, il suo modo di parlare, la sua voce profonda e suadente avevano la capacità di portarmi indietro nel tempo, ascoltavo e vedevo le immagini di quelle persone, delle giovani ragazze che passeggiavano, del vecchio signor Peppino che lavorava alla filanda, vecchio già allora!

Senza rendermene conto riempii pagine e pagine di quaderno senza mai fermarmi, come guidato da una mano invisibile e sapiente... Il giorno dopo la maestra fu molto contenta del lavoro e disse che avrebbe conosciuto con piacere quel vecchio che era stato capace di ispirarmi.

Il tempo passò e io crescevo. L'esperienza con il signor Peppino era stata bellissima e toccante, e così ogni anno i miei genitori con una scusa qualsiasi tornavano a trovarlo. Ci presentavamo al cancello del giardino e mio padre lo chiamava da fuori, per nome, aspettando un cenno di autorizzazione per andare oltre. Poi entravamo, io correvo sempre avanti, i miei genitori seguivano con passo svelto. Ogni volta portavamo qualcosa, un pane di grano duro, una salsiccia, una bottiglia di vino. E lui, come quella prima volta, ci offriva da sedere, un bicchiere d'acqua fresca e poi cominciava a raccontare... ed ogni volta era come quella prima volta per me. Restavo incantato ad ascoltare per ore, senza quasi parlare. Poi, poco prima di cena andavamo via dopo aver ringraziato e salutato con rispetto quel vecchio pezzo di storia. Così ogni anno fino a quando non dovetti partire.

Avevo 19 anni quando andai via da casa, ero stato preso in Marina e dovetti partire per la Sicilia... Ero contento, la Sicilia era la terra del vecchio signor Peppino, forse non l'avrei più visto ma almeno avrei potuto conoscere la sua terra.
Il tempo passò, mi sposai, mi trasferii a Roma dopo aver lasciato la Marina e grazie agli studi assidui e alla voglia di lavorare trovai un bel posto sicuro e riuscii a comprarmi una piccola casa in periferia... Tornavo a casa, a Legnano, di tanto in tanto, per trovare i miei genitori che invecchiavano. Col tempo dimenticai le visite al signor Peppino, probabilmente era morto ormai, e i miei genitori non dissero più niente.

Era il 25 aprile del 2000 quando nacque mio figlio. Lo chiamammo Francesco e fu una festa per tutta la famiglia. Per i miei genitori era il primo nipote ed ogni anno, in estate, pretendevano che stesse da loro almeno per un mese. Avevano tante cose da insegnargli, dicevano... io e mia moglie eravamo contenti e li lasciavamo fare.

Per il decimo compleanno di Francesco, il 25 aprile 2010, decidemmo di festeggiare in famiglia. Arrivammo a casa mia la sera del 24, in aereo. L'aeroporto di Malpensa era vicino e così mio padre venne a prenderci in macchina. La sera incartammo i regali e mio padre disse che il regalo per Francesco non si poteva incartare... ma non disse niente di più, aveva un'aria misteriosa che non era da lui. 

La mattina del 25 aprile Francesco ricevette i suoi regali e come tutti i bambini dei nostri giorni venne sommerso da giocattoli elettronici e qualche libro. Mio padre disse che ancora non era arrivato il momento del suo regalo, occorreva aspettare alle cinque del pomeriggio...
Pranzammo tutti assieme, prendemmo il caffè e aspettavamo con ansia di scoprire quale fosse il regalo del nonno che non era stato mai così misterioso!

Mancava mezz'ora alle cinque e Francesco era visibilmente impaziente, forse sperava di ricevere la nuova play station, magari con qualche gioco che avrebbe potuto mostrare ai suoi amici di scuola... 
Poi finalmente, mio padre si alzò dalla sedia, in silenzio e fece cenno di seguirlo. Salimmo in macchina. Guidò per venti minuti, nel traffico di Legnano... lungo la strada semafori rossi, fabbriche, persone in bicicletta, alberi grigi lungo i viali... poi un cartello: Gorla, indicava la nostra destinazione. Eravamo arrivati!

Di colpo mi tornò in mente il volto del vecchio signor Peppino, la sua voce, i suoi racconti e un'idea pazza, per un attimo, mi passò per la mente.
Mio padre si fermò di fronte ad un giardino che conoscevo bene. Scendemmo dalla macchina in silenzio, ci dirigemmo verso il vecchio cancello grigio e li ci fermammo. Mio padre pronunciò il nome a voce alta, secondo un rituale antico, che ben conoscevo... attendemmo alcuni secondi, come tanti anni prima, finché ad un cenno entrammo nel giardino. Francesco corse avanti, come se si trovasse a suo agio, d'altra parte stava per ricevere il suo regalo di compleanno...
Un vecchio dalla pelle scurita dal tempo stava sulla porta e ci aspettava, ci accolse cordialmente, ci offrì una sedia e un bicchiere d'acqua fresca... 

Poi, cominciò a raccontare...  

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Sardegna... la nostra Terra!

Sardegna...
la nostra Terra!

Così iniziava un post scritto qualche tempo fa nella speranza di svegliare dal torpore il maggior numero di Sardi possibile. Risultati? 
Nessuno!

Ricordo di aver provato ad evocare il sentimento di nostalgia per cercare di far presa su coloro che come me sono dovuti emigrare per lavoro...

Quindi ho cercato di risvegliare il sentimento patriottico che c'è (o almeno spero!) all'interno di ogni cuore nato in Sardegna, per l'Italia e per la nostra isola...

Quindi ho cercato di invogliare le persone ad aiutare una terra a mio parere abbandonata e senza guida

Infine ho cercato di far capire che da soli non si può far niente, che occorre unirsi e discutere e proporre idee e realizzarle, con lo scopo di lavorare tutti assieme per la nostra terra...

Ma tutto ciò non è servito a niente. Non una parola di incoraggiamento, non un'idea, niente di niente...

Ma allora, forse mi sbaglio, forse non occorre niente, forse sono solo io che vedo le cose peggio di quello che sono, forse la crisi non esiste se non nella mia testa forse...

Forse, ancora una volta, le persone aspettano la manna dal cielo perché lavorare e sudare per ciò in cui si crede non piace più a nessuno!?!

Ecco forse la risposta a questa ultima domanda è: SI!
A nessuno interessa più niente e dunque lasciamo perdere...

Nessuno ha tempo da perdere, nessuno sente la necessità di fare qualcosa, i gruppi non servono se alle spalle non c'è un miliardario disposto a far qualche piccola concessione per far credere a molti di poter diventare ricchi, al solo scopo di arricchire ancora di più!
Ecco cosa mi manca... i soldi! 
Ma chissà... se avessi i soldi sarei ancora così interessato a fare qualcosa per la mia terra senza chiedere niente in cambio?

Se siete con me, se avete voglia e tempo per fare qualcosa, anche piccola per la nostra Terra, allora unitevi al mio gruppo: Emigrati Sardi, uniamoci!

Se non avete tempo, voglia, o se non vi sentite più Sardi... lasciate perdere, il gruppo non fa per voi!

Vi aspetto numerosi... anche se so che non ci sarete!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 17 marzo 2011

domenica 13 marzo 2011

Il fantasma della casa sull'Olona

Non riesco più a fare le cose che facevo prima, non posso più uscire per strada senza pensare a quanto mi è accaduto...
Sono passati tanti anni ormai, ma ancora non riesco a dimenticare. 
La mia vita è cambiata... e non potrò mai tornare indietro...
Ogni volta che mi trovo a passare di fronte a quella casa, un brivido freddo mi percorre la schiena e i miei sensi, stimolati dal ricordo, trasmettono al mio cervello segnali d'allarme! 
Non riesco a dimenticare... non VOGLIO dimenticare!

Cosa accadde, mi chiederete...
Non so se riuscirò mai a dire tutto. 
Anche scrivere, come ora sto facendo, mi riapre una ferita ancora sanguinante... 
Eppure devo provarci, il mio psicologo dice che devo superare quello che mi è successo... dice che devo metabolizzare e secondo lui scrivere e parlare di quanto mi è accaduto non può che farmi bene!
Io non sono tanto convinto ma che altro posso fare?

Era il 1989, quando mi trasferii a Legnano, avevo trovato lavoro in una società della zona come ingegnere alla produzione. Un lavoro ben pagato ma che mi portava via molto tempo. Dovevo viaggiare spesso e non avevo modo di passare molto tempo con mia moglie così, di tanto in tanto, la portavo con me. A lei piaceva molto viaggiare così approfittava dei miei viaggi di lavoro per visitare le capitali d'Europa e per acquistare libri... a volte romanzi ma più spesso antichi testi che lei diceva di adorare.

Lei conosceva diverse lingue oltre l'italiano. Il francese, l'inglese, lo spagnolo, ma anche lingue morte come il latino e il greco antico non la spaventavano per niente, ed ogni volta che per lavoro mi recavo in un paese in cui si parlava una lingua sconosciuta, per lei era una festa. Preparava la sua valigia velocemente, selezionava accuratamente le grammatiche e i libri che le sarebbero potuti servire e, alcune settimane prima della partenza, iniziava a studiare la nuova lingua che poi puntualmente praticava e approfondiva sul posto.
Non sono mai riuscito a capire come facesse... eppure per lei era semplice, sembrava che le lingue non avessero segreti e la cosa cominciava anche ad essere utile per il mio lavoro. Avere un interprete personale e di totale fiducia non è da tutti infatti!

Dopo un anno di duro lavoro la società decise di assumermi come dirigente, dovevo occuparmi dei grossi contratti con l'estero, l'attività era in forte espansione e avrei preso una percentuale per i nuovi contratti. Accettai senza pensarci due volte e anche Anna, così si chiamava mia moglie, ne fu felice.
Ora potevamo permetterci una casa tutta nostra, sarebbe stata la nostra reggia.

Allora abitavamo nei pressi della stazione ferroviaria, in una palazzina degli anni '50, in una mansarda arredata semplicemente, una camera da letto, un angolo cottura che si apriva su un terrazzo che dava sulla stazione, un bagno veramente minuscolo e una seconda stanza che io usavo come studio e Anna come biblioteca, con una sola grande poltrona in pelle nera al centro, che condividevamo, e un tavolino sempre ricoperto di libri e progetti... tutto intorno una libreria in legno scuro stracarica di libri e una lampada a muro rendevano l'ambiente intrigante e accogliente... I libri provenivano da tutto il mondo e probabilmente tutte le lingue vi erano rappresentate, come al palazzo dell'ONU e forse più!
  
Quando decidemmo di compare la casa non avevamo idea di cosa acquistare, l'unica esigenza era legata allo spazio per i libri di Anna e al mio studio, che al momento era troppo ridotto. Per il resto tutto andava bene.
Cominciammo ad uscire la sera alla ricerca di una zona che ci piacesse. Percorremmo a piedi più volte tutta la città di Legnano, ci spingemmo fino a Castellanza, a Busto Arsizio e visitammo anche i paesi limitrofi ma non trovavamo niente che soddisfacesse le nostre esigenze e fosse anche alla nostra portata. Ogni sera, tempo permettendo, facevamo chilometri, osservando attentamente le case, i giardini, le persone... alla ricerca di quella che sarebbe diventata la nostra casa. 
     
Una sera più luminosa del solito, accompagnati dalla luna piena e con il cielo stranamente libero da nuvole, notammo a pochi metri dal fiume Olona, una vecchia casa diroccata, quasi completamente ricoperta di edera rampicante, secca, cadente dai tetti spioventi... 
Le finestre erano chiuse, gli scuri in legno cadenti, appesi ad una cerniera in ferro corrosa dal tempo e dalla pioggia, cigolavano per il vento.
Ci guardammo in faccia, sorridendo. Sembrava la casa dei fantasmi, pensai, e già proseguivo il mio cammino...

"Ecco, è questa la casa che voglio!"   

Le sue parole mi arrivarono all'orecchio come uno schiaffo inaspettato, restai interdetto per un attimo, poi mi girai verso di lei, pensando scherzasse. Dai suoi occhi capii immediatamente che non scherzava, era seria, anzi serissima. Realizzai immediatamente che qualunque cosa avessi potuto dire o fare sarebbe stato inutile, quella sarebbe diventata la nostra casa. Conoscevo Anna da quando era una ragazzina quindicenne e stavamo assieme da altrettanti anni, sapevo che se voleva una cosa l'avrebbe ottenuta, con le buone o con le cattive. Ci dovevo fare l'abitudine, quella sarebbe stata la nostra casa.

Il giorno dopo tornammo assieme di fronte alla casa, certo, ci sarebbe voluto un po di tempo prima di rendere abitabile quel che restava di una casa indipendente, abbandonata da almeno venti anni, ma non c'era fretta. Mentre osservavo il tetto cercando di capire quante di quelle tegole erano ancora intere, una vecchia ci rivolse la parola con quell'accento tipico legnanese che avevamo cominciato a capire ed apprezzare. Ci chiese chi fossimo e cosa volessimo e senza aspettare le nostre risposte cominciò a raccontarci della sua vita, di quando era arrivata a Legnano col marito, della loro vita felice, dei figli, del fatto che ormai era vecchia e non sentiva più bene da un orecchio (ma la lingua le funzionava ancora benissimo, pensai) e dei fantasmi che abitavano la casa che stavamo osservando...    

"Fantasmi?" La interruppi involontariamente...
"Fantasmi?" Ripeté Anna a voce alta...

E così la vecchia, che abitava proprio affianco, cominciò a raccontare dei rumori che provenivano dall'interno di quella casa, delle luci che apparivano di tanto in tanto, delle ombre scure, enormi, che aveva visto tante volte nascosta dietro le tende della finestra della cucina. Dei suoi gatti scomparsi negli anni passati e dei giocattoli rotti che di tanto in tanto trovava nel suo giardino...

Ogni parola non faceva altro che spingere Anna verso quella casa... come esche ben poste sull'amo di un esperto pescatore, quelle parole attiravano la preda verso la trappola mortale. trappola che per Anna avrebbe significato...

Non capivo come potesse piacerle, ma non provai neanche a discutere la sua scelta, anche questa volta l'avrei accontentata e poi, nel caso, me ne sarei pentito in silenzio, per amore.

Riuscimmo a scoprire chi era il proprietario della casa e nel giro di qualche mese fu nostra, solo nostra (e della banca che ci aveva concesso il mutuo) e ancora qualche mese e sarebbe stata abitabile. Ci volle più tempo del previsto a causa di una crepa nascosta che arrivava dal tetto alle fondamenta ma alla fine i lavori terminarono e la casa ci fu consegnata. Non restava che acquistare qualche mobile e fare il trasloco delle nostre cose. Comprammo una bella camera da letto. La cucina dovemmo ordinarla su misura e lo stesso per la libreria dello studio, che era ampio e luminoso. A metà maggio ci trasferimmo.

La casa aveva cambiato aspetto, l'edera rampicante cresceva rigogliosa e tutto ciò che un tempo era arrugginito e cigolante ora sembrava aver ripreso vita. Anna era felicissima e il suo viso raggiante mi aveva fatto dimenticare quella strana sensazione che avevo provato sentendo parlare dei fantasmi...

La vecchia vicina, da quando aveva saputo che avevamo acquistato non ci aveva più rivolto la parola, ci passava vicino senza salutare, triste in volto. La sorpresi una sera mentre gettava del sale di fronte alla nostra porta. In faccia aveva uno strano sorriso. Ma non ci feci tanto caso, al momento.

Erano passati diversi mesi da quando ci eravamo trasferiti nella nostra nuova casa. Sembrava che tutto andasse per il meglio e anche la vicina aveva ripreso a salutarci anche se si vedeva da lontano che non approvava la nostra presenza. Poi, una sera, un fatto inusuale mi colpì. Anna era seduta sulla sua poltrona, ne avevamo comprata un'altra, al centro della biblioteca-studio e io arrivavo dalla cucina. Al suo fianco, vicino alla mia poltrona, vidi la sagoma di un uomo chino su di lei che leggeva.
Un brivido freddo mi pervase, un urlo strozzato uscì dalla mia gola...

"Che succede, caro?!?" 
   
L'ombra scomparve... non riuscivo a parlare, avevo visto bene o era solo suggestione? 
Mi lasciai cadere sulla poltrona, senza forze, come svuotato dalla vita. 
Avevo visto un fantasma? Le parole della vecchia mi tornarono in mente...
Chi era quell'essere, là, affianco alla mia Anna? 
Lei era in pericolo?
Queste e altre domande si affacciavano alla mia mente ma non riuscivo a parlare, non potevo aprir bocca, era come sigillata. Non riuscivo a muovermi, ero come paralizzato dalla paura.

La sensazione che avevo provato alla vista di quell'ombra non era scomparsa, anzi, era più forte che mai... come se quell'essere mi osservasse alle spalle, come se mi trattenesse con braccia invisibili e mi chiudesse la bocca con labbra di ghiaccio. Non riuscivo a muovere un muscolo, ero paralizzato sulla poltrona e guardavo, con gli occhi sbarrati dal terrore... le palpebre aperte innaturalmente, le pupille dilatate. Anna era li, di fronte a me e l'ombra si faceva sempre più vicina, terribile, assetata di sangue.

Poi la colpì, una, due, dieci volte... la lama del coltello penetrò nelle sue carni e il  sangue schizzava sulle copertine dei libri, sulla tappezzeria, sulle carte del mio ultimo contratto, lentamente, appiccicoso... sangue rosso rubino.
Tentai di muovermi, di urlare, di avvisarla, di salvarla... ma non potevo far niente, potevo solo guardare quello spettacolo orribile che ora vorrei poter dimenticare.

L'ombra scomparve, silenziosa... Il tempo passava, la notte trascorse senza rumori, l'odore del sangue riempiva la stanza ma io non potevo muovermi, ero come incollato alla poltrona...
Poi la mattina dopo, cominciai a riprendermi, riuscii a muovere le braccia e poi le gambe e a trascinarmi fuori dalla casa strisciando sul pavimento. Aprii la porta e urlai a squarcia gola, una, due, tre volte...

La vecchia vicina di casa era li, di fronte a me, per niente stupita, come se avesse capito cosa era accaduto... come se sapesse! Le chiesi di chiamare i Carabinieri, balbettai qualcosa a proposito di Anna, del fantasma, del sangue... poi svenni.

Mi risvegliai in ospedale, legato al letto con una camicia di forza. Mi dissero che avevo dato in escandescenze, che avevo urlato per tre giorni, che farneticavo di ombre e fantasmi e dell'assassinio di una donna, Anna. Mi dissero di aver controllato la casa, non c'era sangue ne segni di lotta. Non c'erano neanche più i libri, solo sporcizia e i segni di una casa abbandonata a se stessa, senza la mano di una donna. 
La vecchia vicina aveva raccontato ai Carabinieri che qualche settimana prima la donna che viveva con me, Anna, mi aveva lasciato per non tornare... e io non l'avevo presa bene. Forse ero impazzito... ma non era vero. Io sapevo qual'era la verità, io c'ero stato in quella stanza, io avevo visto la vecchia, guardarmi di traverso, avevo visto l'ombra e il sangue... io.. io ero forse pazzo?!? 


Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 12 marzo 2011

Chi ha scoperto l'America realmente? Matteo Madao: la Sardegna antica, le famiglie Vivaldi e Doria.

Vi chiederete cosa significhi il titolo di questo post. Proverò a spiegarvelo in poche righe...
Iniziamo dal dire chi fosse Matteo Madao, e per farlo ricorriamo ad un testo 
Matteo Madao - Sarde Antichità
Matteo Madao fu un padre gesuita sardo, nato a Ozieri il 27 ottobre 1733, entrato nei gesuiti il 23 aprile 1753 all'età di 19 anni, muore nel 1800 a Cagliari, presso la Casa di San Michele dove si ritirò a vita comune alla chiusura della Compagnia dei Gesuiti. Ce ne parla anche il Siotto-Pintor, non con belle parole, definendolo intemperante e attribuendo l'aggettivo di "pedante" alla sua opera.
Ciò che mi interessa di Madao è il fatto che in qualità di gesuita potesse accedere a informazioni non disponibili a tutti e a riguardo delle sue opere mi interessa introdurvi alle: "Dissertazioni storiche apologetiche critiche delle Sarde Antichità" pubblicata a Cagliari nel 1792... l'opera è interessantissima dal punto di vista storico ma non è di questa che voglio parlarvi, quanto della sua "pedante" introduzione.
Quando ho iniziato la lettura dell'introduzione devo rendere atto al Siotto-Pintor delle sue ragioni nel parlare di pedanteria, ma sono andato avanti lo stesso sperando di trovare delle informazioni interessanti sulla Sardegna antica e così...
Ma andiamo con ordine.
Matteo Madao dedica la sua opera sulle antichità della Sardegna a Donna Maria Vincenza Vivaldi nata Zatrillas, Marchesa di Pasqua di Trivigno de' Conti di Villasalto, Marchesi di Villaclara e di Sietefuentes. Nella lettera preliminari Matteo elogia la signora e i suoi avi e quelli del marito, risalendo fino a che i documenti glielo consentono. E proprio di alcuni personaggi della famiglia Vivaldi, rinomata famiglia Ligure, che voglio parlare, e per farlo vi riporto una parte del testo scritto dal nostro autore.

"Basta per ogni maggior lode della casa Vivaldi la sola rimembranza de' tre soli magnanimi fratelli, Ugolino, Vadino, e Guido Vivaldi, de' quali resosi compagno Teodisio Doria, dopo aver essi quattro portata la gloria de' loro nomi e il terrore delle lor armi a varie littorali città dell'Africa, dell'Europa, e dell'Asia, tutt'essi, uniti in lega di fraternale società, tentarono di aprirsi nuova strada nell'America, e, allestite a loro spese due grosse galee nell'anno mille ducento novant'uno, per lo stretto di Gibilterra furono i primi ad inoltrarsi nella navigazione dell'Oceano coll'idea di non più far ritorno in patria, se prima non avessero scoperto il nuovo mondo, e non v'avessero piantata la croce, e la fede di Gesù Cristo colla predicazione di due religiosi di San Francesco, che avevano in compagnia, da loro invitati; e, comecchè perissero od ingoiati dalle onde tra'flutti e procelle, o trucidati da' barbari idolatri in qualche terra isolata o continente, colsero almeno i primi l'invidiabile palma d'aver essi mostrato l'arduo sentiero, agevolata la scoperta del mondo incognito, e spalancata la porta alla gloriosa impresa del celebre loro compatriotto, Cristoforo Colombo, del prode fiorentino, Amerigo Vespucci, e del coraggioso portoghese, Vasco Gama, i quali dugento e più anni in appresso imitarono l'esempio di questi eroi, la cui veneranda memoria si può dire che dura tutt'ora scolpita negli scogli e ne'lidi di questa quarta e immensa parte del mondo. Genova sarà in eterno tenuta a'suoi Vivaldi, al suo Doria, ed al suo Colombo della gloria, che le hanno recata collo scoprimento dell'America, e le tre parti del mondo vecchio saranno in perpetuo obbligate a Genova dell'acquisto del nuovo..."

Ecco quanto mi interessava condividere con voi.
La storia di quattro genovesi che, accompagnati da due Francescani, nel 1291 partirono alla volta di una quarta parte del mondo... avventura che Matteo Madao dice essersi conclusa male.
Mi chiedo, se si è conclusa male, perché poco dopo dice che i quattro genovesi aprirono la strada dei più fortunati Colombo, Vespucci e Gama? 
Forse qualcuno tornò per raccontare qualcosa, racconto tenuto segreto per motivi di opportunità?     
E da dove il nostro autore trasse le notizie? Dagli archivi francescani, gesuiti o dagli archivi privati della famiglia Vivaldi?
Sarebbe veramente interessante approfondire questa storia e io come al solito cercherò di farlo e se scoprirò qualcosa ve ne renderò partecipi!

A presto...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 11 marzo 2011

Giuseppe Flavio: sugli Egizi

Come ho già più volte ricordato nei precedenti post, Antichità Giudaiche è ricco di curiosità. Questa volta voglio condividere con voi alcune curiosità sugli Egizi. Vi avverto subito che Giuseppe Flavio usava scrivere "Faraothe" per Faraone. Ed ecco la spiegazione dell'origine del termine:
Libro VIII, VI, 2
"Ora a coloro che domandano perché i Faraothi dall'Egitto, da Minaia, fondatore di Memfis, che visse molti anni prima del nostro progenitore Abramo, fino a Salomone (un intervallo di più di milletrecento anni) erano chiamati Faraothai, prendendo questo nome da Faraothes, re che regnò dopo quel periodo, ho ritenuto necessario spiegarlo per allontanare la loro ignoranza mettendo in chiaro il motivo di questo nome: 'Farao' per gli Egiziani infatti significa 'Re'..."

Giuseppe Flavio spiega che allo stesso modo in Alessandria i Re venivano chiamati Tolomei, dal nome del primo Re e i Romani prendono il nome di Cesari...

"Penso che sia per questa ragione che Erodoto di Alicarnasso, quando afferma che dopo Minaia (fondatore di memfis) ci furono in Egitto trecentotrenta Re, ma non ne da i nomi, è perché tutti erano cumulativamente chiamati Faraothai. E, invero, allorché dopo la morte di questi Re, regnò una donna come regina, egli ne da il nome, Nicaule, offrendo un chiaro argomento che, mentre i Re maschi potevano portare tutti lo stesso nome, la donna non poteva portare: per questo motivo la menziona col nome che le apparteneva dalla nascita."

Dunque secondo Giuseppe Flavio vi è una qualche differenza nella regalità maschile e femminile.

Giuseppe afferma che dopo Salomone nessun Re d'Egitto, ad eccezione del suocero, prese il nome di Faraothe. Aggiunge inoltre che nel periodo di Salomone regnò la donna di cui parlò in precedenza, sembrerebbe dunque che la regina di cui si parla fosse Nicaule, anche se altri dicono si trattasse della Regina di Saba.
Questa Regina si recò in visita a Salomone per conoscerlo e verificare di persona quanto si diceva sulla sua saggezza.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 10 marzo 2011

Giuseppe Flavio: Davide e la pestilenza...

La lettura di Antichità Giudaiche fa pensare a quanto differente fosse la religione Ebraica da quella Cristiana...
Dio è forse lo stesso, ma è visto in modo totalmente diverso.
Volete un esempio? 
Eccovi un brano tratto dal libro VII delle Antichità che potrebbe essere intitolato sarcasticamente "Dio è caritatevole e ci perdona"...

Davide aveva commesso un grave peccato, ordinando un censimento (senza rispettare le regole imposte per questa azione) al che:
"I profeti informarono Davide che Dio era in collera con lui; ed egli si volse a supplicare e a domandarGli di avere misericordia e perdonargli il suo peccato. Allora Dio gli inviò il profeta Gad a offrirgli di scegliere fra tre alternative, quella che giudicava migliore: poteva scegliere tra l'avvento di una carestia su tutta la regione per sette anni; o tre mesi di guerra contro i suoi nemici e subire una disfatta; o un morbo che colpisse gli Ebrei per tre giorni."

Ecco dunque che la misericordia di Dio scese sul popolo di Davide... Dio infatti "mandò agli Ebrei morbo e pestilenza; essi morivano, ma non tutti nella stessa maniera, sicché la malattia si potesse facilmente individuare; ma mentre dilagava un unico male, innumerevoli erano le cause..."

Ecco come viene rappresentato Dio... non voglio certo dire che fosse giusto o sbagliato, forse era semplicemente il modo adatto a quei tempi antichi!